mercoledì 30 dicembre 2009

Lasagne in brodo

Quello che vedete qui sopra è un semplice rimasuglio: le lasagne in brodo si presentano assai meglio. Ma la misera porzione qui ritratta era il poco che era rimasto dopo che la famiglia intera al pranzo di Natale ha dato assalto alla teglia, e a malapena sono riuscita a scattare la foto sotto lo sguardo impaziente di mia sorella, con cui mi sono equamente spartita il succitato rimasuglio. Suscitando certamente l'invidia degli altri commensali, giacché le lasagne in brodo sono buone, ma buone davvero.
Al paesello è il piatto per eccellenza del 25 dicembre, e la ricetta si tramanda di generazione in generazione. La zia Maria e la zia Lella lo preparano seguendo rigorosamente i dettami della tradizione familiare, il che include ovviamente non impiegare le banalissime lasagne che si acquistano già pronte al supermercato ma farle da sé. E' ovvio che chi vuole può risparmiarsi almeno una parte della fatica (perché, mettetevi l'anima in pace, per preparare le lasagne in brodo ci vogliono due giorni), ma chiunque abbia provato le sfogliavelo Maria Iannucci vi dirà che non c'è paragone. Pertanto posto la ricetta punto per punto come la fanno ora le zie e prima di loro la nonna e la nonna della nonna, con l'unica differenza che oggi 'u callare lo si può mettere sul fornello anziché affumicarsi nel camino e si può impiegare la macchinetta per la pasta. Il che già fa la sua brava differenza.
La quantità è per dieci commensali, e se gli ingredienti vi paiono eccessivi sappiate che il bis sarà di rigore per qualunque buongustaio. Va da sé che, se anziché prepararle per il pranzo di Natale ammannirete le lasagne in brodo per quello di Capodanno, non si offende nessuno e anzi vi saranno tutti grati.

Ingredienti:
- per le lasagne
nove uova
circa un chilo di farina
un goccio d'acqua
- per il brodo
una gallina rigorosamente ruspante, privata della testa, delle zampe e delle interiora
prezzemolo
una carota
una cipolla
un pomodorino
sale quanto basta
- per le polpettine
due etti macinato di vitello
un pugno di parmigiano
un pugno di mollica di pane
un uovo
- per condire
tre etti abbondanti di scamorza passita morbida
un etto e mezzo di parmigiano

Preparazione:
anzitutto il giorno prima fate il brodo, che va preparato con calma e a ritmo lento come si confà a un brodo che voglia meritare questo nome.
Mettete la gallina in una pentola grande a sufficienza da contenerla comodamente, aggiungete acqua in modo che sia completamente ricoperta e fate bollire a fuoco medio-basso. Nel mentre che cuoce vedrete che sulla superficie si forma della schiuma: con santa pazienza toglietela con la schiumarola, sennò nel brodo resterà un orrido fondo scuro e assai poco appetitoso che lo intorbida. Una volta tolta tutta la schiuma aggiungete prezzemolo, carota, cipolla e pomodoro e attendete fino a cottura completa. Lasciate raffreddare qualche ora, quindi filtrate il brodo con un colino a maglie molto strette e tenete da parte sia lui che la gallina.
Nel frattempo che il brodo sta bollendo per fatti suoi oppure il giorno dopo vi potete dedicare alle polpettine. Impastate a lungo gli ingredienti fino a quando non avrete un bell'impasto morbido e liscio, ungetevi le mani e fate delle polpette ben rotonde grandi al massimo quanto una biglia, se vi riesce anche meno. Dette polpette vanno poi lessate in acqua o meglio ancora nel brodo, quindi messe da parte anche loro.
La mattina successiva è arrivato il momento di darsi del tu con le lasagne. Farina, uova e quel poco d'acqua vanno impastate con gagliardìa e quindi ridotte in sfoglia impiegando la macchinetta per la pasta, procedendo man mano fino all'ultimo buco per farle il più possibile sottili (va da sé che se siete rezdore da premio potete impiegare il mattarello, ma ci metterete più tempo per una ricetta che di tempo ne richiede già parecchio). Le lasagne vanno quindi lasciate asciugare, lessate in acqua bollente - toglietele dalla pentola non appena salgono alla superficie - e lasciate riposare ben stese su un telo pulito.
Fatto ciò, si può procedere con la costruzione della lasagna in teglia, ovvero nel ruoto, che come dice il suo nome ha forma circolare e deve essere di dimensioni congrue (se non proprio la proverbiale ruota di bicicletta, poco più piccolo).
Mettete sul fondo un doppio strato di pasta e conditelo con parmigiano, polpettine e mozzarella passita morbida, e continuate quindi con uno strato singolo di pasta fino a esaurimento degli ingredienti. L'ultimo strato sarà ovviamente di pasta e andrà spruzzato di parmigiano e condito con un par di polpettine e due pezzetti di scamorza.
In ultimo, si versa nella teglia il brodo in modo che le lasagne siano ben ricoperte dallo stesso, sennò in cottura ci patiscono.
Mettete quindi a cuocere le lasagne sul fornello a fuoco basso per almeno venti minuti, avendo cura di pungere ogni tanto la superficie con i rebbi della forchetta perché ha la tendenza a sollevarsi.
Fate quindi le porzioni ben lontano dalla tovaglia (ciò vi eviterà schizzi di brodo sulla stessa, il che dopo ore passate a spignattare può causare crisi di isteria anche nella cuoca più flemmatica) e portate i piatti in tavola con l'aiuto del commensale volenteroso che grazie al cielo non manca mai.
Se tutto è andato come deve andare il brodo sarà dorato e trasparente, la lasagna compatta e gustosa, la mozzarella passita filerà che è una bellezza e tutti gli invitati spazzoleranno il loro piatto con somma soddisfazione. E, ça va sans dire, vi chiederanno il bis, per cui non sperate che avanzi qualcosa da riproporre la sera all'orda famelica.
C'è chi farcisce le lasagne con pezzi di gallina lessata anziché con le polpettine. Si può fare, ma io vi suggerisco il modus operandi che si segue a casa mia: la gallina serbatela e servitela dopo le lasagne ben accompagnata da salsa verde casalinga (altro cavallo di battaglia delle zie), così fornirete ai commensali un secondo coi fiocchi e senza nessuna ulteriore fatica.

martedì 29 dicembre 2009

Capitone arrosto di zia Maria

Anzitutto mi scuso per non aver fatto gli auguri. Non era mia intenzione comportarmi da bifolca, ma il lavoro è stato parecchio e la mattina del 24 sono uscita dall'ufficio per correre in stazione a prendere il treno per il paesello manco mi inseguisse un drago armato di forcone. Giacché nello heimat si sa di Internet giusto per sentito dire (ho provato l'emozione di ascoltare nuovamente il brusio del modem a 56k nel tentativo vano di connettermi), postare era al di là delle mie possibilità. Rimedio adesso proponendovi uno dei piatti che la sera della Vigilia non manca mai sulla nostra tavola, come su tante altre: il capitone arrosto, fatto da zia Maria seguendo i dettami di mia nonna. Le foto sono scarse perché zia Maria è una di quelle signore di antico stampo per le quali è stato coniato il motto "Chi si ferma è perduto", e pertanto non ama avere intorno nipoti che fanno un sacco di domande e come se non bastasse pretendono pure di ritrarre la pietanza di turno dall'angolazione migliore. Sono riuscita a carpirle la ricetta fra uno sprint e l'altro inseguendola per tutta la cucina, e la posto con qualche integrazione poiché la zia è alquanto telegrafica.
Va fatta una necessaria premessa: la cosa migliore è farsi procurare il capitone da Fernando Monteferrante, che essendo degno erede di una famiglia di pesciaioli da più generazioni è capace di scegliere il capitone migliore a occhi chiusi. Se non avete la fortuna di disporre di un equivalente di Fernando Monteferrante, arrangiatevi presso il vostro pescivendolo di fiducia ma sappiate che non è la stessa cosa. Se poi per caso il capitone si muove scappando per tutta la cucina nonostante sia già regolarmente defunto, Fernando consiglia di metterlo per una mezz'oretta nel congelatore, così non sguiscia più e ci si può mettere all'opera senza dover imitare Mennea.

Ingredienti:
un bel capitone grassoccio
poco olio
farina di mais macinata non troppo sottile
rametti di prezzemolo e alloro

Preparazione:
per prima cosa ovviamente pulire il capitone come segue: fatelo a pezzetti lunghi più o meno mezzo palmo, lavatelo e strofinatelo bene con la farina di granturco per togliere l'appiccicaticcio dalla pelle, quindi rilavatelo e asciugatelo.
Preparate a parte una ciotolina con acqua e olio e immergetevi un paio di gambi di prezzemolo e un rametto di alloro.
Mettete i pezzi di capitone in una teglia antiaderente sul cui fondo avrete già messo un filo scarso d'olio e qualche foglia d'alloro, cospargeteli con un po' di sale e fateli cuocere in forno a 150°, avendo cura di spennellare di tanto in tanto il capitone con olio della ciotolina impiegando i rametti di prezzemolo e di alloro.
Punzecchiate con i rebbi della forchetta per controllare la cottura. Quando la carne è morbida tirate fuori dal forno e servire con contorno di insalatina, che ci sta assai bene perché il capitone è bello grassoccio. Secondo me, però, la cosa ideale è un bel cavolfiore lessato al dente e condito con una goccia di aceto.

martedì 15 dicembre 2009

Strudel di Santa Lucia

Driiiiinnnn.
"Pronto?"
"Bella, scusa se ti disturbo. Puoi scendere un attimo?"
"Zia, non mi dire che sei venuta fin qui con questo tempaccio."
"No, è che ho fatto una cosetta, se puoi venire a prenderla..."
La cosetta è una delle istituzioni gastronomiche della mia famiglia. Si è sempre fatta in occasione di Santa Lucia, onomastico di mia sorella. Per gli amici è nota come "strudel al metro", per via della quantità: in una delle ultime occasioni la zia e io ne abbiamo preparati un totale di sette metri e mezzo.
Quest'anno non avevamo molta voglia di festeggiare, e la tradizione è stata interrotta.
Ma solo per poco.
Ieri la zia ha provveduto a farlo da sé, per una volta senza il mio aiuto, per portarlo a mia sorella e a me, visto che il 13 dicembre cadeva l'onomastico anche del mio compagno.
Il tutto a ottantatre anni, e sotto la pioggia battente.
La zia Lella è tosta.
Dovrei prendere esempio.
Lo strudel è stato recapitato ben avvolto in carta da regalo. Anche l'occhio vuole la sua parte, e la forma spesse volte è contenuto quanto il contenuto stesso. Un atto di grande tenerezza, un invito a ricordare che la vita continua.
Stamattina le ho chiesto la ricetta. Nonostante l'abbia fatto con lei diverse volte, non mi ricordo mai le dosi. Non so neppure come lo strudel sia entrato a far parte del patrimonio cucinario di famiglia. Le principali indiziate sono zia Cecilia, una vivace signora tedesca che nonostante decenni di permanenza nello Stivale parlava come il sergente delle Sturmtruppen (la sua pronuncia di Borgo Pio come "Porco Pio" è una delle pietre miliari nel lessico familiare), o la raffinatissima zia Nora, ebrea polacca sposatasi con un cugino della mia nonna paterna poco prima che il pelato di Predappio avesse la geniale pensata di promulgare le leggi razziali, cosa che ebbe le sue amene conseguenze ma che non impedì alla zia Nora e al marito di condividere affettuosamente decenni di vita e di arrivare a tardissima età. Ma può ben essere che sia frutto della curiosità della zia Lella stessa, inesauribile nel cercare nuove cose in cucina e non solo. Come che sia, lo strudel è squisito.
La ricetta mi è arrivata in una busta, e la trascrivo tale e quale è stata scritta dalla zia.
"Per la pasta:
farina gr 250
1 uovo intero
2 cucchiai di latte
una noce di burro fuso
una presa di sale e una di zucchero

Lavorare la pasta a lungo e lasciarla riposare coperta con un tegame caldo.

Ripieno:
4 mele renette tagliate a fette sottili
5 cucchiai di mollica di pane imbiondita in padella con una noce di burro
50 gr di uvetta sulatina ammorbidita nella marsala
pinoli o noci tritate
100 gr di zucchero per insaporire le mele e l'uvetta
100 gr di burro
buccia grattugiata di un'arancia

Preparazione:
Tirare le sfoglie di pasta molto sottili (si può usare allo scopo la macchinetta della pasta).
Mettere sul tagliere tre strisce di pasta per il lungo l'una accanto all'altra e unirle fra loro passandoci su il matterello.
Mescolare gli ingredienti del ripieno, versarli sulla pasta e arrotolare la sfoglia con attenzione, in modo che non si fori nel processo. Su ogni giro spargere un cucchiaio di zucchero e un po' di burro fuso. Chiudere bene le estremità in modo che il ripieno non esca.
Sistemare sulla teglia un foglio di carta da forno e con delicatezza poggiarvi il rotolo, che deve essere schiacchiato (tipo soppressata).
Spennellare la superficie con burro fuso (un cucchiaino) e un po' di zucchero dopo averla bucherellata con i rebbi di una forchetta.
Cuocere in forno caldo per circa 20-25 minuti.
Quando si è raffreddato, tagliare le estremità con un coltello ben affilato in modo che sui lati si veda il ripieno.
Spolverare con lo zucchero vanigliato."

Il pacchettino della zia ha profumato la casa, e l'odore è rimasto ad aleggiare anche dopo che lo strudel era finito.
Mi ha lasciato una sensazione indefinibile di dolcezza e di nostalgia.
Ma anche voglia di pensare al futuro, con determinazione.
Quella di fare l'anno prossimo lo strudel di Santa Lucia insieme a lei, di nuovo assieme nella sua cucina.

sabato 12 dicembre 2009

La voce di Dio


Chi di voi conosce Elizabeth Fraser?
Credo in maggior numero di quanti la conoscevano quando io l'ho ascoltata per la prima volta nel 1984.
Allora era la voce di un gruppo che all'epoca era considerato dalla stampa con malcelato sospetto o con adorazione (la definizione "the voice of God" per definire la loro musica venne coniata da Paul Morley, giornalista noto per i suoi articoli così linguisticamente cesellati che talvolta sfioravano il ridicolo), senza che vi fossero, almeno a quanto ricordi, vie di mezzo.
Del resto, non che fosse musica da vie di mezzo.
La sua voce, men che meno.
Adesso i Cocteau Twins, insieme ai New Order e agli Smiths, sono considerati parte della trimurti che ha segnato la new wave negli anni Ottanta. E lei è riconosciuta, per quanto non la conoscano in molti (i più la ricordano per aver cantato, splendidamente, Teardrop dei Massive Attack; altri l'hanno sentita in una pubblicità della Honda, in cui un creativo dai gusti singolari scelse di impiegare come colonna sonora un pezzo dei Cocteau Twins di dieci anni prima, a dimostrazione che per accorgersi dell'esistenza di un cosiddetto gruppo di culto ci vuole il tempo che ci vuole), come una delle migliori cantanti al mondo.
Il paradosso è che non canta. O per meglio dire, non pubblica dischi da oltre dieci anni.
A interrompere il silenzio un singolo uscito da un paio di settimane, che Elizabeth Fraser si è persuasa a pubblicare in omaggio a un amico morto di recente.
Si chiama Moses, ed è di stile alquanto diverso rispetto a ciò che ha fatto in passato. Il che non è un problema.
Il problema semmai è che la sua voce si sente assai poco.
Fa niente. Come dice il mio amato bene, potrebbe sempre essere peggio. E' già bello che abbia fatto questo piccolo passo, e che abbia potuto ascoltarla di nuovo.
Non che abbia mai smesso di farlo. E' esattamente un quarto di secolo che la sua voce mi accompagna.
I Cocteau Twins li scoprii per caso un pomeriggio, su una rete privata che non era la defunta VideoMusic, l'unica emittente all'epoca che trasmettesse video musicali. Non ricordo quale fosse, ma ricordo perfettamente l'emozione che mi trasmise l'ascolto, e il video in sé.
La canzone era uno dei classici del gruppo, Pearly-dewdrops' drops. Per accompagnarla, fecero delle riprese nella cappella dello Holloway Sanatorium, un ex manicomio di epoca vittoriana in stile neogotico, cosa che scoprii molti anni più tardi. All'epoca non ne sapevo nulla. Mi colpì la bellezza delle immagini, ipnotiche quanto la musica, in uno stile che non avevo mai visto o sentito prima. Soprattutto mi colpì la voce della cantante, una creatura dalla pelle incredibilmente bianca con enormi occhi blu: quella voce era qualcosa di incredibile. Sembrava venire da un altro mondo, a metà fra il canto di un angelo e un urlo. Mi vennero le lacrime agli occhi.

Passai i giorni successivi in uno stato di ossessione, cercando di scoprire chi fosse quel gruppo, e di che canzone si trattasse: nessuno dei due era segnalato nel video. Mi ci vollero settimane per saperlo, e per trovare il disco, in un negozietto minuscolo di musica cosiddetta alternativa che, per un colpo di fortuna, scovai proprio sotto casa di mio zio Antonio. Fu il primo vinile che acquistai. Non avevo un giradischi, oggetto troppo costoso per una ragazzina di undici anni. Lo ascoltavo di nascosto sul lussuoso impianto stereo di mia sorella, sdegnando fra me e me il fatto che lei impiegasse quel beldidio per appestare la casa con Phil Collins e Madonna.
Da quel momento mi procurai ogni loro disco e feci impazzire i miei recandomi tutte le settimane nell'unica edicola sufficientemente vicino casa (il che sottointendeva comunque diverse fermate di autobus) per spulciare le copie del Melody Maker o del New Musical Express alla ricerca di articoli su di loro. Il materiale era molto scarso: all'epoca non lo sapevo, ma i Cocteau Twins detestavano rilasciare interviste. Ogni tanto, per miracolo, usciva un articolo sull'italiana Rockerilla, sorta di Bibbia dell'epoca per tutto quanto riguardava la musica new wave, e una volta con mio sommo stupore persino un'intervista su Rockstar, mensile patinato di musica mainstream. Se ne ricavava comunque ben poco: il gruppo, e soprattutto la cantante, odiava parlare di sé. Non che il giornalista di turno aiutasse granché, con alcune lodevoli eccezioni (fra cui un italiano, il compianto Alessandro Calovolo, un Paul Morley nostrano nello stile ma dalla sensibilità completamente personale): le domande vertevano nove volte su dieci sul fatto che i titoli delle canzoni fossero incomprensibili, ricavando risposte corrucciate e laconiche, e sull'indecifrabile significato dei testi in una lingua che tutto era fuorché inglese, e su cui Elizabeth Fraser si rifiutava di fornire spiegazioni.
Credo si rifiutasse per un motivo molto semplice: la spiegazione, qualunque essa fosse, la forniva la fusione fra parole e canto. Non erano scindibili le une dall'altro. E l'emozione che trasmettevano, e trasmettono, era potente e sfaccettata. Si potrebbe tentare di definirla come un misto di malinconia, gioia, disperazione, spinta verso l'alto, ma suona risibile. Mancano le parole.
Forse se gli intervistatori avessero avuto dimestichezza con Wittgenstein non avrebbero avuto bisogno di fare domande. Molti anni più tardi di quel primo ascolto, mi trovai a studiare il Tractatus per via di un esame universitario di filosofia del linguaggio. Il Tractatus discetta di infinite cose, ma ciò su cui verteva l'esame era ovviamente un argomento attinente la materia, ovvero la relazione fra "significante" (ovvero la "forma" di una qualsiasi parola, ad esempio "mela") e "significato" (il "contenuto" della stessa). Non sto a tediarvi con le disquisizioni tramite le quali Wittgenstein partì da Aristotele e, portandolo alle estreme conseguenze, arrivò alla conclusione che, giacché il significato di ogni parola non può essere univoco (banalizzando: per Tizio la mela è un frutto commestibile di colore variabile dal giallo chiaro al rosso acceso, per Caio è uno strumento di corruzione dell'innocenza primigenia, per Sempronio il mezzo scelto da Alan Turing per mandare definitivamente a quel paese l'Inghilterra bigotta) il risultato è l'incomunicabilità, perché non vi è una lingua ma tante lingue, e ciascuno ha la sua.
Ciò che mi colpì, e che mi fece pensare a Elizabeth Fraser mentre ero china sul libro, fu il concetto della pluralità delle lingue all'interno della lingua.
A chiunque sarà capitato di dover descrivere una cosa, o una sensazione, e di non trovare parole adeguate per farlo, perché si avvicinano a ciò che si vuol dire, ma non sono esattamente ciò che si vuol dire. Si può supplire con le parole di un'altra lingua (se una situazione è particolarmente difficile da sbrogliare, ad esempio, a me verrà da dire 'mbecciuse anziché "complicata", perché esprime assai meglio la pazienza e la dedizione necessarie a dipanarla), ma alle volte non basta.
Per cui, per esprimere ciò che si sente, può essere necessario creare una lingua che sia esclusivamente propria.
Conseguenza di una lingua che sia legata all'individuo, Wittgenstein docet, è l'incomunicabilità.
Wittgenstein risolse il problema con un'intuizione logica di semplicità disarmante: il significato di una parola è il suo uso nella lingua. Ovvero, a seconda del contesto la mela sarà di volta in volta e inequivocabilmente un frutto, uno strumento di corruzione, o il modo in cui Turing fece il gesto del dito medio a una società bizzoca.
Dubito fortemente che Elizabeth Fraser si sia mai interessata a problemi di linguistica. Ma anche lei ha trovato il modo di doppiare il problema.
Il suo modo, intuitivo ma altrettanto logico, è stato di rendere "significato" la sua voce.
I testi delle sue canzoni sono imprescindibili dal suo cantare.
Non c'è bisogno di spiegazioni. Men che meno di quelle che ho trovato quel giorno mentre mi rompevo la testa sul Tractatus, e che ho riportato qui sopra. Me le sarei potute risparmiare, e godermi il fatto che il suo modo di cantare è fra le cose che, a mia esperienza, si avvicinano maggiormente a una forma espressiva purissima di emozione.
Ma è fra i miei numerosi difetti il desiderio di capire perché qualsivoglia cosa si presenti proprio in quel modo e non in un altro.
Se cercassi una spiegazione razionale al motivo, potrei trovarlo nelle interviste che Elizabeth Fraser ha rilasciato diverso tempo dopo lo scioglimento dei Cocteau Twins e in cui, con fatica e reticenza, ha raccontato delle molestie subite dal patrigno, dello squallore terrificante della vita in una famiglia operaia di una orrenda cittadina della provincia scozzese la cui economia era basata sulla raffinazione del petrolio, del suo sentirsi inadeguata per la sua incapacità di stare alla catena di montaggio in fabbrica, del rapporto con Robin Guthrie, suo partner nel gruppo e nella vita (un'alchimia di sentimenti e creazione musicale che si sente al meglio forse in Victorialand, l'unico album che realizzarono assieme senza il contributo del terzo elemento del gruppo, Simon Raymonde) e dipendente da alcool ed eroina.
Raccontò che ci era voluta la separazione da Guthrie e un esaurimento per darle la forza di affrontare il passato e il presente, il che si era tradotto, fra le altre cose, nella decisione di scrivere testi per la prima volta comprensibili per gli ultimi album del gruppo: album in cui si era trovata coinvolta a forza per motivi personali e contrattuali, cosa che si sente perché sono i meno belli della loro produzione. Ricordo che alcuni critici attribuirono la qualità minore al fatto che la comprensibilità delle parole sminuiva l'atmosfera di mistero che aveva sempre circondato i Cocteau Twins. Penso che, assai più banalmente, la creatività di Guthrie fosse andata a farsi benedire (cosa che lui ha recentemente attribuito al fatto di aver smesso di bere e drogarsi: ipotesi che accetterò come realistica solo quando mi sarà provato che Bach, lungi dal comporre come si credeva attorniato da figli scorrazzanti nella cucina di casa sua, creava le sue opere dopo essersi bucato con misture di formaldeide e Weizenbier), e che la Fraser avesse comprensibili difficoltà a lavorare con un partner con cui avevo condiviso anni di vita e che le era divenuto estraneo.
Alcuni si sono chiesti quale sarebbe stato il risultato di testi comprensibili su una musica quale era quella dei Cocteau Twins di un tempo. Io non me lo sono chiesto. La risposta viene da diverse canzoni interpretate da Elizabeth Fraser dopo lo scioglimento, su testi da lei stessa composti, su musiche composte da gruppi o musicisti eterogenei: ad esempio la già citata Teardrop, in cui parla del suo rapporto con Jeff Buckley, e la struggente This love di Craig Armstrong, pezzo portante della colonna sonora del film furbetto Cruel intentions. La sua capacità di trasmettere emozione è immutata. Le parole posso anche essere quelle di uso comune, ma al pari di quelle della "lingua perduta" che impiegava in passato, sono inequivocabilmente sue, e imprescindibili dal cantato.

Sono fra le poche occasioni in cui di recente si è potuta ascoltare la sua voce. E' comparsa nella colonna sonora de Il signore degli anelli, in Ovo di Peter Gabriel, in un paio di canzoni di Yann Tiersen. In Internet si può trovare un suo duetto con Jeff Buckley, da lei disconosciuto perché "unfinished". Ha realizzato un accompagnamento sonoro per un'esposizione d'arte, ma ha rifiutato che venisse commercializzato. Si è spesso parlato dell'uscita di un suo album solista, sempre rimandato. Dal 2006, anno in cui aveva accettato di partecipare ad alcuni concerti dei Massive Attack, se ne erano perse le tracce.
La recentissima pubblicazione di Moses è stata accompagnata, incredibilmente, da un'intervista al quotidiano The Guardian. La prima in oltre dieci anni.
Nell'intervista, una fotografia scattata in quell'occasione. Vedendola, sono rimasta colpita. Ritrae una donna di quarantasei anni con i capelli completamente grigi. Inusuale in genere, ancor più nel cosiddetto mondo dello spettacolo. Elizabeth Fraser è una donna che non ha paura di invecchiare.
L'intervista ha almeno parzialmente spiegato i motivi di un'attività musicale a dir poco centellinata. Ha da anni un nuovo compagno, da cui ha avuto una bambina, e ha scelto di occuparsi di entrambi, cosa che non era riuscita a fare causa gli impegni legati ai Cocteau Twins quando alla fine degli anni Ottanta era nata la sua prima figlia. Per questo ha rifiutato numerose proposte di collaborazione. Quanto all'album, è quasi pronto, ma non si sa quando uscirà.
Il suo compagno Damon Reece ha confessato che gli spiace davvero per il pubblico, perché la sente cantare dentro casa e "it's truly amazing", ma che non c'è verso di farle fare qualcosa che non senta di fare. "The world is a sadder place without Elizabeth singing", ha concluso.
Come altri, attenderò con pazienza che esca l'album.
E come altri, posso comunque ascoltare le canzoni incise anni fa.
E' un periodo che le ascolto molto spesso, forse perché per me sono legate al paese.
Sono legate alle passeggiate sulle strade circostanti l'abitato, in ogni stagione, ogni volta che andavo. Sono legate a fiori primaverili, campi di grano da mietere, querce dalle foglie ingiallite, odori di terra e di legna arsa, strade deserte il primo mattino o nel tardo pomeriggio. Non ho mai trovato strano un titolo come "How to bring a blush to the snow". Bastava trovarsi in inverno al tramonto sulla via che porta al cimitero, dove si stendono le campagne e intorno si vedono le colline e in lontananza le cime della Majella, e aspettare che il sole calante colorasse la neve di rosa. La musica e la voce esprimevano esattamente quella luce e quel colore.
La musica e la voce, adesso, mi parlano anche di mia zia.
Non ho le parole per esprimere ciò che questo mi fa provare. Dovrei crearle, ma non ne sono capace.
So solo che è un dono bellissimo.

giovedì 10 dicembre 2009

Culurgiones della Cancelliera

"Non mi sono venuti bene. I suoi erano tanto più buoni."
Non è vero Pi, ti sono venuti benissimo. E' semplicemente che la Cancelliera magari ha qualche decennio di esperienza in più, nel fare i culurgiones. Ma i tuoi sono buoni. E lo so perché io e il mio amato bene li abbiamo mangiati, condendoli con la conserva di pomodoro che zia Maria e zia Margherita hanno fatto questa estate, e di cui ho impiegato l'ultimo barattolino rimasto in dispensa. C'era l'etichetta che zia Margherita aveva incollato. "Salsa condita", a indicare che al sugo era stato aggiunto un pochino di sedano e una foglia di basilico. Ho conservato il barattolo.
La Cancelliera in realtà si chiama Lucia, ma in paese, dove è arrivata giovanissima dalla Sardegna, è nota così perché suo marito era il cancelliere del tribunale. E' una donna gentile, e aveva portato i suoi culurgiones alle zie a metà ottobre, perché li assaggiassero. Il giorno del funerale, un paio d'ore dopo la funzione, ha bussato alla porta recando un vassoio di dolci appena fatti, "così avete qualcosa da mangiare". Le abbiamo detto che zia Margherita ci aveva parlato al telefono dei suoi culurgiones, di quanto li aveva mangiati volentieri, e questo l'ha resa felice.
Le abbiamo chiesto la ricetta, e la riporto come lei l'ha riferita.

"Siete in due? Allora servono tre patate di grandezza media. Le fai bollire e le schiacci. Mentre cuociono, metti in una padella una bella cipolla fresca tritata con un bel po' d'olio, e la fai stufare con il coperchio. Quindi schiacci le patate e aggiungi la cipolla con l'olio, un po' di noce moscata, un uovo e un bel pugno di parmigiano. Mescoli tutto e fai riposare.
Quindi si fa la sfoglia, bella sottile. Le dosi? Tesoro, non le so... Fai a occhio! Calcoli un uovo per uno e vedi quanto prende di farina. Quando hai steso la sfoglia, metti i mucchietti di ripieno, e poi copri con altra sfoglia. No, io non chiudo con il classico sistema a pizzico, uso il tagliapasta facendoli come i ravioli, che è tanto più veloce e comodo. Poi li butti nell'acqua bollente, e quando vengono a galla li scoli con la schiumarola e li condisci con un sughetto di pomodoro e un po' di parmigiano."

Mia sorella li ha fatti il giorno dopo il nostro ritorno a Roma, e me li ha portati ancora da cuocere in un vassoio coperto da un panno. Un dettaglio, questo, che per qualche motivo mi ha fatto una gran tenerezza. Forse mi ricorda qualcosa dell'infanzia. Ma la memoria in quest'ultimo periodo mi fa scherzi strani e mi impedisce di situare le cose, per cui non lo so con certezza.
Sapevano di farina e di buono.
Si sono cotti in pochi minuti, e dopo averli conditi li ho mangiati assieme al mio compagno.
E' stato un modo per sentire la zia ancora vicino.
Piano piano, scopro che di modi ce ne sono diversi. Mi aggrappo a ciascuno di essi.
Non so se conoscete un bel film uscito qualche anno fa. Si chiama Daddy Nostalgie, lo ha diretto Bertrand Tavernier. E' la storia di una donna e del suo papà, che soffre di una malattia incurabile. Li interpretano rispettivamente Jane Birkin e Dirk Bogarde, e lo fanno in maniera splendida. Nonostante il tema, non è un film triste.
La voce narrante alla fine del film racconta che quando il padre scompare, la donna apre le finestre della casa. La madre le chiede che senso abbia aprire le finestre, a che cosa possa servire. Lei le dà un risposta che trovo bellissima.
"A far finta di vivere, in attesa che ce ne torni la voglia".
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