sabato 30 gennaio 2010

In viaggio con Pilù

"Pronto Pilù?"
"Pronto? Pronto? Non si sente niente!"
"Pi, mi senti?"
"Pupi, non si sente niente! Ho il cellulare scarico!"
"E quando mai..."
"Che cosa hai detto?"
"Niente. Volevo sapere quando arrivi."
"Dove sei?"
"Come dove sono, in ufficio!"
"Io ho ancora da fare. Quando ho finito arrivo."
"Mi puoi dire più o meno l'ora?"
(trenta secondi di scariche)
"Pi, che hai detto? Non si sente un accidente!"
"Ho detto che arrivo lì verso le tre! Fatti trovare pronta."
"Va bene. A dopo."
***
Ore 15.13.
Driiinnnn.
"Pronto Pi? Dove sei?"
"In mezzo al traffico! Ma è possibile che cascano due gocce di pioggia e il traffico si blocca!"
"Pi, siamo a Roma, mica a Roccaravindola. Ovvio che si blocca. E non sono esattamente due gocce."
"Comunque fra tre minuti sono lì. Scendi giù e aspettami."
"Pi, come vedi sta piovendo a catinelle. Forse è il caso che quando sei qui fai due squilli e io scendo."
"Basta che non mi fai aspettare, siamo già in ritardo sparato."
"Condivido. Tu squilla che io scendo".
Ore 15.29. Doppio driiiiinnnn.
"Regà, io scendo che è arrivata mia sorella. Fate un bel weekend."
"Buon viaggio eh?"
"Spiritosi."
****
"Ciao Pi, tutto ok?"
"Come no! La strada è invasa di cretini, dieci minuti di fila sulla Boccea, c'era una deficiente che si è piazzata col Mercedes in mezzo alla strada..."
"Pi, adesso siamo noi in mezzo alla strada... Forse è il caso che metti in moto."
Vruuuuummmm.
"Sono 126 miglia per Chicago. Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette, è buio, e portiamo tutt'e due gli occhiali da sole."
"Pupi?"
"Sì?"
"Taci."
"Sissignora."
***
Ore 16.27. A passo d'uomo sul raccordo.
"Ma che ci fa tutta questa gente per la strada?"
"Pi, forse stanno andando fuori Roma tale e quale a noi? Mi pare ipotesi plausibile, visto che è venerdì pomeriggio."
Silenzio malmostoso.
"Pupi, mi fai una sigaretta?"
"Certo. Tabacco tuo o mio?"
"Mio. E' nel mio zainetto, che è dietro al mio sedile. E' nella tasca esterna. No, non quella, quell'altra tasca esterna. Però visto che ci sei riaprila, perché lì c'è il telefonino e devo chiamare Francesco. Non quel telefonino, quell'altro nero, ci dovrebbe essere l'auricolare attaccato. L'hai trovato il tabacco? No, non quella tasca, quell'altra!"
"A Pi, t'offendi se ti dico che sto zaino c'ha tante zip quant'erano le paia di scarpe di Imelda Marcos?"
"Ah, dobbiamo fare benzina che il serbatoio è vuoto. Quando entriamo in autostrada tieni d'occhio le aree di servizio."
"Mi sta bene. Così imparo a citare i Blues Brothers."
***
Ore 16.45 circa. Area di servizio.
"Ho fame. Non è che mentre faccio benzina vai a comprare qualcosa?"
"Dolce o salato?"
"Boh, non lo so..."
"Dimmi tu: vuoi dei cracker, delle merendine..."
"Mi mettono tristezza..."
"Pilù, qui c'è solo un baretto, e a quello che si vede tutta sta scelta non ci sta. Decidi."
"Mah, magari qualcosa con della cioccolata."
"Vado."
"Non della Nestlè, eh? Non prendere niente della Nestlè. Prendi un Twix."
"Ti faccio notare che qualunque merendina tu possa volere o è della Nestlè o di qualche altra multinazionale che moralmente è altrettanto ripugnante."
"Allora prendi la Ritter."
"Vada per la Ritter, ma dubito che ci sia. A dopo."
Mi avvio verso il baretto. Pioggia battente, freddo becco. La Ritter non c'è.
Mentre occhieggio fra gli scaffali vedo uno dei benzinai che fa grandi gesti all'indirizzo di Pilù, inframmezzati da ululati in romanesco che si sentono fin dentro il bar e probabilmente sono udibili anche a Borgata Finocchio, distanza chilometri otto.
Benzinaio: "Signò, qua è serf sèrvis, se deve spostà a quella fila de llà... No, a destra... Signò, guardi dietro... Signò, non guardi me, guardi dietro!"
Mi doto di cibarie, pago e trotterello sotto la pioggia verso la macchina di Pilù, che è riuscita a parcheggiare alla pompa giusta dopo aver evitato per un pelo di accartocciare una Panda.
"La Ritter non c'era. Ho preso il Twix."
"Mh."
"E anche una scatola di wafer."
"Mh."
"Ricoperti di cioccolato."
"Oh, bene. Non è che vedi a quanto ammonta la benzina?"
"Euro cinquantuno e rotti. Facciamo a mezzi?"
"Chi è la maggiore?"
"Ho capito. Almeno posso metterci l'euro?"
***
Ore 17.03. In autostrada. Acqua a catinelle.
"Pupi, apri un po' quel Twix, va'."
"Marameo, maramio, uno tu e uno io."
"Calvino."
"Bella Pi. Quale fiaba?"
"Non me lo ricordo."
"Era Le sette teste d'agnello."
"Mi sono scordata un sacco di cose. Quando torno a casa devo riprendere La morfologia della fiaba di Propp."
"Propp? Che palle."
"Non è vero. Propp è bello."
"Sarà. Visto che sei antropologa, non è che mi sai dire perché ci sono tante bestie parlanti nelle fiabe?"
"L'animale ha sempre una funzione totemica. Apri i wafer?"
"E in che modi si manifesta la funzione totemica?"
"Non mi ricordo se lo sportellino del serbatoio si chiude automaticamente o si deve premere un pulsante. Guarda nello specchietto retrovisore se è aperto."
"Non mi pare. La funzione totemica?
"Non mi fido, meglio se chiamo Francesco. Mi passi l'auricolare? Il numero fallo tu. E' uno degli ultimi che ho chiamato."
"Spe' che non si vede niente. Quale dei tre numeri di Francesco?"
"Mi fai una sigaretta?"
"Pilù, ti ricordo che ho due mani."
"Ti ho chiesto con garbo una sigaretta! Non c'è bisogno di rispondere con quel tono!"
"Pi, se eviti di guidare appiccicata al popò della macchina davanti e di fare zigzag fra la corsia di sorpasso e quella centrale magari mi tranquillizzo e non ti rispondo con quel tono."
"Non capisco se ci si vede davvero così male o se sono io che ho gli occhiali molto sporchi. O forse mi è scesa la cataratta? Mi sa che devo tornare dall'oculista."
"....."
"Perché fai quella faccia?"
"Gesugiuseppemaria proteggete la macchina della sorella mia..."
"Ho un CD di Guccini, posso metterlo?"
"Posso scendere?"
***
Ore 17.53
"Posso mettere il CD di Guccini?"
"No."
"E dai."
"Quale parte di no non ti è chiara?"
***
Ore 18.05. Rampa verso il casello autostradale.
"Uuuh!"
"Che c'è?"
"Pupi, guarda la luna! E bellissima!"
"Sì, è quasi piena. Ne manca giusto una fettina."
"Hai visto come è grande?"
"E' perché è bassa, è una questione di prospettiva."
"Sei davvero spoetizzante."
"Ingegnera onoraria, prego."
"Nel mio portadocumenti c'è il Bancomat, passamelo così pago il pedaggio."
"E' allegata la guida per districarsi fa tasche e taschine? Così magari lo trovo in tempo utile."
"Animale."
***
Ore 18.20. In viaggio a velocità di crociera dopo sosta per rifornimento alimentare.
"Quanti anni sono che ci fermiamo a quel baretto dopo l'uscita dell'autostrada?"
"Pi, per quel che mi ricordo io da sempre. Ogni viaggio, tappa fissa per caffè e pipì."
"E sigaretta."
"Mica vero. Mamma fumava pure in macchina. Ti ricordi di quella volta che le è partita la brace e mi stava mandando a fuoco la scarpa da ginnastica?"
"No, non mi ricordavo."
"Io sì, per ovvi motivi."
"E lo spaccio lì accanto quando l'hanno aperto?"
"Boh, un bel po' di tempo fa. Una ventina d'anni. Prima vendeva solo le mozzarelle."
"Adesso è molto più fornito. Buoni, sti taralli con il peperoncino."
"Pure queste ciambelline al vino hanno il loro che."
"Posso mettere Guccini?"
"Enne-O."
"Lo sai quanto mi piace."
"A te piace. Io lo trovo una barba."
"Ti prego."
"Va bene. E ringrazia il biscottificio artigianale di Pozzilli per aver fatto queste ciambelle così buone, sennò col cavolo che ti dicevo di sì."
***
Ore 18.32. SMS all'amato bene.
"Siamo in viaggio e mia sorella ascolta Bologna di Guccini, canta a mezza voce e si commuove. A me Guccini fa ribrezzo e non so se Pi ci vede in mezzo alle lacrime, però è bellissimo, è una di quelle cose che ti ricordi a distanza di anni. Baci."
***
Ore 19 circa. Da qualche parte in provincia di Isernia.
"... e gli uccelli marini additano col volo/ la strada del Katai per Marco Polo..."
"Bello. Niente da dire. La musica fa dormì, ma i testi sono eccezionali."
"Non ci posso fare niente. Guccini mi emoziona."
"Ti dirò, sta iniziando a piacere anche a me."
"Veramente?"
"Altroché. Da quando hai messo su questo disco stai andando a ottanta all'ora al massimo e non dai di matto se qualcuno ti sorpassa. Pertanto ha i suoi meriti."
"Puzzola mannara."
"Grazie. Vuoi un altro tarallo?"
***
Ore 19.20 circa. Da qualche parte in provincia di Campobasso.
"Pi, ma che è sta canzone?
"Statale 17."
"E' un plagio spudorato di Sweet Home Chicago".
"Sicuramente è voluto."
"Almeno la musica si può ascoltare."
"Lo sai che siamo proprio sulla Statale 17? Un pezzettino passa pure per il Molise."
"Davvero?"
"Sì, collega l'Abruzzo con la Puglia."
"Mi sa che sta canzone è dedicata al tratto molisano."
"E perché?"
"Quale migliore ispirazione per un autostoppista cantautore in vena di lagne di una strada dove passa una macchina ogni venti minuti?"
"Caimana."
***
Ore 19.40 circa. Sulla Bifernina.
"St'ultimo pezzo di strada non finisce mai."
"Tranquilla, manca poco."
"Meno male, cominciavo a sentirmi uno zoo."
"Tira fuori il CD e rimettilo nella custodia, va'."
"Finalmente. La prossima volta, però, se non ti dispiace mi porto i Byrds."
"I chi?"
"...." (singhiozzare sommesso)
***
Ore 19.50. Paesello.
"Oh, finalmente. Non ne potevo più, ho la schiena a pezzi."
"Se ti consola siamo in due."
"Zitta zitta zitta che c'è un posto davanti alla chiesa!"
"Questo, Pilù, chiamasi posteriore."
"Scendi che cominciamo a recuperare i bagagli."
"Carichiamoci pure i barattoli per la salsa, così ci togliamo il pensiero".
"Ma quanto fa freddo!"
"Questo, Pilù, chiamasi clima sannita".
Ci incamminiamo a passo di carica verso casa. I barattoli tintinnano con rumore di slitta natalizia.
"Però abbiamo viaggiato bene, vero?"
"Sì Pi, abbiamo viaggiato davvero bene."

venerdì 29 gennaio 2010

Venerdì, pesce: merluzzo con patate e pomodori

Se c'è una cosa che mi mette una mestizia infinita, è il merluzzo.
Quando è surgelato, peggio ancora.
Ma ogni tanto tocca pur mangiarlo. Dicono che fa tanto bene.
Io sono sempre pronta ad ascoltare rispettosamente i consigli di chi dice che il tale e il talaltro alimento è un toccasana per la salute. Sapete, la mamma mi ha educato bene, o almeno ci ha provato.
Però, quando una ha a che fare con l'esecrando pesce, qualcosa se lo deve pure inventare in modo che il prodotto finale non abbia il sapore di di un pezzo di gommapiuma.
Questa ricetta dà i suoi risultati al riguardo. E ha pure il vantaggio di essere approntata con scarso tempo e ancor meno fatica, il che è fattore non da poco quando una, per esempio, corre come inseguita dal drago per mettere le solite quattro pezze in valigia in quanto di lì a poco deve partire.

Ingredienti:
quattro etti di filetti di merluzzo surgelati
tre pomodori San Marzano
due patate di grandezza media
uno spicchio d'aglio
un paio di cucchiai d'olio
pepe a piacere
una valanga di origano

Preparazione:
pelate le patate, affettatele assai sottili e copriteci il fondo di una piccola teglia preventivamente foderata di carta da forno, quindi conditele con un po' d'olio, una punta di sale, lo spicchio d'aglio privato del germoglio e tritato, pepe quanto garba e un po' di origano. Sulle patate adagiate quindi i maledetti filetti di merluzzo, e pure qui andate di olio, sale e pepe. In ultimo coprite con i pomodori tagliati a cubetti e privati dei semi, date ancora un po' d'olio e seppellite il tutto con tanto, ma tanto origano. Quindi schiaffate la teglia in forno già caldo a 200°, e andate a recuperare panni, valigia, quel che l'è, domandandovi che fine hanno fatto quei calzini freschi freschi di bucato che fino a due minuti prima erano sul comò, li avevate messi lì apposta per tenerli in vista, perbacco.
Nel mentre che buttate per aria tutta casa per poi scoprire che i calzini erano finiti nel frigo (succede, quando si fanno le cose di fretta) sarà passata una mezz'oretta, il che basta perché il pesce si cuocia.
Mettete i calzini in valigia (vi è concesso imprecare), quindi sfornate la pietanza e servitela in tavola, resistendo alla tentazione di assestare un'occhiataccia al vostro partner che vi osserva con espressione perplessa.
Seedetevi a tavola, e mangiate.
Avrete così modo di scoprire che il merluzzaccio insapore è diventato tenero, gustoso e profumato, e che la combinazione di patate, pomodori e origano quale condimento ha decisamente il suo che.
Ciò sortirà effetti positivi sul vostro umore.
Gli effetti positivi saranno dissipati qualora, come è il caso della sottoscritta, vi penda sul cranio la consapevolezza che di lì a poco vi toccherà affrontare una trasferta di tot ore con vostra sorella alla guida e meteo probabilmente pessimo.
Ma sarebbe caso invero sfigato.
Vado a vedere se trovo lo spazzolino da denti.
Buon weekend.

giovedì 28 gennaio 2010

Moussaka vegetariana

Questa non è esattamente una ricetta di stagione. Le melanzane sono infatti ortaggio tipicamente estivo. Ovvero erano, visto che adesso si trovano sempre e comunque sia al mercatino rionale che nella grande distribuzione. Va da sé che quelle invernali sanno di qualcosa giusto per sentito dire, ma mi piacciono così tanto che ogni tanto me ne infischio del concetto di ritmo stagionale, spesa a chilometro zero e amenità varie. Del resto, potrebbe sempre essere peggio: se abitassi, non so, in Norvegia, pure in estate le melanzane sarebbero di serra e saporite quanto un tocco di tofu.
Mi chiedo se una certa persona che ora risiede proprio in Norvegia, nella fattispecie a Bergen, in quel certo negozietto etnico che si trova dai pizzi della facoltà di ingegneria può reperire in questo periodo solanacee che non siano le consuete patate.
Nel caso così fosse, questa ricetta - che per rispettarne le abitudini alimentari è in versione vegetariana - è dedicata a lei. Non è ovviamente la classica moussaka, e visto che va preparata in un cucinotto da studentato ho volutamente semplificato il più possibile le operazioni, ma devo dire che dà la sua soddisfazione.

Ingredienti:
tre melanzane scure non troppo grosse
quattro o cinque patate medie
una noce di burro
due cucchiai di farina
due bicchieri di latte
una ricca manciata di formaggio grattugiato (Giulia, ti prego: non il parmesan)

Preparazione:
anzitutto tocca darsi del tu con le melanzane: il che comporta ovviamente lavarle, asciugarle con un canovaccio, tagliarle per il lungo a fette non troppo spesse (sui 4 millimetri va bene) e metterle a bagno in acqua e sale perché vada via l'amaro. Quando si vede che l'acqua è diventata nerastra le fette vanno sciacquate, scolate, tamponate con il succitato canovaccio e preparate per la cottura.
Giacché i fritti in una stanza di studentato sono da bandire a meno che non si voglia essere perseguitati da poltergeist che puzzano di grasso radioattivo, consiglio di cuocere le melanzane come segue: si fa scaldare un goccino (ma proprio ino) di olio in padella antiaderente con uno spicchio d'aglio se lo si gradisce, si mettono tante fette quante ne entrano nel tegame e si lasciano scottare da un lato e dall'altro a fuoco medio con la padella ben coperta in modo che il vapore faccia il suo mestiere, e che la stanza non venga invasa da odori che magari sono appetitosi sul momento, ma ferali quando si tenta di dormire.
Fatto ciò, ci si dà del tu con le patate: le quali vanno ovviamente sbucciate, tagliate a fette parecchio sottili (dà ottimi risultati il pelapatate stesso impiegato allo scopo) e lasciate stufare in padella coperta con un filino d'olio, un goccino d'acqua e un po' di sale e pepe per una decina di minuti: non di più perché tanto c'è la cottura successiva, e non è il caso di rischiare l'effetto purè.
Messe le patate a riposo, si passa quindi alla fase besciamella: in una pentola si prepara il roux facendo scaldare e colorire leggermente il burro con i due cucchiai di farina, quindi sempre si aggiunge man mano il latte, se possibile non freddo di frigo, sempre mescolando con il cucchiaio di legno e a fuoco basso: quando come si suol dire fra cuoche rifinite il composto vela il cucchiaio, si spegne il fuoco e si mette da parte a raffreddare in attesa dell'uso.
Approntati oramai tutti gli ingredienti, si procede alla costruzione della moussaka. E per farlo si impiega una di quelle belle tegliette di alluminio usa e getta, così non c'è la rottura del lavaggio di un ulteriore tegame (il che, quando si è reduci da una giornata di studio matto e disperatissimo, può fare la sua bella differenza).
In primis, si mette lo strato di melanzane, condendo con un tantinello di sale, un po' di pepe, un filo d'olio e una bella spolverata di formaggio. A seguire, le fette di patate condite come sopra e con dose di formaggio più generosa.
Da ultimo, con l'aiuto del fedele cucchiaio di legno si sparge una valanga di besciamella irrorando la superficie con tutto il formaggio avanzato come da foto (magari evitando di sversare insieme al cacio una solitaria foglia di prezzemolo - trasfuga dal condimento delle tagliatelle ai funghi che stavo preparando - come è successo a me, che per la fretta non me ne sono accorta manco nel momento in cui tentavo penosamente di mettere a fuoco prima di scattare).
La teglia va messa nel simpatico forno ripescato dalle segrete dello studentato e debitamente ripulito da Marco DB con i più potenti ritrovati della tecnica moderna, il quale forno dovrà essere già ben caldo alla temperatura di 200° gradi circa.
Quando si comincia a sentire il profumino si spegne il forno, si lascia in caldo per altri cinque minuti, poidiché si sforna e si mette nei piatti.
Siamo d'accordo: non è la ricetta originale, e la casalinga cretese media mi inseguirebbe brandendo un mattarello in legno d'olivo.
Ma se porterà un filo di venticello mediterraneo a due tapinelli in trasferta in un paese che oggi vanta la temperatura massima di un grado, sarà servita al suo scopo, e tanto basta.

martedì 26 gennaio 2010

Pasta e cavolfiore

Ieri sera, cosa che gli succede assai di rado, il compagno di casa e di vita è rientrato con una disposizione d'animo che rivaleggiava per amenità con quella di un guerriero berserk che si fosse mangiato qualche amanita muscaria di troppo.
Non posso ragionevolmente dargli torto. Quando si passano dieci ore secche in ufficio e a fine giornata vien da chiedere al rompipalle di turno quanto la vuol tagliata vicino all'osso la fetta di popò, non è che si abbandoni la scrivania di umore particolarmente giulivo.
In casi siffatti, l'unica cosa da fare è lasciare l'amato bene a sfogarsi cinque minuti, andare in cucina dove la pietanza tenuta in caldo sul fornello attende di essere servita, e metterla in tavola quando il tapino si ripresenta (e garbato com'è, si scusa pure per aver bofonchiato).
Visto che ieri dopo un un tot di forchettate il povero ha assunto l'espressione di un micio sazio e si è messo a canticchiare Plafone di Elio e le Storie Tese, ne ho dedotto che la pasta e cavolfiore ha incontrato il suo gradimento. La consiglio pertanto a chiunque volesse ammansire un coinquilino, amico o familiare in modalità Attila l'Unno.

Ingredienti:
un piccolo cavolfiore
un paio d'etti di pasta corta (io ho impiegato le pennette, ma i fusilli o i sedani rigati vanno altrettanto bene)
due cucchiai d'olio
uno spicchio d'aglio
una manciata di grana o parmigiano grattugiato
un'ombra di pepe

Preparazione:
lavate bene, pulite e detorsolare il cavolfiore, tagliatene le cimette in pezzi non troppo piccoli (giacché verranno ripassati in aglio e olio c'è il rischio altrimenti che si spappolino, con effetto estetico sgradevole) e mettetelo a cuocere in abbondante acqua con sale quanto basta, badando a coprire la pentola: se il cavolfiore è fresco - quando lo acquistate sceglietelo compatto e privo di puntini neri sui fiori, perché se non ha queste caratteristiche vuol dire che è maturo per l'ospizio - con questo piccolo accorgimento eviterete di riempire la cucina di eau de fleurs de cimetière.
Nel mentre che l'ortaggio cuoce, in una capace pentola antiaderente fate scaldare i due cucchiai d'olio con lo spicchio d'aglio privato del germoglio e schiacciato: non appena il cavolfiore è al dente con l'aiuto di un colino pescatene i pezzi dalla pentola dove ha bollito, travasatelo nell'altro tegame e lasciatelo insaporire coperto e a fuoco basso. Dopo qualche minuto, selezionate i pezzi che sono rimasti più grandetti e metteteli in piattino, tenendoli a portata di mano.
I saggi lettori si chiederanno perché rompersi le scatole andando a caccia delle cimette invece di scolare il cavolfiore more solito.
Semplice: perché lessata nell'acqua di cottura del cavolo, la pasta viene dieci volte più gustosa. E' un trucco che ho imparato dallo zio Filippo, uomo di notevole finesse, e non solo ai fornelli. Giusta i consigli dello zio Filippo procedete quindi a cuocere le penne, i fusilli o quel che l'è, scolateli quando sono ben al dente e versateli quindi nel tegame con il cavolfiore. Coprite con il solito coperchio di vetro e lasciate andare a fuoco minimo per una decina di minuti: la pasta finirà di cuocersi e avrà modo di insaporirsi come si confà.
Quando arriva il momento di portare in tavola aggiungete i pezzi di cavolo tenuti da parte, ricoprite il tegame per un minuto perché arrivino alla giusta temperatura, e infine spolverate di pepe e formaggio.
Quindi servite la pasta all'amato bene, non mancando di dare un bacio su quella povera testa in ebollizione da stanchezza.
Guardate la sua faccia che man mano si rischiara, e quando sentite che inizia a zufolare dategli un altro bacio: gli farà apprezzare ancora di più la cena.
Se poi volete completare l'opera, servitegli come dessert un paio di biscotti di pasta frolla accompagnati da crema pasticcera: saranno eccellente viatico per mandare del tutto a quel paese i rompipalle di turno e le fette di popò tagliato fino, e per un proseguimento di serata all'insegna del buon umore.

lunedì 25 gennaio 2010

Panettone di chiare d'uovo

Ieri pomeriggio Dottor P è venuto a studiare con l'amato bene in vista dell'ennesimo esame.
Essendo stata informata in anticipo, gli ho fatto il pianto greco pregandolo di portare un po' di quelle castagnole che, come si è potuto leggere in un precedente post, mi erano come si suol dire "arremaste 'n canne" (traduzione per i non sanniti: "rimaste sul gozzo") giacché a casa mia per motivi logistici le fritture sono bandite.
Dottor P ha ben pensato di presentarsi con una guantiera (vassoio in grado di sfamare il Settimo Granatieri) ricolma di castagnole classiche e aromatizzate con alkermes. "Come da tua richiesta, le ho fatte un po' grandine in modo che tu le possa farcire con la crema pasticcera", ha dichiarato soddisfatto poggiando detta guantiera sul tavolo.
Io ovviamente ho scoperto in quel momento che la mia dispensa piangeva miseria, e sono riuscita ad evitare una figura barbina solo grazie al provvidenziale intervento di mia sorella (che mi ha portato gli ingredienti mancanti due ore dopo la telefonata in cui mi annunciava trionfalmente "sto per uscire!", ma essendo Pilù mia tarata sul fuso orario di Tokio un ritardo sì contenuto è un exploit).
Per rimediare alla potenziale figuraccia ho quindi deciso di stupire Dottor P mostrandogli che, in base al notorio principio che recita "non si butta via niente", con le chiare d'uovo avanzate dalla preparazione della crema si ammannisce un panettone di notevole bontà.
L'ingrediente principale tradisce la sua origine temporale: la ricetta risale infatti a quell'ameno periodo di cui si dice che i treni arrivassero in orario, cosa di cui è ragionevole dubitare, e le donne dovessero compiere in cucina spericolate acrobazie per portare il pasto in tavola senza infliggere colpi mortali al bilancio familiare, il che è invece certo e comprovato. L'autrice è la leggendaria Petronilla, nume tutelare delle casalinghe del Ventennio capace di architettare pietanze impiegando materie prime improbabili come le bucce di piselli. Giacché di bianchi d'uovo ne avevo appena un paio anziché i quattro prescritti dalla ricetta originale, ho tentato una variante che ha sortito risultati lusinghieri.

Ingredienti:
due chiare d'uovo
75 grammi di zucchero
75 grammi di burro morbido
150 grammi di farina
150 grammi di latte
un cucchiaio di rum da cucina o altro liquore adatto (marsala, punch o quello che avete sotto mano)
mezza bustina di lievito per dolci (circa 8 grammi)

Preparazione:
per prima cosa portatevi avanti con il lavoro preriscaldando il forno a 180° e imburrando e infarinando una piccola teglia del diametro massimo di 20 centimetri (se 15 è meglio) o uno stampo poco più grande provvisto di buco al centro, quindi mettetevi all'opera.
In una capace ciotola di coccio montate a neve gli albumi con lo sbattitore elettrico impiegando il solito trucco dell'aggiunta di un pizzichino di sale onde facilitare l'operazione. Quando hanno assunto la consistenza adeguata (per sincerarvene inclinate la scodella a 90°: se non scivolano, son montati a sufficienza), aggiungete lo zucchero sempre impiegando lo sbattitore a tutta velocità, quindi il burro morbido, poi la farina e da ultimo il lievito sciolto nel latte: per queste ultime due fasi impostate lo sbattitore a una velocità inferiore o vi troverete il grembiale e la cucina in tutto simili a un quadro di Pollock.
L'impasto alla fine dovrà avere una consistenza morbida ma non liquida: versatelo nella teglia o stampo che sia, scuotete lievemente per pareggiarne la superficie e mettete serenamente nel forno. Per la cottura basterà una mezzoretta scarsa: non fate facce perplesse se vedete che la superficie resta candida come neve anziché colorirsi come succede in genere con le torte, giacché senza rossi sarebbe volere la luna. Ci si potrà sincerare dell'avvenuta cottura tramite la consueta prova stecchino: se punzonando il dolce esce asciutto, è il momento di cavarlo dal forno.
Aspettate qualche minuto onde evitare sgradevoli ustioni, quindi con abile mossa e l'aiuto di un piatto togliete il panettone dalla teglia e mettetelo a raffreddare su una gratella (in alternativa, poggiatelo su una scodella che sia grande a sufficienza ma non tanto da farvi precipitare dentro il dolce), in modo che l'umidità in eccesso evapori.
Tagliato a fettine sottili artisticamente disposte a raggio intorno alla crema pasticcera, il panettone di chiare d'ova darà a voi e ai vostri ospiti soddisfazione gastronomica all'insegna del motto sannita "sparagno e comparisco" (ovvero, "risparmio e faccio bella figura").
Se poi avere a cena o a merenda quelle belle figure di studiosi di antropologia, storia contemporanea e sociologia del costume, o anche ingegneri per i quali come si sa conta il principio del massimo risultato con il minimo sforzo, rivelategli l'origine della ricetta: vi beccherete una standing ovation, e son cose che fan sempre piacere.

domenica 24 gennaio 2010

Il gattino suona sempre due volte: Postman Pat (and his black and white cat)

Tempo fa mentre stavo piacevolmente al telefono con Tania e la tivvù andava, come suo costume, a volume zero giusto per tenere compagnia, la mia attenzione è stata catturata da un programma trasmesso su un canale dedicato a spettatori in età scolare. Detto canale brilla per la tendenza a proporre nella cosiddetta fascia protetta delle mondezze che paiono concepite per creature dotate del quoziente intellettivo di un grillotalpa sbronzo: va da sé che, con la modalità suicida che contraddistingue la rete ammiraglia cui appartiene, riserva il meglio negli orari in cui i pargoli sono a scuola o, si spera, a nanna. Il programma succitato, non a caso in onda alle dieci di sera passate, si distingueva per un'eccellente tecnica stop motion, una deliziosa ambientazione campestre tipicamente inglese, e soprattutto per un bellissimo micio bianco e nero.
Chi mi conosce sa che ho una passione vergognosa sia per i gatti, sia per un'animazione fatta come dio comanda.
Per cui, non appena ho messo giù il telefono, sono andata a ravanare in Rete per trovare ulteriori notizie. Ho così scoperto che quel programma è uno dei capisaldi dell'animazione britannica. E dopo averne viste diverse puntate, posso dire che per più di un motivo non dovrebbe mancare nella videoteca di qualunque genitore, nonno o zio che voglia far divertire il suo cucciolo preservandolo dalle fetecchie che imperano nel cosiddetto entertainment per bambini.
Nel Regno Unito, Postman Pat è un'istituzione: è dal 1981 infatti che Pat Clifton, un signore buono come un bignè caratterizzato da una bella chioma fulva e da occhialetti rotondi su un naso di notevole lunghezza, distribuisce la posta con il suo furgone rosso nel villaggio di Greendale. Compagno inseparabile è il micio Jess, che oltre ad aiutare con le consegne mostra una spiccata intelligenza tutta felina. Le storie dipingono le vicende tipiche di una piccola comunità, dove abbondano quei bei personaggi che nei paesi, come sa chiunque ci viva, non mancano mai: il parroco appassionato di giardinaggio e musica, la dottoressa che affronta i malanni dei compaesani con piglio molto matter-of-factly, il contadino perennemente alle prese con pecore bizzose, il ferroviere che cura la sua locomotiva come fosse il gioiello della Corona, il burbero uomo di legge che va in crisi quando la situazione non rientra nel manuale, l'inventore impegnato a studiare improbabili marchingegni per scacciare le pecore dagli orti o produrre salsicce al chilometro. A completare la variopinta popolazione di Greendale un battaglione di bambini, pronti com'è costume a mettere a soqquadro giardini, vicoletti e luoghi vari, e un nutrito gruppetto di signore sposate e non che si cimentano in varie attività, dai lavori in campagna alla gestione del caffè della stazione: in quest'ultimo campo è impegnata la signora Sara Clifton, moglie del postino Pat, che perennemente in jeans e maglione sposa un'alacrità perpetua a un atteggiamento di olimpica serenità di fronte alle situazioni più diverse.
In questo vivace contesto Pat, che avrebbe quale compito precipuo la consegna della posta, si trova sempre alle prese con vicende che hanno poco a che fare con pacchetti e cartoline: fra capre in fuga, pony testardi, mucche con la nostalgia di casa, ispezioni a sorpresa della stazione ferroviaria, vendite di beneficenza ed epidemie di varicella, c'è sempre molto da fare e non manca mai chi ha bisogno di aiuto. E in ogni situazione il ruolo del gatto Jess è fondamentale: come postino aggiunto, come saggio commentatore che esprime la sua opinione con sguardi e miagolii, come coprotagonista delle avventure di grandi e piccini. Con buona pace dell'eroe titolare della serie, è Jess la vera star.
Quale che sia l'episodio, i momenti più gustosi sono proprio quelli in cui Jess e Pat interagiscono, il primo non di rado impegnato nel tentativo, spesso vano, di rimediare alle distrazioni o alla volenterosa imbranataggine del suo padrone, sempre pronto a dare una mano ma capace di combinare - complice una vista non proprio eccelsa - disastri a ogni pie' sospinto. Da manuale la puntata in cui Pat deve ritirare dall'inventore/aggiustatutto Ted Glen un rimorchio per cavalli che quest'ultimo sta riparando: Pat non lo vede, Ted non lo sente perché all'interno del rimorchio stesso con tanto di cuffie paraorecchie, sicché il sollecito postino decide di agganciare il rimorchio a un furgone per portarlo a destinazione. Il povero Jess tenta con salti e miagolii di fermarlo, ma Pat pensa che abbia voglia di giocare e parte a tutta birra. Lo sguardo di Jess, mentre il padrone guida canticchiando giulivo, è un poema di rassegnata tolleranza: è evidente che ama quell'umano, ma pensa, e non a torto, che sia davvero un po' frescone.
Il gradimento del micio presso il pubblico si riflette nel ruolo ancora maggiore che riveste nella più recente delle serie, Postman Pat Special Delivery Service (trasmesso sull'italica tivvù come Servizio Consegne Speciali): ed è l'unica cosa positiva che si possa dire su essa. Lo scenario da Greendale si è spostato nella vicina e moderna città di Pencaster, l'officina di Ted Glen si è trasferita da un vecchio mulino a un'autostazione luccicante, il treno a vapore è diventato un banale convoglio di ultima generazione, e Pat ha abbandonato il suo splendido furgoncino per una serie di veicoli, dalla moto all'elicottero, creati giusto per questioni di marketing: sono loro i protagonisti imposti della serie, con la conseguenza che le trame ne risentono parecchio. Non è il primo caso in cui per un motivo o per l'altro si manda a donne di malaffare un prodotto di qualità, ma viste le premesse il risultato è scoraggiante (non a caso il creatore storico John Cunliffe non ha preso parte alla produzione), e i fan britannici hanno ridotto Special Delivery Service a macinato per gatti. Chi avesse conosciuto il postino Pat attraverso quest'ultima serie e abbia pensato sia una robaccia inguardabile, faccia in modo di procurarsi gli episodi prodotti in precedenza: avrà modo di ricredersi.
Dall'anno scorso, il gatto postino è inoltre diventato titolare di un programma tutto suo: dedicato ai piccolissimi in età prescolare, Guess with Jess ("Indovina con Jess") vede il protagonista e un gruppo di animali di fattoria indagare su fenomeni naturali che spesso suscitano la curiosità dei bambini (e cui spesso i genitori non sanno dare risposta): la causa dei tuoni, da cosa sono attratte le formiche, perché i ragni costruiscono le ragnatele, e così via. In questa serie Jess ha il dono della parola - cosa più che giustificabile, giacché interagisce con altre bestiole - ed è animato, assai bene, al computer: ma il fattore cuteness resta invariato. Mi dicono che è stato tradotto e viene trasmesso su un canale satellitare per infanti; io me lo sono gustato in originale sul sito ufficiale e vi invito a fare altrettanto, con l'accortezza di evitare le sezioni interattive: sono andata a curiosarci, e la pizza rustica che avevo messo in forno ha rischiato di far la fine di Giovanna d'Arco.
Se dopo tutto ciò, come è successo alla sottoscritta, vi innamorerete del saggio micio, avrete tutta la mia comprensione: se non altro, mi troverò giustificata nell'essere giunta a livelli di scioglimento che alla mia età veneranda dovrebbero essere banditi, e di ciò vi sarò grata.
Detti livelli di scioglimento hanno comportato l'acquisto di un Jess in peluche, che adesso troneggia sul cassettone in stanza da letto.
Tutto ciò mi ha attirato l'ilarità di amici, parenti e conoscenti.
Quanto a me, sono convinta che mai venticinque euro furono più ben spesi.

venerdì 22 gennaio 2010

Pancotto revisited: zucchine, pomodoro e pizza rafferma

Qualche tempo fa c'è stata una gran canizza causa articolo, pubblicato su uno dei più titolati quotidiani italiani, dedicato alle quintalate di pane che ogni dì vengono buttate in quel di Milano. Guardacaso, detto articolo è stato pubblicato due o tre giorni dopo il Capodanno, periodo in cui più o meno chiunque si ritrova con una vagonata di cibarie che o sono finite giù per il secchio o son destinate a metter muffa in frigo o in dispensa e pertanto è più probabile che sia sensibile all'argomento spreco rispetto ad altri momenti: il che ha garantito nell'edizione online di detto quotidiano una pletora di commenti e, se ne deduce, svariate pagine viste.
La succitata canizza ha visto pure l'intervento di grandi luminari quali il cardinal Bagnasco e Claudio Magris: che ci azzecchino un alto prelato e uno studioso di cultura mitteleuropea con un problema che mi sembra principalmente di natura economica mi sfugge, ma il Corriere non pare avere i dubbi che ho io, visto che pubblica anche amene articolesse in cui un politologo ultraottantenne sentenzia sull'impossibilità di integrazione dei musulmani nel Vecchio Continente infilando una corbelleria dopo l'altra.
A fare un po' di pulizia sulla faccenda sono quindi intervenuti gli allegri pazzerelloni di NoisefromAmerika.org, che han spiegato con dovizia di particolari perché indignarsi non serve a un beneamato zero. Una lettura interessante, soprattutto per chi di economia non capisce un accidente come la sottoscritta. Soprattutto interessante è il fatto, come si desume da un tot di commenti sull'argomento, che in realtà a sprecare la maggior quantità di pane non siano panetterie, supermercati e quant'altro bensì i singoli acquirenti, che ne prendono a iosa per poi farlo finire nel rusco.
Il che mi indigna assai più dello spreco della grande e piccola distribuzione.
Primo, perché per secoli il pane raffermo è stato ingrediente basilare di qualunque cucina e volendo c'è di che sbizzarrirsi: nel mio Sannio abbonda il pancotto condito nei modi più vari, in Toscana è un caposaldo la ribollita, e piatti come i carciofi imbottiti, le polpette o il polpettone, gli involtini di verdura, le patate arracanate, le melanzane o le zucchine ripiene senza il pane vecchio non si potrebbero preparare; se poi si punta verso l'estero, basta pensare a piatti diversissimi come il gazpacho e lo strudel per averne la riprova.
Secondo, perché basta ben poco perché il pane non diventi raffermo: è sufficiente surgelarlo per poi impiegarlo al bisogno oppure, se è vecchio di qualche giorno, farlo bruschettare. Basta un minimo di attenzione, no?
Poi capita che anche il più attento si ritrovi con del pane che, rimasto sepolto per qualche motivo nei più reconditi recessi della dispensa, abbia la consistenza e durezza di un tocco di travertino. O magari, come è successo a me, della pizza bianca.
Sulla scorta del ricettario familiare, detta pizza è stata impiegata per fare una versione riveduta e corretta del tradizionale pancotto sannita.

Ingredienti:
cinque o sei zucchine
una cipolla di discreta grandezza
un barattolo di salsa di pomodoro o di pelati da quattro etti circa
due cucchiai d'olio
una manciata di parmigiano
un paio d'etti di pizza bianca rafferma (in sostituzione, del pane secco va benissimo)

Preparazione:
tagliate fine la cipolla e mettetela a stufare in una pentola antiaderente con l'olio e un cucchiaio d'acqua; quando è diventata trasparente versate il pomodoro, coprite con il solito coperchio di vetro e fate sobbollire a fuoco bassissimo per una decina di minuti. Nel frattempo lavate le cucuzze e tagliatele a rondelle o mezze rondelle che non siano troppo sottili e mettetele quindi nella pentola a far compagnia al sugo, sempre a fuoco basso e sempre tenendo coperto. Le zucchine hanno la tendenza a cacciare un sacco d'acqua: il che, in questo caso, va benissimo. Quando sono al dente prendete la pizza, tagliatela in quarti, ponetela sui lati di una capiente scodella e versate pian piano le zucchine nella scodella succitata, facendo in modo che il sughetto imbeva per bene i pezzi di pizza. Attendete un paio di minuti finché la pizza non è diventata morbida (se avete impiegato il pane raffermo non attendete, in quanto è maggiormente poroso e perderebbe di struttura), condite con il parmigiano e portate in tavola.
Questa ricetta è suscettibile di infinite variazioni, che potete mettere in pratica a seconda della disponibilità e fantasia.
Per cui, nel caso vi avanzasse del pane o della pizza raffermi, non dategli l'umiliazione di un'indegna sepoltura nella mondezza.
E' più che probabile che vi risolvano la cena.

giovedì 21 gennaio 2010

Zuppa di ceci

Oggi, almeno qui, è una bellissima giornata di sole.
Ciononostante, fa un freddo becco.
Vorrei ben vedere, direte voi: siamo in gennaio.
Non posso ragionevolmente darvi torto. Ma darei non so cosa per avere addosso un maglione che abbia lo spessore e le dimensioni di una pecora ben pasciuta, e una bella minestra calda da gustare anziché lo yogurtino che sto mestamente scucchiaiando per pranzo.
Posto la ricetta della zuppa di ceci, nella speranza che per autosuggestione mi scaldi un po'. E' infatti una di quelle pietanze che riescono a scacciare anche il gelo invernale sannita; e per avere un'idea del clima che caratterizza il mio paesello, basti citare la battuta che un signore napoletano, trovatosi a sfollare in Molise durante l'anno di grazia 1942, rivolse a mio nonno: "Don Gennà, ma com'è ca in questo paese fanno ùnnece mìsce 'e fridde e une 'e frìsche?".
Ho pertanto la ragionevole speranza che basti la sola idea della zuppa a mettere al tappeto il freschetto dell'Urbe. Proviamo.

Ingredienti:
tre etti di ceci secchi (non quelli in scatola, per pietà)
una foglia di lauro
uno spicchio d'aglio
uno sferzellone (per i non sanniti, peperone secco dalla piccantezza moderata)
tre o quattro cucchiai d'olio

Preparazione:
anzitutto mettete i ceci a bagno in abbondante acqua in cui avrete sciolto un cucchiaino di bicarbonato. La permanenza in acqua deve essere di almeno otto ore, a meno che non vogliate mangiare dei gustosi pallini di fucile: non pensate di cavarvela con meno. Pertanto metteteli a mollo la sera prima se volete la zuppa per pranzo, o la mattina se la volete servire a cena.
Una volta ammollati i ceci, lavateli molto bene sotto l'acqua corrente e metteteli a cuocere in discreta quantità d'acqua (li deve quantomeno coprire) addizionata con la foglia di lauro e un pochino di sale. Devono cuocere un bel po' e a fuoco basso: calcolate almeno un'ora. Dopo detto lasso di tempo saranno diventati belli tenerelli: se così non è, fate andare la cottura per un'altra mezz'ora. Se pure dopo la mezz'ora hanno la consistenza del cosiddetto sercius vulgaris vuol dire che, come dice la zia Lella, "allore è qualetà", e siete autorizzati a impiegarli come proiettili per cerbottana usando quale bersaglio chi ve li ha forniti: se lo merita.
Nel caso sia andato tutto liscio, prendete una pentola antiaderente o meglio ancora di coccio, metteci l'olio, lo spicchio d'aglio privato del germoglio e schiacchiato e lo sferzellone intero, e ponetela su fuoco bassissimo: l'olio deve infatti scaldarsi ma non friggere. Versateci quindi i ceci e un paio di mestoli dell'acqua di cottura, date una mescolata, coprite il tegame con il fido coperchio di vetro e lasciate insaporire per una ventina di minuti.
Quando è arrivato il momento di mangiare, versate la zuppa nei piatti o in una bella scodella e portate in tavola. Nel caso abbiate impiegato la pentola di coccio, portate a tavola direttamente quella. Se poi fornite ai commensali un po' di olio santo (che da noi non è quello per le estreme unzioni, bensì extravergine con robusta dose di peperoncino piccante), non fate un soldo di danno.
Per inciso, io ho ancora un freddo becco.
Si vede che o sono una capra in fatto di autosuggestione, o che il freschino dell'Urbe è più gagliardo di quello che credo io.
Se qualcuno mi facesse avere una cioccolata bollente espressa gli sarei grata.

mercoledì 20 gennaio 2010

Polpette al sugo

Questo è uno dei miei piatti preferiti. Ovvero, è fra i miei preferiti se fatto seguendo i dettami delle mie vecchierelle. Di polpette al sugo ne ho mangiate a iosa, ma quelle che caratterizzano la cucina dell'Urbe sono secondo me toste e pesanti come il proverbiale sampietrino. Una polpetta come cucina comanda deve infatti essere della giusta consistenza, sciogliersi in bocca ma con lentezza, avere il giusto equilibrio nell'impiego dell'aglio: né insapore, né aromatizzata da far sì che l'alito faccia concorrenza a quello dell'abitante medio delle due Coree, ove l'impiego della bulbacea in cucina è un articolo di fede.
Con quelle romane ci si può, a seconda dei casi, giocare a bocce o stendere un esercito di moscerini: il che può fare comodo in occasione di tornei interparrocchiali o di un'escursione nelle valli di Comacchio, ma non quando si è a tavola. Per cui vi propongo la versione sannita, con la garanzia che potrete mangiarne a sazietà anche a sera senza il rischio che, una volta andati a ninna, il vostro partner sospetti di avere nel letto il Caro Leader, o voi sogniate di essere uno stupido milanese bersaglio di polpette infuocate.

Ingredienti:
300 grammi o giù di lì di carne di manzo o di vitello
100 grammi di mollica di pane semiraffermo sminuzzata
un uovo
un pugno di grana o parmigiano grattugiato
uno spicchio d'aglio
una manciata di prezzemolo
farina 00 quanto basta
un po' d'olio per friggere
un barattolo da mezzo chilo di conserva di pomodori, meglio se casalinga

Preparazione:
per prima cosa tritate bene le foglie di prezzemolo e tagliate l'aglio dopo aver tolto il germoglio a fettine sottili, e che siano davvero sottili: non che dobbiate usare il metodo impiegato da Paul Sorvino in Quei bravi ragazzi (non lo avete visto? Siete banditi da questo blog!), ma che vi sia d'esempio. Più è sottile, più eviterete l'effetto metropolitana di Seul.
In una zuppiera capace mettete quindi la carne tritata, l'uovo intero, il pugno di formaggio, il prezzemolo e l'aglio e impastate con le manine sante bene e a lungo: la consistenza dell'impasto deve essere alla fine liscia e setosa, senza che vi si distinguano più i vari ingredienti. Fatto ciò, siete già a mezza strada sulla via di una polpetta ben riuscita.
Ungete quindi le succitate manine sante con un po' d'olio, prendete un tot di impasto alla volta, ricavatene tante sfere di grandezza equivalente a un'albicocca o giù di lì (potete farle più piccine beninteso, ma secondo me poi non c'è gusto quando le si azzanna) e rotolatele nella farina, scuotendo quella in eccesso: ne è sufficiente un velo.
In una padella fate scaldare un paio di cucchiai d'olio e mettetevi a soffriggere le polpette quel tanto che basta a fuoco basso, finché non hanno fatto una sottile e uniforme crosticina dorata: a quel punto toglietele subito, perché se friggono troppo poi non bevono il condimento.
Nel mentre che friggete le polpette potete bellamente fare il sugo. Versate la conserva in un tegame, mettete sullo stesso un coperchio (sempre meglio quello di vetro) e fate sobbollire a fuoco basso. Se vi va e ne disponete aggiungete un pezzettino di sedano o basilico - questo nel caso non abbiate la fortuna di disporre di salsa in barattolo già condita, gentile omaggio delle mie zie -, evitate assolutamente l'olio perché a rendere grassoccio l'intingolo provvederanno le polpette stesse.
Finito che avrete di soffriggere le polpette fatele raffreddare un po' (eviterete così il rischio che si sbrachino in cottura) e con garbo e gentilezza mettetele nella pentola con il sugo. Quindi coprite e lasciate sobbollire per discreto tempo, se possibile almeno un'oretta, a fuoco bassissimo. La cottura lenta è infatti l'ultima e fondamentale tappa verso il traguardo della polpetta ben riuscita.
Quando il vostro commensale rientra tutto mesto dopo una lunga giornata di lavoro dategli un'affettuosa pacchera sulla spalla, aspettate che si tolga la divisa da pinguino, cassamortaro o qualunque altro di quegli orrendi abbigliamenti che si suole imporre presso le aziende italiane, e portategli in tavola le polpette ben calde. Vedrete che gli tornerà l'entusiasmo, e che metterà mano con rinnovata lena a forchetta e pagnotta (le polpette chiamano infatti la scarpetta come poche pietanze).
Se poi putacaso anziché di un commensale si trattasse di commensali, vi basterà lessare al dente adeguata quantità di riso, condirla con il sugo delle polpette - in tal caso prevedete due barattoli di conserva - e avrete risolto il problema della cena per più persone.

Necessaria precisazione:
l'amato bene mi ha fatto notare che sarebbe il caso di virgolettare la frase "stupido milanese bersaglio di polpette infuocate", perché essa potrebbe risultare offensiva nei confronti di chi abita nella città del Biscione. Tengo a sottolineare che contro i milanesi non ho un bel nulla, e che detta frase è ripresa para para dal post ivi linkato, eccellente recensione di un certo kolossal padano costato a noi contribuenti una trentina di milioni di euro.
Pertanto chi si offende non indirizzi i suoi strali sulla cuoca, ma su Renzo Martinelli.
Credetemi, li merita tutti.

martedì 19 gennaio 2010

Risotto spinaci e formaggio

Vi capita mai di sentire rumori singolari dentro casa?
A me sì.
Perlopiù non si tratta di poltergeist, brownies o simili creature che avrebbero fatto la gioia di Katharine Briggs, ma di vicini molesti che coltivano passatempi quali sforacchiare i muri con il trapano alle due di pomeriggio la domenica, o lanciarsi in pietosi karaoke su pezzi di Giorgia, il che è già grave e lo è ancora di più quando la voce di cui si è dotati è affine a quella di Patrizia Pellegrino (in entrambe le circostanze la reazione è una sola: mettere Back in black degli AC/DC a tutto volume, e godersi il beato silenzio che pervade la casetta dopo che si è spento l'ultimo sovracuto sgorgatutto di Brian Johnson, ma questo en passant).
Alle volte, però, sono gli elettrodomestici a farsi sentire.
E quando passando in cucina ci si accorge che il consueto ron-ron del frigo ha un'inquientante somiglianza con I want to break free dei Queen, forse è il caso di dare un'occhiata.
Nello 0,00001% dei casi si scopre che il frigo è infestato da un hobgoblin che patisce di attacchi di calore e ha la passione per Freddie Mercury.
In quelli restanti, si ha più banalmente modo di vedere che nei diversi scomparti fan mesta mostra di sé, ad esempio, gli ultimi cubetti di spinaci della confezione aperta a Ferragosto o giù di lì e rimasta sepolta nel fondo del congelatore, e una pletora di avanzi di formaggio tutti più o meno malmessi.
Questa ricetta vi offre il modo per fare pulizia dei rimasugli e preparare una cena tutt'altro che malvagia a voi e a chi vi vuol bene.

Ingredienti:
un paio d'etti di riso da risotti (così con l'occasione vi liberate di eventuali ulteriori rimasugli)
tre etti circa di spinaci surgelati
un etto circa di formaggi vari, purché atti a fondere (io mi son ritrovata con grana, parmigiano, scamorza, provola ed emmental, e ho usato quelli)
uno spicchio d'aglio
un paio di cucchiai d'olio
un goccio di vino da cucina
una punta di cucchiaio di brodo vegetale granulare (usate quello bio, così evitate che il glutammato monosodico e il vostro fegato diano vita a un match di kickboxing)

Preparazione:
per prima cosa, con santa pazienza tagliate a pezzettini i rimasugli di formaggio e teneteli a portata di mano. Mettete gli spinaci in una pentola con coperchio di vetro e lasciateli borbottare a fuoco bassissimo senza aggiungere acqua: date una controllata di tanto in tanto, e quando si sono scongelati per benino metteteli da parte (mi chiederete perché non li lesso: molto semplice, lessandoli si farà pure prima, ma poi tocca strizzarli ed è cosa che mi secca come poche).
In una padella antiderente fate quindi friggere sempre a fuoco bassissimo lo spicchio d'aglio privato del germoglio e schiacciato (se non avete l'attrezzo apposito usate il fondo di un bicchiere). Non appena si imbiondisce aggiungete gli spinaci, mescolate con il cucchiaio di legno per far insaporire e lasciate cuocere per qualche minuto. Quindi riarmatevi di cucchiaio di legno e battendo energicamente riducete il tutto in poltiglia. Potete usare anche il frullatore a immersione, ma rinuncereste all'occasione di dar sfogo a un po' di sana violenza, che a fine giornata è cosa che fa sempre bene.
Versate quindi il riso, fatelo tostare per un minutino a fuoco vivace e aggiungete il vino da cucina facendolo sfumare. Abbassate quindi la fiamma e un po' alla volta aggiungete il doppio della quantità d'acqua rispetto al riso in cui avrete prima sciolto il dado solubile.
Quando il riso è al dente, fate cadere a pioggia il formaggio a pezzetti e mescolate per bene fino a quando non è sciolto del tutto. A quel punto spegnete il fuoco, travasate il risottino nella scodella di portata, se volete fare i raffinati spolverate di parmigiano grattugiato e portate in tavola.
Come detto, tutto ciò garantirà a voi e a chi vi vuol bene un pasto appetitoso e darà sollievo al vostro elettrodomestico.
Se poi mentre lavate i piatti sentite che il frigo intona Sempre libera degg'io folleggiare, sappiate che la probabilità che esso sia infestato da un hobgoblin appassionato di lirica è assolutamente identica a quella di cui sopra, e continuate serenamente a lavare.

lunedì 18 gennaio 2010

Abbracci caserecci

Questi biscotti sono dovuti a quella che, in buona lingua dell'Urbe, si suol definire rosicata.
La quale rosicata ha quale origine un appetitoso post, segnalatomi con garbo dall'amato bene, in cui Dottor P, atipico ingegnere che sa cucinare, ha descritto con dovizia di particolari la preparazione delle castagnole.
E considerando ciò che esce dalle di lui manine sante, si può scommettere sul fatto che erano tali da mandare in delirio le papille gustative del ghiottone più esigente.
Perché anziché rosicare non ti sei messa all'opera per farle a tua volta?, chiederanno i saggi lettori.
Perché in casa mia i fritti sono banditi, ecco il perché. Il mio appartamentino da puffo è infatti caratterizzato da amena struttura a budello: ne consegue che, se ci si azzarda a impiegare la padella, lo scotto è che per i tre mesi successivi si ha la sensazione di nuotare in un fusto di olio esausto.
Onde lenire la fame lupigna che mi era venuta a leggere, un dolce era necessario. Per il problema suesposto mi son dovuta limitare all'impiego del forno, con risultato non malvagio devo dire, ma è ovvio che le castagnole sono ben altra cosa. Chi pertanto non ha l'handicap dell'appartamento puffesco e mal areato veleggi sul post di Dottor P, chi come la sottoscritta si deve contentare prosegua pure. Scoprirà che, se non altro, preparerà un'ottima merenda in poco tempo e con poca fatica.

Ingredienti:
250 grammi di farina
120 grammi di zucchero
100 grammi di burro
due uova
due cucchiai di punch casalingo (il migliore per aroma, ma potete supplire con del rum da cucina)
un terzo di bustina di lievito (ovvero 5 grammi, un cucchiaino da tè colmo)
due cucchiai di cacao in polvere

Preparazione:
mettete subito a scaldare il forno a 200°, tanto per fare i biscotti ci vuole un quarto d'ora scarso e vi portate avanti con il lavoro. Impastate con gagliardìa ma non a lungo gli ingredienti tranne il cacao, dividete in due la risultante palla di pasta e da una delle metà ricavate delle mezze ciambellette che metterete sulla placca già foderata di carta forno. Aggiungete quindi il cacao all'altra metà della pasta, fate incorporare bene manipolando con vigore e sempre non troppo a lungo e ricavatene man mano delle mezze ciambelle che porrete accanto a quelle già sulla placca, saldando le estremità chiare e scure con una lieve pressione delle dita (sottolineo lieve ad uso degli ingegneri e dei maschi in genere che mi leggono).
Mettete quindi la placca in forno e andatevene altrove a farvi per un mezzoretta i fatti vostri, deprecando il fatto che Dottor P sia millemila miglia lontano (il che non è proprio esatto, ma se non si esagera la lamentazione di Geremia che lamentazione di Geremia è) e quindi non si possa andare a mendicare castagnole e altre prelibatezze presso la di lui casa. Dopo la succitata mezzoretta vi arriverà alle narici un profumino assai gradevole che almeno in parte lenirà l'umor nero: andate in cucina a controllare la situazione. Constaterete che i biscotti son belli rigonfi e che la parte chiara ha assunto un bel colorino dorato: spegnete il forno (non senza aver prima acchiappato un biscottino per mangiarlo onde constatare la riuscita) e lasciate biscottare per un altro quarticello d'ora.
Infine cacciate fuori la teglia, con abile mossa fate scivolare i biscotti dalla stessa nella vostra ciotola preferita, prendete un bel tazzone di latte e procedete a godervi una merenda come dio comanda.
Se poi il compagno di casa e di vita fa capolino dopo un tot attirato dal profumo e vi lancia strali e occhiatacce perché vi siete finiti tutti i biscotti senza lasciargli manco una briciolina, rispondete che gli sta bene.
Così impara, a segnalarvi le ricette di cose fritte di Dottor P.

giovedì 14 gennaio 2010

Tutto vapore, niente sostanza: Steamboy di Katsuhiro Otomo

Avete letto Il gattopardo?
No?
Male.
Male ma comprensibile. E' considerato un'opera datata, di quelle buone solo a torturare gli studenti della scuola dell'obbligo. Peccato che ancora oggi di cose sull'italiana società e sul suo funzionamento ne insegni parecchie, per cui tanto datato non è. Ma questo fra parentesi.
Io l'ho letto da piccina, e mi è rimasto impresso per più motivi. Mi è tornato in mente l'altra sera, quando per lenire l'ansia dell'attesa di una telefonata da parte di Tania ho ben pensato di vedere Steamboy di Katsuhiro Otomo.
Otomo, per chi non lo sapesse, è considerato uno dei principali autori del fumetto giapponese e del genere steampunk (in sintesi, quel tipo di fantascienza in cui in un determinato periodo storico vi è ampio impiego di tecnologie che con quel periodo hanno poco a che fare) e il suo Akira, sia in versione manga che in quella anime, un vero e proprio caposaldo del settore. Io non sono un'esperta della sua opera, e Akira l'ho visto anni fa con un occhio chiuso e l'altro balengo - mi venne proposto da vivace amico alle tre del mattino, orario in cui io ho il quoziente intellettivo di un toporagno che si sia preso una mattonata in mezzo alla fronte -, pertanto ne ho memoria invero scarsa. Però in più di un'occasione mi è stata fatta la proverbiale capa tanto sull'imprescindibilità sua e di qualunque suo prodotto, per cui mi sono approcciata a Steamboy con diverse aspettative.
Mi son bastati i primi minuti per scoprire che erano malriposte.
Intendiamoci: visivamente è molto bello. Vi si mostra un impiego rutilante di tecnologie basate sul vapore che fanno la gioia di qualunque ingegnere meccanico. Alcune sequenze lasciano a bocca aperta, anche se l'impiego del CGI in più punti si sposa assai male con l'animazione e lo scrolling parallattico deve averlo curato un soggetto colpito da delirium tremens. Ma l'animazione è decisamente il suo punto di forza.
Il problema è che latita qualunque altra cosa.
Riassumo brevemente la trama: la storia è ambientata in un'Inghilterra vittoriana alquanto alternativa. Protagonista principale è Ray Steam, un ragazzetto che si ritrova in possesso di potentissimo congegno studiato dal babbo e dal nonno prodigiosi inventori, e viene coinvolto in un intrigo internazionale in cui potenti assortiti delle più diverse nazioni vogliono mettere le mani sul marchingegno per farne impiego a scopi bellici. Tanto per gradire si piazza nell'ambaradàm anche un personaggio realmente esistito, Robert Stephenson, e uno femminile che è ça va sans dire coetaneo del protagonista e si distingue per avere il carattere da bimbaminkia viziata della sua omonima Scarlett O'Hara. E in tutto ciò non manca un sapido bignamino di cliché freudiani, con il babbo, il nonno e il ragazzetto l'un contro l'altro armati.
In sintesi, la sagra del già visto.
A ciò si aggiunge che il character design fa pena, cosa ancora più evidente in paragone all'incredibile bellezza delle macchine (clamorosa la Torre Steam, vero e proprio monumento di tecnologia), che nessun personaggio ha uno sviluppo personale qualsivoglia, e che il finale per banalità e scontatezza fa cadere le braccia. Sul doppiaggio italiano stendo un velo pietoso, ma va detto che almeno in questo caso non può fare più che un tot di danni.
Non rivelo altro, putacaso a qualcuno venisse voglia di vedere Steamboy.
La critica statunitense, va detto, ha un'opinione migliore della mia. Da più d'uno è stato sottolineato il fatto che è un film d'azione di notevole impatto, e che il rapporto fra le tre generazioni della famiglia Steam è complesso, sfaccettato e ricco di sottintesi. Personalmente codesta complessità non l'ho rilevata (può trovare spunti di interesse solo qualcuno che sia del tutto a digiuno di psicoanalisi spicciola, pertanto di età presumibilmente sui cinque anni), e quanto all'impatto in qualità di film d'azione, l'unico riconoscibile e ripetuto a iosa è quello dei più assortiti marchingegni e armi che piombano per ogni dove facendo più casino possibile. Ma visto che gli americani son stati nutriti negli ultimi trent'anni con i cosiddetti high concept movies, la cui trama si può più o meno riassumere su un post it, non mi stupisce l'abbiano trovato soddisfacente.
Forse mi chiederete: in tutto ciò, cosa c'entra quell'ameno romanzo di Tomasi di Lampedusa?
C'entra.
C'entra in particolare quel brano in cui il principe Fabrizio medita sullo stato del Regno, e sul Re in particolare, mentre il cane Bendicò gli devasta allegramente il giardino. Il Re attuale è un seminarista in divisa da generale, e pure quello precedente non è che valesse granché. Mio cognato, riflette il principe, ribatterebbe che al di là di chi la rappresenta, l'idea monarchica rimane quella che è. E osserva al proposito: "Vero anche questo; ma i Re che incarnano un'idea non devono, non possono scendere, per generazioni, al disotto di un certo livello; se no, caro cognato, anche l'idea ci patisce".
Mi sembra si attagli parecchio a quanto detto sopra.
La mancanza di sostanza non è caratteristica solo di Steamboy, ma mi sembra che il film di Otomo sia degno rappresentante del fenomeno. Quale che sia la confezione, il contenuto è zero.
Il che è lecito, per carità.
Ma se il risultato è immancabilmente la perdita secca di due ore in media in cui uno avrebbe potuto dedicarsi ad altro ed è rimasto davanti allo schermo nella speranza di un guizzo, uno qualsiasi, che giustificasse l'impiego di quelle due ore, non so voi, ma io comincio a irritarmi.
E' tendenza comune, non solo nel campo dell'animazione o cinematografico tour court. Nell'ambito in cui lavoro, ma qualunque altro può fornire argomenti al riguardo, la fuffa impera in vivace veste grafica, servendo contenuti strabolliti ripresi pari pari dalle agenzie di stampa. E io stessa mi trovo più volte a discutere con i colleghi sul fatto che quegli inutili orpelli chiamati testi forse un loro rilievo lo hanno.
Il risultato è che sempre più qualunque cosa, che si tratti di stampa, di cinema, di cucina, fosse anche di coltivazione delle ortiche, sempre più ha spessore e consistenza pari a zero. Col risultato che non solo ci patisce l'idea che detti argomenti incarnano, qualsiasi essa sia, ma anche le idee di chi legge quell'articolo o quel libro, vede quel film o mangia quella pietanza, eccetera.
Qualcuno mi dirà che l'idea, nonché la sua rilevanza, è roba vecchia. Puzza di anni Settanta, con annessi e connessi.
Ne convengo.
Ma non per questo va buttata tout court nel rusco. Perché l'idea, o concetto che dir si voglia, è importante quanto la forma. Se la si trascura, va a finire che il risultato è noia.
E a nessuno, credo, piace annoiarsi.
Come che sia sono lieta, veramente lieta di aver visto Steamboy a costo zero.
Perché se putacaso, seguendo i consigli dei rompiballe che tutto sanno, avessi comperato il DVD (ora disponibile in preziosa confezione Deluxe con disco di contenuti speciali e amenità varie a prezzo, ovviamente, di favore), sarei andata a caccia di Katsuhiro Otomo armata del vecchio, caro, analogicissimo e totalmente anti-steampunk spingardino caricato a sale di zio Paperone.
E credo gli sarebbe piaciuto quanto a me è piaciuto il suo film.

martedì 12 gennaio 2010

'Mbepatielle (pepatelli)

Oggi è una giornata particolare.
Il motivo non lo dico, ma sto pregando come so, e tengo tutte le dita incrociate, anche quelle dei piedi.
In attesa di avere una telefonata o un sms, posto la ricetta dei pepatelli, o 'mbepatielle come si dice da me. Sono fra i dolci più semplici e più buoni della cucina sannita, nonché cavallo di battaglia del ricettario familiare. E sono a base di miele, che secondo gli antichi romani portava fortuna e felicità. Pertanto, facciamo conto che pubblicarne la ricetta sia un rito propiziatorio. Dedicato con grande affetto alla mia amica Tania, e a tutti i suoi cari.

Ingredienti:
mezzo chilo di farina
mezzo chilo di miele millefiori del tipo compatto (e prendetelo buono, non le fetecchie industriali che si trovano al supermercato)
mezzo cucchiaino di bicarbonato
un cucchiaino di cannella

Preparazione:
per prima cosa, setacciate pian piano la farina con apposito strumento (io ne ho uno piccino bellissimo che ho preso alla fiera del mio paesello: se non lo avete impiegate un colino a trama fitta, anche se non è proprio lo stesso) facendola cadere in una ciotola capiente a sufficienza. Potete anche non setacciare, ma se lo fate secondo me i biscotti vi vengono meglio. Nel mentre provvedete pure ad aggiungere la cannella macinata e il bicarbonato e infine mescolate con lentezza e attenzione, pena una nevicata che imbiancherà il pavimento della vostra cucina.
Mettete quindi il barattolo del miele a scaldare a bagnomaria in un pentolino, attendete che il miele si sia sciolto del tutto, quindi afferrate il barattolo con una mappina bella spessa (è infatti opportuno evitare scene alla Fantozzi con ululato "Tremila gradi Fahrenheit!" e conseguente precipitare del barattolo sul pavimento, a far compagnia alla farina che già vi è caduta) e poco alla volta incorporate agli altri ingredienti mescolando con un cucchiaio di legno. Per inciso, ho visto vecchierelle che lo fanno a mano, ma loro hanno palmi che dopo decenni di duro lavoro casalingo e contadino rivaleggiano con quelli di un manovale, pertanto per noi comuni mortali è opportuno evitare siffatte manifestazioni di masochismo.
Ricoprite una teglia di carta da forno (va benissimo anche la placca, per coloro che come me hanno il forno formato Barbie) e con le mani inumidite formate dall'impasto dei filoncini spessi circa due centimetri e larghi quattro o cinque, quindi poneteli nella succitata teglia o placca a distanza non troppo ravvicinata, perché in cottura tendono a gonfiarsi. Mettete poi in forno già caldo a 200° e lasciateli cuocere per una mezz'oretta fino a quando non diventano dorati.
Dopo aver lasciato raffreddare i filoncini per qualche minuto, è arrivato il momento di procedere alla biscottatura.
Prendete ciascun filone, ponetelo su una superficie che si possa maltrattare (non fate come quella commare che si mise all'opera direttamente sul tavolo ritrovandoselo alla fine conciato come il ceppo di un macellaio) e con il coltello del pane tagliate dei biscotti dello spessore di un centimetro o poco più. La zia Lella, gran maestra di pepatelli, suggerisce di tagliarli tenendo il coltello un po' di sbieco perché l'effetto estetico ne guadagna, ma se temete per le vostre manine andate dritto per dritto: vengon buoni lo stesso. Nel mentre che affettate vi suggerisco di mettere da parte il cosidetto popò del filoncino, ovvero la parte iniziale e terminale, da sgranocchiare poi con calma: primo perché potete testare immediatamente sapore e consistenza dei pepatelli, secondo perché alla cuoca spetta questo e altro.
Rimettete quindi i pepatelli sulla placca o teglia sdraiandoli sul fianco e reinfilate nel forno spento ma ancora caldo, lasciandoli lì per una ventina abbondante di minuti.

Se il miele che avete impiegato è di quello buono, il sapore e il profumo saranno squisiti e daranno grande soddisfazione a voi e a chi vi è caro, purché sia voi che loro siate provvisti di dentature adeguate (il pepatello è infatti noto altresì con il nomignolo di "frantumadentiere" per la sua durezza da sasso). Se non lo sono, teneteli per qualche tempo in una scatola di latta per farli ammorbidire un po', oppure serviteli con un bicchierino di punch casalingo in modo che il commensale abbia bell'agio di pucciarli: la dentiera ne trarrà giovamento e, se il citato punch fa il suo effetto, anche l'umore.

venerdì 8 gennaio 2010

Carciofi e patate

Non so voi, ma io adoro i carciofi. Li mangerei tutti i giorni a pranzo, cena e colazione, e quando arriva la stagione per me è festa.
Adoro un pochino meno pulirli. Uno, perché nove volte su dieci va a finire che mi pungo, giacché sono distratta quanto un ingegnere. Due, perché nonostante abbondi di limone le mani mi diventano come quelle di uno spazzacamino. E terno tre, perché ci si mette una quaresima, e alla fine mi ritrovo con tonnellate di scarto che invadono l'assai scarso piano di lavoro della mia cucina.
Giacché però ne vale la pena, ogni tanto compero un tot di carciofi al mercato e mi metto all'opera con un'espressione facciale che, garantisce il mio amato bene, è lieta quanto quella del conte Ugolino alla prospettiva di mangiarsi qualche pezzetto di figlio.
Va da sé che pertanto, se qualche anima pia mi fa trovare la pappa pronta, son giuliva come un fringuello in una giornata di sole.
Se poi l'anima pia è la zia Lella, gran maestra in materia carciofesca, ancora di più.
La pietanza che propongo è uno dei suoi cavalli di battaglia, che la zia prepara apportando ogni volta sottili variazioni a seconda degli odori disponibili. Il risultato è sempre squisito. Per cui, se siete meno pigri e mugugnoni della sottoscritta, vi garantirete una cena coi controfiocchi.
Gli ingredienti sono per due o quattro persone, a seconda dell'appetito.

Ingredienti:
cinque bei carciofi (abbondate di uno, primo perché tanto chi mangerà gradisce di sicuro, secondo perché al paese mio e non solo il quattro porta sfiga)
tre belle patate
una grossa manciata di mollica di pane raffermo ma non troppo
un po' di capperi sotto sale, opportunamente sciacquati sotto l'acqua corrente
un filetto di peperone sott'olio
qualche fogliolina di mentuccia
olio d'oliva

Preparazione:
con santa pazienza mettetevi all'opera con i carciofi e puliteli. Se è la prima volta che vi ci date personalmente del tu, procedete come segue: tagliate i gambi e metteteli da parte, mozzate un bel pezzo della cima (e intendo un bel pezzo, in modo che dalla base del fiori restino tre dita scarse) e togliete le foglie dure fino a quando non farete alcuna fatica e anziché "sgnak!" sentirete, al momento di staccarle, un lieve "pop". Quindi con il coltello aprite appena la parte centrale del carciofo: se nell'interno vedete il cosiddetto fieno (in genere associato a foglioline minuscole di colore violetto o verdino che hanno la caratteristica di pungere come un cactus) provvedete a rimuoverlo ruotando con delicatezza la punta della lama. Nel mentre che operate tenete un limone tagliato a tiro e provvedete a strofinare con esso le vostre dita nonché i carciofi, così eviterete l'effetto spazzacamino per ambedue. In ultimo sbucciate i gambi - che non vanno buttati via, a meno che non siano proprio legnosi: sono infatti squisiti - e metteteli insieme ai fiori in una ciotola con acqua e spicchi di limone.
Intanto che i carciofi fanno il bagnetto preparate il ripieno: mescolate alla mollica ben tritata le foglioline di mentuccia e i capperi dissalati e aggiungete un filino d'olio se vedete che il composto è troppo asciutto. Quindi prendete un fiore alla volta, farcitelo per bene e con delicatezza in modo che non si spampani, e in cima mettete un pezzettino di peperone sott'olio per dare ulteriore sapore e una nota di colore.
In ultimo pelate le patate e tagliatele a spicchi non troppo spessi.
Prendete una teglia antiderente, spruzzate per bene il fondo di olio (potete anche foderarla con carta da forno per evitare di usarne a dismisura, ma se ciò giova al girovita va detto che il sapore ne risente), adagiatevi i carciofi ripieni, i gambi e le patate, andate nuovamente di olio e aggiungete pure un goccino d'acqua e sale quanto basta. Se per caso vi è avanzato un po' di ripieno spargetelo sulle patate, ché non fa un soldo di danno.
Se avete un coperchio (meglio ancora di vetro) che copra perfettamente la teglia, accendete il fornello a fuoco basso e fate stufare il tutto per un'oretta scarsa. Se non avete il coperchio, infilate la teglia in fondo già caldo a 150° e fate cuocere con tutto comodo.
Portate quindi la teglia in tavola così come è, o se volete fare le cose per benino mettete al centro di ciascun piatto un carciofo, fategli una bella coroncina di patate e servite.
Se poi avete ospiti, aggiungendo a lato una bella fetta di caciocavallo molisano stagionato (possibilmente del caseificio La Fonte Nuova, gioiellino del mio paese che, onde non essere tacciata di bieco campanilismo, specifico essere stato premiato in più di un'occasione per il miglior formaggio d'Italia) farete un piatto unico da leccarsi in baffi, renderete felicissimi i commensali e vi risparmierete la fatica di dover preparare ulteriori pietanze che non siano il dessert.

giovedì 7 gennaio 2010

Come eravamo, come siamo: Mussolini's Italy di R.J.B. Bosworth

Faccio una necessaria premessa: io di economia non capisco un beneamato zero.
Mi consola il fatto di essere in buona compagnia: i giornalisti italiani che si occupano della materia pare ne capiscano altrettanto.
Questo, quantomeno, a giudicare dai commenti al vetriolo con cui su Noise from Amerika, blog cui ho già fatto accenno altrove, si fanno a brani le articolesse sull'argomento che compaiono sui quotidiani dello Stivale.
Per chi non lo conoscesse, il blog succitato è curato da un gruppo di economisti italiani che hanno ben pensato di veleggiare altrove, e che a intervalli regolari infilzano le prodezze delle classi dirigenti nostrane. Lo fanno con maestria, con notevole sense of humour e con sufficiente chiarezza da rendere gli argomenti digeribili e comprensibili persino a chi, come me, non ne capisce un'acca.
Sicché leggo sempre con gran goduria i loro post, e ancor più i commenti ai suddetti, in cui spesse volte si scatena un tale ping pong di colpi di mortaio a cura dei partecipanti alla discussione che le malcapitate classi dirigenti si ritrovano alla fine con più buchi di un calzino dopo un trekking.
Di recente ho letto un commento in cui Michele Boldrin, uno dei padri fondatori del blog, suggeriva la lettura di Mussolini's Italy, saggio sul Ventennio di R.J.B. Bosworth.
Il nome mi era del tutto nuovo. Per cui sono andata a ravanare in Internet e ho scoperto che l'autore è un professore australiano che, oltre a insegnare in patria, ha una cattedra all'università di Reading, e ha pubblicato diversi libri sul Novecento italiano.
La nazionalità era un punto a favore: il Ventennio ancora oggi scatena in Italia in ambito accademico e non solo polemiche querule e farraginose in cui si prende di mira non la qualità del lavoro ma l'orientamento politico di chi ha prodotto il saggio o l'articolo di turno (e prendendo di mira l'orientamento politico, per inciso, quasi sempre ci si azzecca: la qual cosa è per me, che ho il livello di interesse per qualsivoglia schieramento politico pari a quello che può manifestare un gatto, sommamente irritante), per cui c'era la speranza che l'opinione di un autore nato a qualche miglio di distanza dal cosidetto Bel Paese non fosse biased.
Altro punto a favore era che a consigliare il libro fosse Boldrin. Il quale, per quel che ne posso capire io, è un signore di acuta intelligenza, delicato quanto un maglio nell'esprimere i suoi giudizi, e capace di squisite analisi letterarie. Pertanto, se dà consigli di lettura, per quanto mi riguarda è opportuno prendere nota.
Mussolini's Italy è uscito anche in italiano per la Mondadori. Visto che però sulle traduzioni proposte negli ultimi anni da questa casa editrice mi sono trovata spesse volte a tirare santioni da far concorrenza a un coltivatore diretto del Triveneto, ho preferito acquistarlo in inglese.
E' stata una lettura molto interessante. Per cui a chi non sa l'inglese consiglio comunque la traduzione, e pazienza per i santioni.
Non faccio un riassunto, ché con un testo di seicento pagine circa sarebbe cosa ben al di là delle mie povere forze, e men che meno provo a farne un'analisi. Non è il mio mestiere. E poi, perché rovinarvi la sorpresa.
Io, che sono una capra in storia quasi quanto in economia, di sorprese ne ho avute parecchie.
Per la prima volta sono riuscita a sistemare quel poco che sapevo in un contesto che avesse un filo logico. Questo perché il signor Bosworth, come tutti i benedetti studiosi di scuola anglosassone, spiega le cose con chiarezza adamantina.
Così ho potuto finalmente capire come dall'Italia liberale ma tutt'altro che libera che ha preceduto l'ascesa del pelato di Predappio si sia arrivati al Ventennio. Nonché come il succitato pelato abbia provato a fascistizzare la società, e del perché gli sia andata male nonostante le apparenze. E come mai, una volta caduto il fascismo, gli italiani si siano buttati tutto alle spalle fischiettando come se niente fosse.
La società pre-Ventennio, mostra il signor Bosworth dati alla mano, era caratterizzata da un clientelismo assai ben radicato: ovvero, non si poteva far nulla o ottenere nulla se non si era amici di, figli di, parenti di. Strumento principale per ottenere un lavoro o fare carriera, la raccomandazione. Le alte sfere dell'industria andavano a braccetto con la classe politica, giocando sottobanco, distribuendo denaro e favori e ottenendo la controparte. Gli uomini di potere si comportavano da ras nelle zone territoriali che governavano, con le autorità che chiudevano un occhio e spesso entrambi perché le ramificazioni clientelari favorivano anche loro, assicurando fra l'altro un capillare controllo del territorio.
Un vero orrore, converranno tutti, e di qualunque opinione politica siano.
Dopo la Grande Guerra tutta una serie di tensioni rimaste più o meno latenti scoppiano. Il che, per dirla in buona lingua, causa un gran casino.
E qui sale alla ribalta Benito Mussolini da Predappio, che dopo una serie di triccheballacche con ampio spargimento di sangue e un discreto numero di morti ammazzati, dà il via alla Rivoluzione Fascista.
Rivoluzione, mi insegna il vocabolario, vuol dire "mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello".
Pertanto uno si dovrebbe aspettare un cambiamento radicale rispetto alla zozzeria descritta poco sopra. Cambiamento che il fascismo proclama a destra e a manca.
Bosworth, sempre dati alla mano, descrive la società del Ventennio con minuzia certosina.
La descrizione si può egregiamente riassumere come segue: chiacchiere e camicia nera.
Perché non cambia un amato zero. Clientelismo, gestione della cosa pubblica come cosa propria da Milano alla Calabria e connivenza fra alte sfere economiche e politiche continuano esattamente come prima.
In certe occasioni, non cambiano nemmeno i nomi di chi è coinvolto. Tipo un alto papavero responsabile della disastrosa conduzione dell'esercito italiano nella Grande Guerra, che si ritrova amenamente in sella per tutto il Ventennio, e se per questo anche oltre. Ricchi premi e bacio accademico a chi sa dirmi chi è senza aver letto prima il libro.
Bosworth non prende parti. E, fra un documento e l'altro, contribuisce anche a sfatare un po' di miti. Ad esempio, il debellamento della malaria grazie alla bonifica delle paludi pontine. Peccato che la zanzara anofele abbia deciso di sloggiare solo nel Dopoguerra grazie al DDT gentilmente fornito dagli americani. Oppure la vulgata che nelle colonie gli italiani si siano comportati in maniera assai più umana rispetto a inglesi, francesi, tedeschi e quant'altro. Le tonnellate di armi chimiche con cui Etiopia e Libia sono state bombardate a tappeto e la presenza di campi di concentramento per la popolazione locale non danno esattamente questa impressione.
La parte più interessante del libro riguarda l'indefesso martellare del pelato di Predappio per fascistizzare l'italica società e creare l'uomo nuovo, il tutto con il contributo di un tot di cortigiani che tramite stampa e altri organi di informazione o intrattenimento gli davano manforte spesso con untuoso ossequio, di rado per autentico credo e assai più di frequente nel tentativo di far carriera (e anche qui, niente di nuovo sotto il sole). Il motivo del fallimento è già nelle premesse descritte sopra: dove conta il rapporto clientelare e la fitta rete di relazioni parentali, amicali o con personaggi di riferimento al comando, lo Stato - di qualunque natura esso sia - non può arrivare. Arriva al massimo in superficie, ma la sostanza non cambia.
Il che, per un motivo o per l'altro, non mi suona esattamente nuovo.
E forse spiega anche perché, arrivato il Dopoguerra, gli italiani si siano buttati il Ventennio dietro le spalle come se niente fosse, facendolo diventare di volta in volta occasione di schermaglia politica, di nostalgia appesantita da paccottiglie varie ramazzate senza un minimo di cognizione (i buontemponi che hanno per suoneria del cellulare "Faccetta nera" resterebbero di sale nello scoprire che il Duce detestava quella canzone: fosse mai che l'italico soldato figliasse con la bella abissina inquinando la razza) o di sfogo per dementi che di professione danno mazzate allo stadio e fuori.
Ci sono molte altre cose interessanti nel libro. Vi lascio il piacere di scoprirle da voi.
Io solo solo che, finita la lettura, ho chiuso il libro con una sensazione non esattamente gradevole.
Quella che la malaise della società italiana sia ben più vecchia del Ventennio, e che sia viva e vegeta.
Magari mi sbaglio.
Dimenticavo: buon anno.
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