lunedì 28 settembre 2009

Le ragazze con la valigia

Care fanciulle e fanciulli, saluti e baci.
Manco ho fatto in tempo a tornare, che già tocca rimettersi in viaggio.
Stavolta, se non altro, per un bel motivo.
Ovvero, portare al mare la mia mamma, che causa l'oramai arcinota frattura al braccio le spiagge quest'estate le ha viste in cartolina.
La vacanza l'ha organizzata mia sorella, grande maestra del last minute. Nel senso che le cose le organizza, letteralmente, all'ultimo minuto.
Infatti non so ancora dove andremo. Né quanto tempo ci resteremo.
L'unica cosa certa (ma non del tutto) è che si parte domani. Ora ignota. Unica raccomandazione, quella di mettere il costume in valigia.
Lascio una montagna di roba da fare al lavoro, e un amato bene stracolmo di impegnacci e che non ho avuto modo di provvedere di scorte alimentari.
Lui se la caverà benissimo, come sempre.
La roba da fare, da sola non se la cava. Mi attenderà al ritorno, insieme a quella che si accumulerà nel frattempo.
E' la prima volta in oltre vent'anni che mia, madre, mia sorella e io si fa una vacanza tutte assieme.
Pertanto è occasione importante, e ricca di significati.
Sarà per quello che, come si suol dire, me viè da piagne.
Augurateci buon viaggio e tanto sole. Indirizzate al mio amato bene un bacetto (sì, anche se siete maschi: non si scandolezza, è uomo di mondo anche se non ha fatto il militare a Cuneo), visto che tapinello se ne resta solo ancora una volta per un discreto lasso di tempo. E visto che ci siete, ditemi una preghierina: può darsi che ne io ne abbia bisogno.
Buona permanenza. E, spero, a presto.
Yours sincerely,
JessieRicetta

sabato 26 settembre 2009

Lost in translation: Lupin III e il castello di Cagliostro

Lo so: dopo la trasferta in quell'amena città della Riviera Adriatica, sarebbe d'obbligo un post sui segreti della piada romagnola o sulla metodologia per tirare una sfoglia a regola d'arte giusta i consigli carpiti a qualche rezdora che abbia passato l'ottantina. Ma visto che durante la succitata trasferta mi sono nutrita esclusivamente di piè al gusto di bitume (il solo cibo che si potesse trovare nel quartiere fieristico ove ero reclusa, se si escludono prelibati arancini Doc importati dalla Corea del Nord) e al ritorno ho dovuto combattere con un fiero raffreddore che mi ha causato papille gustative interrotte ed emissioni nasali la cui portata superava di gran lunga quella dell'acquedotto pugliese, di cucina non se ne parla. Devo anzi dire che mi dedicherei volentieri a fruttifere attività quali osservare il soffitto da un punto privilegiato quale è il divano, darmi del tu con il materasso, o impegnarmi in piacevole conversazione con una vaschetta di gelato.
Ma visto che l'ineffabile bimamma Valentina di Passodoppio mi ha complimentato per gli scherzucci da dozzina che qui pubblico, mi par cosa doverosa dare un calcio alla pigrizia e mettermi alla tastiera.
Proprio in omaggio alla professione della bimamma, mi sembra opportuno dedicarmi a un argomento che, anche per motivi professionali, mi ha sempre interessato parecchio: la traduzione e adattamento per il pubblico occidentale dell'animazione giapponese, un tema su cui tutti gli otaku prima o poi si danno, e non a torto, a un torrente di imprecazioni causate da risultati a dire poco criminali. Lupin III e il castello di Cagliostro, considerato il più bel lungometraggio dedicato al ladro gentiluomo creato da Monkey Punch, non è forse fra gli esempi che si prestino meglio alla bisogna: ce ne sono di ben peggiori. Ma proprio il suo non essere fra i peggiori lo rende adatto a trarne qualche considerazione generale.
Il protagonista, non credo necessiti di introduzione: lo conoscono dal Manzanarre al Reno grazie a due serie televisive di enorme successo che vennero trasmesse quando io ero in età scolare - gli esperti mi diranno che le serie sono tre, ma io mi rifiuto per decoro di considerare quella con il Lupin in giacchino rosa - e, a giudicare dal numero di pischelli che girano esibendo magliette con stampigliata in bella vista la faccia un po' scimmiesca dell'eroe eponimo, gode ancora di enorme popolarità. All'epoca, personalmente, non mi fece impazzire: i motivi sono diversi, non da ultimo il tasso di misoginia e sessismo presenti a palate in diversi episodi (sì, anche quando ero piccola Camille Paglia poteva farmi da lacchè). Facevo però un'eccezione per una manciata di puntate che si distinguevano per trame coinvolgenti, per un'ironia tagliente unita a toni da commedia, per una Fujiko - ben diversa dalla Margot balconata e sgallinante comprimaria del Lupin in giacca rossa - doppiogiochista sì ma non viscida e anzi spesso parecchio brillante, e per un Lupin che, sfoggiando una bella giacchetta verde, sfrecciava su un cinquino Fiat.
L'eccezione era motivata. Un volta cresciuta e dotata degli strumenti che ci offre la tecnica moderna, scoprii che quella manciata di episodi erano fior di farina del sacco di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, che chiamati a salvare la débacle in cui stava franando la produzione trasformarono una serie banale e un protagonista playboy, piatto e con il grilletto facile, in un piccolo capolavoro.
Il quale capolavoro meriterebbe trattazione a parte, e qui non c'è lo spazio. Basti dire che quella serie è considerata la migliore fra tutte, che nonostante lo scarso gradimento iniziale nel corso degli anni venne premiata da un successo travolgente, e che proprio il successo determinò l'idea di fare un lungometraggio con Miyazaki alla regia.
Il castello di Cagliostro è il suo ultimo film su commissione: ma Miyazaki è Miyazaki, e qualunque opera affronti, su commissione o meno, reca il suo riconoscibile marchio. E anche qui lo si nota più o meno ovunque: nella maniacale accuratezza delle scenografie (straordinari gli spazi del maniero dove si ambienta la maggior parte dell'azione, con l'intrico labirintico che poi si ritroverà ne La città incantata, il borghetto che riproduce fedelmente le architetture di una cittadina mediterranea, i panorami ricchi di scenari alpini, colli e laghi), nella presenza di un autogiro d'antan che ha un ruolo fondamentale in uno dei momenti chiave della storia, negli ingranaggi dell'enorme torre dell'orologio in cui si svolgerà il climax, e non da ultimo in personaggi femminili tosti e coraggiosi, con Fujiko che si destreggia disinvoltamente fra moto, mitra e matrici da falsari, e una principessa dagli occhi blu che non è la solita principessa e non teme di sfidare le pallottole dello sgherro di turno o di camminare su un cornicione che dà a piombo su un cortile situato una trentina di metri più in basso. Ma basterebbe già il personaggio principale a dare la misura dell'intervento di Miyazaki: pur non perdendo le sue note caratteristiche (non da ultimo, un notevole interesse per l'altra metà del cielo), Lupin è contraddistinto da un acuto senso di giustizia, che gli fa abbandonare la ricerca del profitto per mettere a nudo, complice l'integerrimo ispettore Zenigata, le nefandezze che il conte di Cagliostro macchina con la complicità delle alte sfere internazionali al fine di dominare l'economia mondiale. Più che la presenza di Monkey Punch, si direbbe, si sente quella di Karl Marx.
Giacché Il castello di Cagliostro si trova facilmente in DVD e in più edizioni, non rivelo nulla della trama: basti dire che la sceneggiatura per vivacità e colpi di scena fa sembrare qualunque film di Bond un documentario sui castori, che la scena iniziale dell'inseguimento (con Lupin alla guida di un cinquino modificato e la principessa che in fuga dagli scagnozzi di Cagliostro pigia l'acceleratore di una gagliarda Due Cavalli, omaggio di Miyazaki alla sua prima macchina) mandò in estasi Steven Spielberg quando il film venne proiettato a Cannes trent'anni fa, e che l'irrinunciabile storia d'amore è relegata, grazie al cielo, al ruolo di mera sottotrama e viene risolta con delicatezza, umorismo ed eleganza. Acquistatelo, o fatevelo prestare da un amico. Vedetelo doppiato, così vi godrete una storia e un'animazione di qualità fuori dal comune.
Poi provate a vederlo in originale con sottotitoli. Se quelli dell'edizione inglese, meglio ancora.
Risate assicurate, anche se non disponete, come me, di un compagno di casa e di vita che ha buona dimestichezza con la parlata sollevantina. Perché vi parrà di star vedendo un film muto, e vi chiederete dove accidente è finita Louise Brooks (non conoscete Louise Brooks? Filate su Wikipedia. Subito).
Caratteristica di molti adattamenti per il pubblico occidentale, e Cagliostro non fa eccezioni, è infatti spiegare diffusamente ciò che si vede sullo schermo, nonostante i personaggi dell'anime di turno nell'originale siano in beato silenzio: ma si sa, il pubblico occidentale è cretino, solo vedendo non comprende, per cui è il caso che il solerte traduttore aggiunga monologhi a palate, i quali vengono pronunciati a mitraglia dal povero doppiatore in un momento in cui il personaggio, bontà sua, è di spalle. Poco importa che uno spettatore di media intelligenza possa dedurre da sé la rava e la fava nel mentre che la trama si dipana, e che si possa giustamente inferocire perché gli si rovina la sorpresa. In Cagliostro il pubblico italiano si becca un discreto numero di spoiler proprio all'inizio, nella scena in cui Lupin e Jigen stanno osservando il castello del temibile conte e in cui nell'originale si scambiano a malapena qualche grugnito. Gli spettatori statunitensi, in compenso, nella stessa scena beneficiano di uno sproloquio che per lunghezza rivaleggia con il Mahabharata e che rivela buona parte del perché e del percome il conte è un individuo pericoloso e quali cose fosche ha combinato. Il tutto con largo anticipo sullo sviluppo della storia.
Va detto che se non altro agli yankees non vengono ammannite le perle che costellano il primo doppiaggio italiano (e che sono fortunatamente scomparse in quello più recente), ricco di quelle strizzatine d'occhio che dovrebbero piacerci tanto: basti dire che un vescovo diventa il Papa - sempre clero è, mi dirà qualcuno: e io gli rispondo che, almeno quando si traduce, i distinguo non sono un optional -, che una città anticoromana diventa l'antica Roma, cosa un filino risibile se ci si trova nel bel mezzo delle Alpi europee e a due passi da un castellazzo in mezzo a un lago che pare il gemello più corrusco di Mont-Sant-Michel, e che l'ispettore Zenigata - pardon, detective nel doppiaggio - nel finale mostra un pauroso sbandamento paternalistico che pare uscito dritto dritto dalle peggiori pagine di Cuore. Non sono gli unici casi: a voi il piacere di scoprire il resto.
Siamo d'accordo: tradurre, e adattare, è anche un po' tradire. Ne sono ben consapevole. Per lavoro o per piacere mi trovo spesso di fronte a espressioni o situazioni che son facili e piacevoli da districare quanto il gomitolo di lana con cui il micio si è dilettato mentre voi guardavate dall'altra parte. Però c'è un limite a tutto.
Anche perché, a furia di tradire, va a finire che tradisci la trama, la natura dei personaggi, e non da ultimo chi fruisce del prodotto finale. E chi fruisce, in questo caso, è assai probabile che conosca più che bene il protagonista, i comprimari, il loro carattere, e il contesto in cui abitualmente si muovono.
E che si arrabbi, come mi sono arrabbiata io che pure di Lupin non sono un'esperta, fin dai primi minuti del film, grazie a dimostrazioni di pigrizia da parte del traduttore come quella che segue. E che già da sola è la cartina di tornasole di un lavoro fatto con i piedi: perché se ti prendi in carico l'adattamento di un film di Lupin devi fare qualche ricerchina in modo da sapere ad esempio, cosa nota persino alle casalinghe di Montecompatri di Sotto, che il protagonista se vede qualunque esemplare di sesso femminile va in tilt.
La scena è quella subito prima del citato inseguimento che fece impazzire Spielberg. Lupin sfumazza pacioso sul cinquino a due passi da Jigen che ha appena sostituito una ruota bucata, quando arriva a tutta birra la Due Cavalli della principessa seguita da una macchina irta di uomini in nero. In un lampo Lupin è alla guida, mette in moto e il cinquino schizza via con Jigen che a malapena fa in tempo a salire, e che giustamente chiede lumi. Lupin risponde. Ecco qui il dialogo, in giapponese (da me malamente traslato in caratteri latini) e nelle diverse traduzioni fornite ufficialmente.
Versione originale:
Jigen: "Docchi ni tsuku?"
Lupin: "ONNA!"
Versione sottotitolata statunitense:
Jigen: "Che succede? Perché corri in questo modo?"
Lupin: "Quella ragazza è in pericolo! Dobbiamo aiutarla!"
Primo doppiaggio italiano:
Jigen:"A quale ci affianchiamo?"
Lupin: "Alla sposa, Jigen!"
Secondo doppiaggio italiano:
Jigen: "Per chi parteggiamo?"
Lupin: "Per la ragazza!"
Noterete che nelle diverse versioni c'è qualche piccola discrepanza. E c'è perché nessuna traduzione corrisponde esattamente all'originale. Il quale, ça va sans dire, si adatta come un guanto alla personalità di Lupin. E che, per inciso, vuol dire quanto segue.
Jigen: "Chi seguiamo?"
Lupin: "La DONNA!"
Forse per noi occidentali non era abbastanza chiaro.
Ma si sa, un piccolo aiuto è necessario: il Giappone è un altro mondo.
Anzi, un altro mondo è riduttivo. Un comunicato stampa giuntomi di recente da parte di una nota agenzia di viaggi e prontamente finito nel cestino, lo definiva "un altro pianeta, una sorta di Plutone, di Giove, di Nettuno, in cui ci troviamo proiettati in un'altra dimensione".
Sarà per quello che tanti aspetti nelle opere di animazione nipponica vanno a finire, per citare quel bel film di Sofia Coppola, lost in translation.
E io sono certamente maligna a pensare che forse la siderale lontananza della mentalità e lingua giapponese non c'entrano un amato zero, che volendo si possono produrre adattamenti di brillantezza e qualità sublime, e che il motivo principale di quanto si perde in traduzione sia dovuto al fatto che i cartoni, giapponesi o meno, sono roba da bambini, o da bambini cresciuti e però disposti a spendere, per cui tanto vale tirar via e far sì che il prodotto vada a finire sul mercato il prima possibile e come viene viene.
E sono certamente ancor più maligna a pensare che a traduttori e adattatori in genere vadano in certi casi mozzate le manine, visto che producono gioielli come "ho dimenticato la mia montre" (in originale "I forgot my mantra", in Io e Annie di Woody Allen, tramutando una preghiera buddista in un orologio francese), "si è preso un passaggio anche da me!" (frase che avrà stupito alquanto chi vedeva Le streghe di Eastwick, visto che non si parlava di macchine ma di un preside donnaiolo: infatti l'originale è "he made a pass at me too", cioè "ci ha provato anche con me"), o "io voglio più vita, padre" (nel celeberrimo Blade Runner: peccato che nell'originale uscito in sala non ci fosse father bensì fucker). Eccetera eccetera.
Sicuramente esagero. Del resto, non abbiamo noi una tradizione nell'adattamento e nel doppiaggio che il mondo intero ci invidia?
Ne convengo rispettosamente.
E continuerò a vedermi film e anime in originale. Questi ultimi, ovviamente, con il gradito aiuto del nippofono amato bene.
E' arrivato il momento di darsi del tu con quella vaschetta di gelato. Santori time!
Buon weekend.

giovedì 10 settembre 2009

Fedele alla linea: pollo con verdure

"Mauro, mi fanno male i piedi..."
"Eeeeeh..."
Mi inquieto sempre quando Mauro fa i suoi "eeeeeh" sì carichi di significato.
In genere quando li fa io taccio, poi torno alla carica.
"E secondo te cosa dovrei fare?"
"Mah, un po' di movimento... Ti farebbe bene del nuoto, o anche semplicemente camminare..."
"E secondo te basta a far passare il male?"
"Eeeeeh..."
Quello che Mauro, bontà sua, non dice, è che se ogni volta che salgo sulla bilancia poi devo consolarla causa pianto dirotto della stessa e pagarle una seduta di psicoterapia per farle superare il trauma, è ovvio e inevitabile che mi facciano male i piedi.
Quindi, digrignando i denti peggio dell'orribile Grendel in un momento di particolare malumore, sto facendo i conti con la necessità di fare quella cosa poco simpatica che inizia per la lettera d.
La quale cosa è sempre una mestizia, perché non è che si possa giocare più che tanto con gli ingredienti.
E men che meno con i condimenti.
Insomma, una pizza. Di quelle metaforiche, purtroppo.
Però visto che i piedi mi fanno male e anche le ginocchia iniziano a scricchiolare in maniera preoccupante, mi pare cosa utile riflettere sull'opportunità di qualche piattuccio che associ una quantità peccerella di calorie a un sapore (e aspetto, ché pure quello vuole la sua parte) che non sia la sagra della mestizia.
Questo pollastro con verdure ha secondo me le due caratteristiche sunnominate e pure il vantaggio di prepararsi in scarso tempo. Per cui, mi pare ottimo per iniziare.

Ingredienti per due persone:
300 grammi di petto di pollo privato di grasso, ossetti & filamenti
300 grammi di carote al netto dello scarto
400 grammi di finocchi idem come sopra
un cucchiaio d'olio (ovvero 5 grammi)

Preparazione:
fate riscaldare per bene la bistecchiera e versateci su un po' di succo di limone, quindi grigliate il pollo al solito modo (tot di tempo da una parte, tot dall'altra, e non eccedete sennò diventa una suola di scarpa).
In due pentole separate (i tempi di cottura sono diversi, quindi non è il caso di fare zozzerie) lessate al dente, e sottolineo al dente, i finocchi e le carote, avendo cura di mettere nell'acqua di cottura odori come alloro, sedano, pepe, peperoncino e qualunque cosa vi garbi. E non uscitevene con il pregiudizio che le spezie fanno ingrassare: è una colossale fesseria.
Tagliate quindi le verdure a tocchetti o striscioline o come vi piace e mettetele a mo' di montagnetta su un piatto.
Sulla montagnetta, ponete quindi il petto di pollo dopo averlo tagliato a quadrucci, losanghe, trapezi, a seconda della voglia e fantasia.
Con somma cautela versate sul tutto i famigerati cinque grammi d'olio. Quindi, date una bella spruzzata di pepe, che male non fa.
Vi garantisco: buono, è buono.
Non sarà una bistecca con sauce béarnaise, ma è buono.
Però mentre mangiate non pensate alla bistecca con sauce béarnaise, sennò vi verrà da piangere peggio della mia bilancia.
Domani vado in trasferta lavorativa. Ditemi una preghierina. Se mi riesce, posterò dall'amena città immortalata in una bella canzone di Fabrizio de André. Altrimenti, ci si ribecca fra dieci giorni.
Bon aptì.

mercoledì 9 settembre 2009

Melanzane con il riso

Mi sia concessa una piccola lamentala: regà, che fiacca.
E non è dovuta al caldo che finalmente sta levando le tende.
Bensì al fatto che certe volte non si sa a chi dare i resti.
E più che impugnare un mestolo o un matterello, in questo periodo metterei volentieri mano a quello che nella Capitale vien definito tortòre, ovvero bastone grosso e nodoso, per andare a scassare un po' di zucche in giro.
In primis quelle di certi medici, che pur di far denaro con le loro private attività venderebbero l'anima al diavolo, se non l'avessero già venduta, e suggeriscono a una signora che si è appena tolta il gesso portato per un mese e passa di fare interventi assolutamente inutili o terapie altrettanto inutili. Entrambi, ovviamente, pagando fior di quattrini.
Ma questo tra parentesi. E meno male che qualche medico comme il faut ancora si aggira per gli ospedali.
Codesto piatto è dedicato alla succitata signora che si è appena tolta il gesso, ed è grande appassionata di melanzane e riso.

Ingredienti:
3 melanzane del tipo lungo e stretto
un pugnetto di riso per ogni melanzana
pomodoro fresco
due o tre cucchiai di parmigiano
basilico e odori a piacere

Preparazione:
lavate le melanzane, tagliate il picciolo, con il coltello togliete la polpa interna in modo che restino delle barchette e tagliuzzatela. Fatela quindi scottare in padella con un po' d'olio e aglio (da rimuovere se non garba) e aggiungetevi il riso, facendolo tostare come se steste facendo un risotto. Aggiungete quel tanto d'acqua che serve per far arrivare il riso a metà cottura (calcolatene un bicchiere piccolo), quindi aggiungete il parmigiano.
Foderate una pirofila con della carta da forno, ponetevi le barchette di melanzana (curando di incidere la parte interna con dei taglietti trasversali, badando però a non tagliare l'involucro), irroratele con olio, sale e un po' di pepe e quindi aggiungete il riso. Come tocco finale, mettete sul riso qualche pezzetto di pomodoro fresco e una spruzzatina di parmigiano.
Mettete la teglia in forno già caldo a 200° e fate cuocere per una mezz'ora circa. A vostra scelta, portate quindi in tavola le melanzane bollenti quale primo piatto oppure a temperatura ambiente, nel qual caso si riveleranno un ottimo antipasto.
Sto per andare in trasferta dieci giorni, per cui temo che non avrò modo di fare le melanzane con il riso alla mia mamma.
Ma, per la miseria, sarà la prima cosa che faccio quando torno.
Oltre a farle fare la vacanza al mare che, causa rottura del succitato braccio, è andata giù per il secchio.
Life's a bitch, and then you fight.
Paperblog