venerdì 30 aprile 2010

Ostie al cacao con crema alla cannella e fragole

Oggi è il compleanno della zia Lella. Alla mia adorata vecchierella vanno tutti i miei auguri, e il ringraziamento per tutte le belle cose che ha fatto per me e per tutte quelle che farà in futuro. Per festeggiare propongo una ricetta che è stata da me creata ma che è figlia della sapienza cucinaria di cui la zia è custode. Come avrete modo di vedere la preparazione è assai semplice, e oltre a essere di bell'aspetto è pure parecchio buona.

Ingredienti:
- per le ostie
200 grammi abbondanti di farina
2 uova
due cucchiai ben colmi di zucchero
una tazzina scarsa d'olio
una presa di cannella
un cucchiaio colmo di buon cacao
- per la crema
due uova
due cucchiai di zucchero
due cucchiai rasi di farina
mezzo litro di latte
cannella in base al gusto
- per la decorazione
fragole ben mature
foglioline di menta

Preparazione:
in una capace scodella incorporate con l'aiuto del cucchiaio di legno gli ingredienti delle ostie fino a ottenere un impasto alquanto liquido e nel frattempo fate scaldare l'apposito ferro (per ulteriori dettagli vi rimando alla ricetta delle ostie classiche, cavallo di battaglia della zia): al momento di cuocerle vi consiglio di fare attenzione, giacché la presenza del cacao fa ridurre i tempi di cottura e vi è quindi il rischio che si brucino. Non appena si colorano tiratele via dal ferro con la punta di un coltello e con l'aiuto di una presina mettetele sul fondo di un bicchiere in modo che prendano una forma a coppetta mentre sono ancora morbide: lasciatele lì fino a quando non si raffredderanno, in modo che si induriscano come si confà. Gli ingredienti prescritti vi basteranno per una quindicina di ostie, pertanto calcolate se siano sufficienti in caso di ampio numero di commensali.
Nel mentre che le ostie si freddano dedicatevi alla crema: la ricetta è quella della crema pasticcera classica, ulteriore cavallo di battaglia della zia, con la differenza che non è necessario aggiungere la buccia di limone. Una volta che è pronta tiratela via dal fuoco e incorporate la cannella, quindi lasciate raffreddare pure lei.
Dedicatevi poi alle fragole, cui toglierete il picciolo e che affetterete a spicchi il più possibile regolari.
Pronti tutti gli ingredienti, siete pronti pure voi per acconciare il dessert come si confà: prendete con delicatezza una coppetta di ostia, mettete sul fondo una generosa cucchiaiata di crema e decorate con gli spicchi di fragola in modo da formare una stellina. Al centro della stellina, mettete le foglie di menta tritate. Man mano che procedete, disponete le coppette su un bel piatto di portata, magari di un bel colore vivace.
Mettete il piatto in frigo per una mezz'ora in modo che la crema si consolidi, quindi portate in tavola. E se state festeggiando una persona cara, ditele non solo con il dolce, ma anche a parole quanto le volete bene.
Auguri zia Lella. E grazie ancora dalla tua nipotastra, che se ha imparato un pochino a cucinare lo deve a te :*

mercoledì 28 aprile 2010

Teglia di carciofi, riso e patate

"Mi mancano le tue stroncature. A quando la prossima?"
La sempre diletta Tania mi ha chiesto ieri quando penso di metter mano alla mannaia onde fare in briciole la serie, il libro o il film di turno. Cosa che, sostiene, mi riesce particolarmente bene e la mette spesso di buon umore. A giudicare dai commenti privati e non, pare anzi che i pezzulli in cui do libero sfogo al piacere della stroncatura siano i prediletti di una ricca fetta di visitatori. Non so se ciò significhi che son particolarmente bravina come critica a tempo perso, oppure che le mie ricette fan talmente schifo da spingere i gentili lettori a suggerirmi garbatamente di dedicarmi ad altro. Nel dubbio non mi astengo e propongo una pietanza che, nonostante le foto le rendano scarsamente giustizia, mi è venuta benino. Spero che Tania si accontenti: nel frattempo le prometto una semi-stroncatura (ma potrebbe essere pure un semi-panegirico, in effetti) per il weekend, sempre a patto che il lavoro mi lasci un briciolo di tempo. Ma veniamo al dunque.

Ingredienti:
cinque carciofi
cinque patate
due cipolle
una manciata di capperi sotto sale
tre etti scarsi di riso da risotti
un etto di pecorino fresco tagliato alla julienne
olio quanto basta
limone
un cucchiaio di brodo vegetale granulare biologico
pepe
un bel po' di pazienza, perché fra preparare i vari ingredienti e le operazioni di cottura se ne vanno un paio d'ore

Preparazione:
in primis pulite gli ameni carciofi nel solito modo: se putacaso siete capitati su questo sito casualmente e non avete avuto il dispiacere di cibarvi le mie spiegazioni su come si acconcia la tosta verdura, vi rimando alle ricette carciofesche già pubblicate. Non buttate i gambi, bensì toglietene la parte esterna più dura e fateli a rondelle ché vi serviranno per condimento. Una volta puliti, fate i carciofi a fettine larghe meno di mezzo centimetro e lasciate il tutto a bagno nell'acqua addizionata con limone.
Sbucciate e affettate le patate, badando che le fette siano pure loro spesse meno di mezzo centimetro, e mettete a bagno pure loro così si leva l'amido in eccesso.
Acchiappate quindi una bella teglia antiaderente, mettete sul fondo un filo d'olio e adagiatevi le fette di patate, che provederete a condire con altro filo d'olio, pepe e un po' di capperi preventivamente dissalati sotto l'acqua corrente.
Scolate le fettine di carciofo e le rondelle di gambo e mettete pure loro a fare strato su quello di patate, condendo pure loro con olio, un po' di pepe e qualche cappero.
Come ultimo strato mettete il riso, coprendo per benino i carciofi e facendo in modo che sia uniforme giacché ciò aiuterà la cottura. Sciogliete quindi il brodo granulare in due capaci bicchieri di acqua tipieda e versateli con garbo nella teglia (il liquido dovrà arrivare più o meno a filo con lo strato di carciofi).
A questo punto coprite la teglia con il consueto coperchio di vetro e mettete sul fornello a fuoco medio. Per cuocere, la pietanza ci metterà un'oretta e vi toccherà sorvegliare di tanto in tanto che l'acqua non si sia asciugata del tutto, nel qual caso ovviamente va aggiunta fino a cottura. La quale cottura, ovviamente, sarà completa nel momento in cui il riso sarà al dente, il che darà il segnale che sia i carciofi che le patate son diventati ben tenerelli.
Quando vi accorgete che la pietanza è lì lì per esser pronta, accendete il forno a 200°. Quindi spegnete il fornello, togliete il coperchio e irrorate la superficie con il pecorino alla julienne fino a coprirla tutta. Acchiappate poi la teglia con due presine ben spesse e mettetela nel forno per qualche minuto, ovvero fino a quando il cacio ha fatto la crosticina.
Fatto ciò, siete pronti per servire. Portate la teglia direttamente in tavola, porzionate, raccomandate agli ospiti di aspettare un paio di minuti a meno che non siano feticisti delle ustioni e poi, serenamente, mangiate.
La teglia di carciofi, per inciso, è ottima anche fredda e il giorno dopo risulta ancora migliore. Approfittatene quindi per farne ricca dose e servitela anche il giorno dopo, stavolta come antipasto anziché come piatto unico: vedrete che i commensali apprezzeranno, e apprezzerete pure voi.

lunedì 26 aprile 2010

Ciambelle con il naspro

Ultimamente non ho avuto gran voglia di cucinare per una serie di motivi. In primis l'umore, che non è molto allegro. Però arriva sempre il momento di darsi una pacca sulla spalla e dirsi che no, sprofondare nella malinconia non è cosa buona. Per quanto la malinconia sia motivata.
Ci sono persone che non ci sono più, e che mi mancano. La perdita di Vincent è recente. Venerdì sarebbe stato il compleanno di zia Margherita. Ovvero è stato, ma stavolta al posto dei dolci ci sono stati fiori, e non a centro tavola.
Vincent e zia Margherita, ognuno a modo suo e pur con percorsi diversissimi, hanno entrambi onorato la propria esistenza vivendola pienamente.
Il modo migliore per ricordarli e fare in modo che continuino a vivere dentro di me è provare a fare altrettanto.
Per cui rimetto le mani in pasta, metaforicamente e concretamente.
Quella che vi propongo è una ricetta di famiglia. Serve a sancire alcune ricorrenze importanti, la Pasqua in primis, ma non solo. E' ottima per la colazione, o per una merenda pomeridiana. E i confettini colorati sul naspro, la glassa che ricopre le ciambelle, vogliono sottolineare l'allegria festiva. Faccio conto che il loro colore rappresenti un sorriso, quello che adesso proprio non mi riesce di fare.

Ingredienti:
500 grammi di farina
3 uova
200 grammi di zucchero
140 grammi di strutto
la buccia di un limone
1 bustina di lievito
un po' di latte
Per la decorazione:
200 grammi di zucchero a velo
un po' d'acqua
confettini colorati

Preparazione:
sulla spianatoia o all'interno di una capace ciotola impastate gli ingredienti fino a realizzare una pasta abbastanza solida ma ben malleabile: se vi sembra troppo dura sotto le mani, aggiungete un paio di cucchiai di latte e fateli incorporare bene. Foggiate quindi la pasta in forma di ciambelle della grandezza desiderata (noi le facciamo di circa 10 centimetri di diametro, ma nulla osta ovviamente a farle più grandi o più piccole).
Foderate con la carta da forno una placca e adagiatevi le ciambelle, badando di porle ad adeguata distanza perché in cottura tendono a gonfiarsi. Mettete la placca in forno già caldo a 200° e fate cuocere finché le ciambelle non assumono un colore dorato, quindi sfornate e lasciate raffreddare.
Mentre le ciambelle raggiungono la temperatura ambiente preparate il naspro, aggiungendo allo zucchero a velo tanta acqua quanta ne basta a fare una pastella molto solida: per la quantità prescritta ne serviranno due cucchiai circa. Con l'aiuto di un coltello a lama piatta ricoprite le ciambelle con il naspro e in ultimo versateci su i confettini colorati in modo che vi aderiscano.
Lasciate riposare per un paio d'ore finché il naspro non si è solidificato del tutto.
Conservate in una scatola di latta, le ciambelle si serberanno fresche per un paio di settimane.
Vista la dimensione standard, sono ottime per fare merenda smezzandole con chi vi è caro.
Ma andranno benissimo anche quando siete da soli, e avete bisogno di qualche briciola di dolcezza e di colore.

mercoledì 14 aprile 2010

Love is stronger than death

"Vince non c'è più."
Lo zio Pietro mi ha avvertito stamattina via mail.
In questo modo mi ha reso meno terribile la notizia, che avrei scoperto leggendo l'ultimo post del blog su cui Vincent, personalmente o tramite sua moglie Jennifer, informava le persone care di quello che stava accadendo.
Vincent era nato nel mio paese, e si era trasferito in Canada con la sua famiglia quando aveva appena quattro anni.
Si può dire che da allora ha sempre viaggiato. Il suo lavoro, infatti, lo portava nei posti più diversi. Inghilterra, Nigeria, Stati Uniti, Tailandia. Se rileggo le sue mail faccio fatica ancora adesso a seguire la molteplicità dei suoi itinerari. A cadenza regolare scriveva resoconti agli amici delle sue attività. Amici di ogni parte del mondo. Perché ovunque andasse, era in grado di stringere rapporti affettivi. Lo faceva senza sforzo. Facile per lui voler bene, facile volergli bene.
Fra le sue tappe, c'era anche l'Italia.
Ho conosciuto Vincent quando ero molto giovane. Arrivò a Roma per una conferenza sulla delinquenza minorile, argomento di cui dire che fosse un esperto è semplicemente riduttivo. Non prese alloggio in albergo: dormiva al carcere minorile di Casal del Marmo. Penso che questo dica molto di lui.
Dice altrettanto di lui il fatto che, quando venne a trovarci direttamente dall'aeroporto, la sua valigia fosse carica di regali. Gli chiesi per chi fossero, e lui mi rispose che erano semplicemente cose che gli erano piaciute e che le aveva prese per quel motivo. Fra i doni c'era un aeroplano di plastica bianco e azzurro con il logo KLM, la compagnia di bandiera olandese, che troneggiava su una scatola di cioccolatini: quando gli rivelai che volevo studiare l'olandese lo tolse dalla valigia e me lo regalò. Vedi, mi disse, quando viaggio io prendo le cose più diverse perché so che prima o poi troveranno sempre il loro destinatario.
Fra i destinatari c'erano anche le mie zie. Zia Margherita era la sua madrina, e lui non mancava mai di telefonarle, ovunque fosse. "Vincenzo, ma dove sei!" "A Kuala Lumpur!" "E dov'è!" "In Malesia!" "Uh, lasse sta', non voglio sapere niente. Stai bene?" "Sì, sto bene, sto bene."
Stava sempre bene. Qualunque fosse la situazione. Quando rimase in Nigeria tre anni per conto del British Council spesso lo cercavamo, ci spaventava che fosse in un luogo dove gli scontri erano quasi all'ordine del giorno. Lui richiamava e ci tranquillizzava. Il suo atteggiamento era sempre serafico e concreto.
Aveva la capacità di analizzare ogni contesto in cui si trovasse, e di studiare la soluzione migliore perché si potesse intervenire in modo positivo. In Nigeria, fra le mille cose, ideò un programma per promuovere i diritti delle donne attraverso la Shari'a, la legge islamica. Un'idea che per un occidentale sarebbe folle. Ma Vincent, perfettamente immerso nel contesto, aveva capito che era il modo più adatto per migliorare in loco la condizione femminile senza che vi fossero frizioni.
Sapeva che imporre qualsiasi cosa dall'alto non serve a nulla. Anche questo dice molto di lui.
I momenti più belli nella mia memoria sono gli incontri al paese. Quando poteva tornava lì, per ritrovare le atmosfere di quando i suoi genitori erano "young lovers", giovani innamorati. Era spesso ospite delle zie, con cui comunicava in una singolare mescolanza di italiano, dialetto ed espressioni tradotte letteralmente dall'inglese, di fronte alle quali la zia Margherita scuoteva benevolmente la testa. Scuoteva la testa anche di fronte ai doni che portava: un servizio da caffè azzurro cielo acquistato in Arabia Saudita, una tela dipinta che ritraeva pastori nigeriani con i loro armenti e che Vincent fece personalmente incorniciare perché le zie potessero direttamente appenderla, senza l'impiccio di dover provvedere al riguardo. La sua concretezza si esprimeva nelle cose piccole come in quelle grandi. E si esprimeva sempre con un sorriso.
Il sorriso è la prima cosa che mi viene in mente quando penso a lui. Insieme al sorriso, il tono della voce, un basso profondo che spesso esplodeva in una risata. Ho sempre odiato l'aggettivo "solare". Ma è quello che forse riassume meglio Vincent, il fatto che in qualunque luogo si trovasse fosse capace di riempirlo di luce e di allegria.
Forse perché la mia prima memoria di Vince è legata a qualcosa che aveva a che fare con l'Olanda, stamattina leggendo la mail di Pietro ho sentito nella testa una canzone olandese. L'autore è Youp van't Hek, un cabarettista. Si chiama "Waarom gaan de verkeerde mensen dood". Vorrei farvela ascoltare, ma online non è disponibile. Una piccola canzone per voce e piano.

"Waarom gaan de verkeerde mensen dood?
Waarom zit God zich steevast te vergissen?
Hij haalt steeds degenen die ik niet kan missen,
En dat aantal is inmiddels veel te groot..."

("Perché sono le persone sbagliate a morire? Perché Dio fa sempre errori? Si porta via quelli di cui non posso fare a meno, e ormai sono davvero troppi...")

Non voglio pensare alle vicende delle ultime settimane.
Voglio pensare a ciò che provavo ascoltandolo, o leggendo le sue mail. Piene di aneddoti sul suo lavoro e sulla vita quotidiana, di sense of humour, di intelligenza, di fotografie che lo ritraevano in viaggio, che mostravano luoghi, fiori ripresi in giardino o nei parchi, i suoi gattini, sua moglie.
Tutto questo resta, e mi parla di una vita veramente vissuta, e vissuta all'insegna dell'amore.
Continuerà a parlarmene finché vivo.
L'amore è più forte della morte.

martedì 13 aprile 2010

La pizza di Bonci e il frac del Gattopardo

"Tutto era placido e consueto, quando Francesco Paolo, il sedicenne figliolo, fece nel salotto una irruzione scandalosa: 'Papà, don Calogero sta salendo le scale. È in frac!'
Tancredi quando udí la fatale parola non poté trattenersi e scoppiò in una risata convulsa. Non rise invece il Principe sul quale, è lecito dirlo, la notizia fece un effetto maggiore che non il bollettino dello sbarco a Marsala. (...)
Il suo sconforto fu grande e durava ancora, mentre meccanicamente si avanzava verso la porta per ricevere l'ospite. Quando lo vide, però, le sue pene furono alquanto alleviate. Perfettamente adeguato quale manifestazione politica, si poteva però affermare che, come riuscita sartoriale, il frac di don Calogero era una catastrofe. Il panno era finissimo, il modello recente, ma il taglio era semplicemente mostruoso. Il Verbo londinese si era assai malamente incarnato in un artigiano girgentano cui la tenace avarizia di don Calogero si era rivolta. Le punte delle due falde si ergevano verso il cielo in muta supplica, il vasto colletto era informe e, per quanto sia doloroso è pur necessario dirlo, i piedi del sindaco erano calzati da stivaletti abbottonati."

Putacaso non aveste risconosciuto questo brano (e nel caso così fosse vi suggerisco di recarvi quanto prima in libreria), sappiate che è uno dei passaggi di maggior rilievo de Il gattopardo, capolavoro di Tomasi di Lampedusa.
Se poi non conoscete la pizza di Bonci sappiate che vi siete persi una delle meraviglie gastronomiche dell'Italia intera. Nel qual caso vi suggerisco di farvi una passeggiatina in quel di Roma a via della Meloria, dove il citato Bonci crea sublimi capolavori nel suo locale Pizzarium.
Gabriele Bonci è il maestro e mentore della mia amica Paola, che tempo fa ha ben pensato di veleggiare verso lidi olandesi e di mettersi lì a far la panificatrice e pasticcera. Dopo i miei recenti tentativi di arte pizzaria, devo dire tutto sommato non malvagi, Paola mi ha suggerito la ricetta della pizza come fatta da Bonci pirsonalmente di pirsona. Detta ricetta è eccellentemente spiegata nel video che trovate qui sotto, e che lascerà ipnotizzati tutti gli aspiranti pizzaioli: guardate che spettacolo.

Voi a questo punto mi chiederete: e che ci azzecca il mago della pizza con il capolavoro del principe siculo?
C'entra.
Perché, come nel caso del frac di don Calogero, il verbo di Gabriele Bonci si è malamente incarnato nella assoluta imperizia di Jessie Ricetta. Lo si può desumere facendo il paragone fra la sublime pizza che si vede alla fine del video su postato e il mostricino malriuscito ritratto nell'incipit.
Va detta però una cosa: brutto sì, il mostricino, ma non si sa quant'era buono. Merito del Bonci beninteso, mica mio.
Per cui vi propongo la ricetta di codesto appetitoso semi-disastro gastronomico con le notazioni della sottoscritta relative al suo darsi del tu con il verbo bonciano, convinta che dove io sono riuscita a fare una pizza buona ma orrida voi sarete in grado di farne una tanto buona quanto bella. Le dosi sono metà rispetto a quelle suggerite nel video, giacché come primo tentativo mi son tenuta prudentemente bassa con le quantità.

Ingredienti:
500 grammi di farina buratto oppure 0, di eccellente qualità
400 grammi di acqua
3 grammi di lievito secco (non i cubetti, raccomanda Bonci, in quanto vai a sapere quali maltrattamenti possono subire nel trasporto, nella conservazione in frigo e quant'altro)
mezzo cucchiaio di sale
un cucchiaio di olio
farina di grano duro quanto basta
due etti circa di broccoletti, o cime di rapa che dir si voglia

Preparazione:
come dice il mago, la farina è componente fondamentale. Ci vuole quella buona, ché quelle che si trovano comunemente sono inerti peggio di un cadavere. Io seguendo il suggerimento di donna Paola ho preso quella del Mulino Rosso che si trova facilmente in nota catena di negozi di alimentari e casalinghi biologici, e ho notato la netta differenza. Se poi voi avete il molinaro di fiducia, rivolgetevi a lui e sappiate che vi invidio.
In una capace terrina iniziate a mescolare la farina e l'acqua (il Bonci, parbleu, usa allo scopo il cucchiaio), facendo una pastella. Aggiungete quindi i 3 grammi di lievito (così pochi?, chiederete voi; sì, così pochi, giacché bastano e soperchiano, come ha avuto modo di vedere l'arciscettica sottoscritta) e continuate a mescolare. Poi il sale, e continuate a mescolare. Infine l'olio, e sempre mescolate. Una volta che il tutto si è incorporato, lasciate riposare per dieci minuti. Quindi prendete l'appiccicosissimo composto, mettetelo sul piano di lavoro ben cosparso di farina di grano duro e impastate con delicatezza, ripiegando a metà la pasta alternando la piegatura verso di voi e verso il centro: in tal modo essa si asciugherà. Bonci per inciso compie questa operazione con la grazia di un ballerino, io mi sono trovata immersa nella semola e nella pastella appiccicaticcia fino alle sopracciglia, ma in qualche modo me la sono cavata.
Fatto ciò, rimettete la pasta nella ciotola ben cosparsa di semola e ponetela per ventiquatt'ore nel frigo, nello scomparto riservato alle verdure dove è meno probabile che abbia choc termici. Sì, avete capito bene. Nel frigo. Paola mi aveva preannunciato che i lieviti si mantengono attivi anche a basse temperature, notizia che io avevo accolto con parecchi dubbi. Detti dubbi sono andati a quel paese quando, aprendo il frigo dopo il tempo prescritto, ho scoperto che la pasta era in sostanza traboccata dalla scodella.
Superato lo choc, mi son quindi disposta con timore a preparare la base della pizza, giacché quella proposta dal Bonci nel video era una pizza ripiena.
Il Bonci, da mago qual è, tratta la pasta con amore: la mette sul piano ben infarinato di semola, la allarga delicatamente facendo pat pat pat sulla superficie con la punta delle dita fino a ottenere una sfoglia uniforme, quindi la solleva con il palmo della destra, la adagia capovolta sul dorso della sinistra, infila sotto la pasta il dorso della destra e sollevando entrambe le mani con mossa da etoile adagia la sfoglia nella teglia. La sottoscritta, paralizzata dalla pasta che era insolitamente appiccicaticcia e morbidissima, facendo pat pat pat si è ritrovata con una sfoglia sottile al centro e spessa ai bordi, che si è mestamente bucata in più parti non appena ha tentato il gioco di prestigio coinvolgente i dorsi delle mani. Ha pertanto foderato la teglia (niente olio sul fondo, per inciso) rappezzando detta sfoglia come meglio le riusciva.
Fatto ciò si mettono i broccoletti che, come dice Bonci, sono bellissimi. Ed è vero. Così belli che li si mette a crudo. Niente condimento, niente di niente. Così sono liberi di dare il meglio di sé. Come non essere d'accordo.
In ultimo si fa la sfoglia superiore con il procedimento suesposto. Nel mio caso, detto procedimento è stato un esatto replay del primo, con conseguente sagra del rappezzo pure in questo caso. Ma oramai già mi ero rassegnata, e come da ricetta del maestro ho messo sulla superficie un filo d'olio.
Ho quindi infilato la teglia in forno già caldissimo a 250°, seguendo scrupolosamente i dettami bonciani: dieci minuti nella parte bassa del forno, dieci nella parte alta, il che è stato bastevole a cuocere la pizza.
Ho quindi sfornato, atteso che la teglia smettesse di scottare come l'inferno, e portato in tavola con sguardo vergognoso.
I miei commensali, che per mia fortuna son gente comme il faut e non hanno fisime riguardo l'aspetto di una pietanza purché se magni bene, hanno dato l'assalto. E hanno detto che la pizza, oltre a essere assai gustosa (alto gradimento, fra le altre cose, per il broccoletto che si era delicatamente stufato), era leggera da non dirsi.
La leggerezza si spiega con il fatto che il lievito era in percentuale ridottissima, così insegna un amico panettiere di Dottor P. Io di chimica e panificazione non so nulla, ma posso confermare la leggerezza visto che in tre ci siamo pappati tutta la teglia e il pomeriggio, anziché agonizzare come sempre succede dopo pasto pizzesco, abbiamo fatto tranquillamente una ricchissima merenda.
Giacché mi è rimasta mezza bustina di lievito e mezzo chilo di farina, mi cimenterò quanto prima in una nuova pizza. A strato singolo, così il rappezzo non fa danni estetici. Penso che, come dire, l'amato bene apprezzerà.
E mi premurerò di comunicare la ricetta alla zia Lella non appena torna dal paesello. Il suo cruccio, mi ha confessato di recente, è che oramai una pizza come si deve non riesce più a farla perché non ha più la forza per impastare.
Mi pregusto già la sua faccia quando le rivelerò che, per fare una pizza come si deve, impastare con la forza non è affatto necessario...

lunedì 12 aprile 2010

Profiterole

Come promesso ieri ecco la ricetta del temibile e squisito profiterole casalingo che la sottoscritta ha realizzato ieri con il prezioso aiuto di Dottor P, valente cuoco-ingegnere specializzato in pasticceria. Giacché di lui vi ho parlato più volte mi par giusto presentarvelo: è il giovinotto che trovate ritratto a seguire, munito per l'occasione di grembiale d'ordinananza personalizzato. Chi ha vista migliore della sottoscritta avrà modo di notare la simpatica scritta P++ su detto grembiale: se siete ingegneri non c'è bisogno di spiegarvi di che si tratta, se non lo siete vi basti sapere che non si tratta di mero elemento decorativo ma è meglio che non indaghiate ulteriormente su cotanto sfoggio di geekitudine. Ma questo fra parentesi: ecco a voi la ricetta, realizzare la quale ci ha soddisfatto a un punto tale che Dottor P e io ci siamo già accordati per fare quanto prima un ulteriore workshop cucinario.

Ingredienti:
5 uova
150 grammi di farina più due cucchiai rasi
80 grammi di burro
250 grammi di acqua
una punta di cucchiaio di lievito
un pizzico di sale
due cucchiai di zucchero semolato
due cucchiaini di zucchero a velo
mezzo litro di latte
mezzo litro di panna liquida (più eventualmente altri 250 millilitri per decorare)
200 grammi di cioccolato fondente
un pezzo di buccia di limone
la preziosa collaborazione di Dottor P

Preparazione:
in primis approntate la crema pasticcera, che avrà modo di raffreddarsi come si confà mentre voi affrontare il resto: allo scopo in una pentola con fondo spesso battete i rossi d'uovo (non buttate i bianchi che vi potranno servire per fare, ad esempio, un eccellente panettone), i due cucchiai rasi di farina, i due cucchiai di zucchero e la buccia di limone priva della parte bianca, incorporando poi in ultimo il latte e facendo amalgamare bene il tutto. Mettete quindi il tegame su fuoco medio mescolando in continuazione in modo che non si attacchi, tirate via la pentola quando la crema vela il cucchiaio, eliminate la buccia di limone e lasciate raffreddare per i fatti suoi.
Passate quindi agli ameni bignè: fate scaldare l'acqua con il sale, il burro e il cucchiaino di zucchero a velo, quando bolle buttateci la farina tutta di un colpo e mescolate bene fino a quando il composto non si stacca dalle pareti della pentola, quindi tirate via dal fuoco, incorporate la punta di cucchiaio di lievito e lasciate raffreddare; nel frattempo accendete il forno a 250° e foderate la placca dello stesso con un bel foglio di carta da forno, così vi portate avanti con il lavoro. Non appena il composto è tiepido incorporate una dopo l'altra tre uova, quindi con l'aiuto di un cucchiaio fate dei mucchietti grandi quanto una polpetta (seguendo i consigli dell'ottimo Alfredo Maesa ho evitato che vi fossero i cornini, che tendono a bruciarsi), metteteli sulla placca e infornateli fino a quando non diventano belli gonfi e dorati, ribaltandosi su se stessi. A quel punto sfornate e lasciate raffreddare.
Siete quindi pronti per preparare la crema chantilly (versione italica, giacché quella francese consiste semplicemente in panna zuccherata): con il frullino elettrico battete 250 millilitri di panna liquida con un cucchiaino di zucchero a velo fino a quando non è ben ferma, quindi incorporatevi la crema pasticcera. Approntata la chantilly, è ovviamente arrivato il momento di farcire i bignè, cosa che farete con il prezioso aiuto di una siringa e badando a riempirli fino a quando sono pasciuti quasi da scoppiare, e usando quale piano di lavoro la teglia foderata di carta su cui li avete cotti, così evitate di zozzare altre superfici. Voilà!
Fatto ciò, si è in sostanza alla fase finale: costruite una piramide di bignè mettendo i più grossi alla base e saldandoli fra di loro con qualche avanzo di crema chantilly, quindi procedete alla preparazione della copertura. La qual cosa, per inciso, è semplicissima: vi basterà far scaldare a fuoco lento i restanti 250 millilitri di panna e man mano aggiungervi i due etti di cioccolata fondente, mescolando bene in modo da ottenere una crema molto fluida. Aspettate che si freddi un po' e con l'aiuto del cucchiaio di legno provvedete a versarla in modo da coprire completamente la piramide di bignè: come potete vedere, l'effetto non ha nulla da invidiare a quello dei profiterole che trovate in vendita nelle più lussuose pasticcerie.
A questo punto se volete dare il tocco finale montate gli eventuali ulteriori 250 millilitri di panna con un po' di zucchero a velo e con la siringa munita di bocchetta spizzata provvedete a fare dei bei ciuffi bianchi tutt'intorno e sulla cima della piramide. Noi dal canto nostro dopo due ore passate in mezzo a profumini vari avevamo una fame blu, e dopo aver messo il dolce una mezz'oretta in frigo in modo da farne ben consolidare la struttura ci siamo armati di cucchiai e abbiamo polverizzato il tutto. E se vi stupisce il fatto che in soli tre commensali si sia riusciti a divorare un profiterole intero, cimentatevi a vostra volta nella preparazione e quindi assaggiate: vi assicuro, non vi stupirete più e prenderete accordi con il vostro personale Dottor P per fare quanto prima il bis.

domenica 11 aprile 2010

Sunday, sweet sunday

Oggi sto molto meglio. Niente di più adatto, quindi, di una bella merendina fatta in casa.
Che è quella che vedete ritratta nella foto.
Trattasi di profiterole che la sottoscritta ha realizzato con l'ormai celebre cuoco-ingegnere Dottor P, più volte citato in codesto modesto blog.
Domani posto la ricetta. Per intanto, però, mi godo sia la merenda che la compagnia.
Buona domenica :)

venerdì 9 aprile 2010

Knocked out

Ragazzuoli, mandatemi un pensiero taumaturgico.
Mi sono svegliata stamane come se mi avessero menato con un tortore particolarmente nodoso.
Qualcosa mi dice che il virus che sta andando a spasso fra i miei familiari ha deciso di far tappa da me.
Per prudenza vi auguro buon weekend fin da ora. Se sto meglio farò capolino. E se vi capita mandate un pensiero affettuoso e comprensivo al mio amato bene: avrà bisogno di tutto l'appoggio possibile onde tollerarmi in codesto stato per l'intero finesettimana...

giovedì 8 aprile 2010

Tanne de rape, casce e ove (cime di rapa, formaggio e uova)

Nel mio Sannio la combinazione di uova e formaggio per rendere più saporite le pietanze è tanto comune quanto apprezzata: viene impiegata per condire di volta in volta l'agnello, le polpette di pane o le verdure più diverse. La ricetta che propongo appartiene a quest'ultimo caso, ed è in uso soprattutto in primavera, quando cicci ed erbette varie si trovano senza fatica. Va da sé che se avete la fortuna di disporre di una bella cicoria di campo (se possibile già pulita, altrimenti poi vi ci vuole una seduta dallo psicanalista per riprendervi) vi suggerisco di adottare quella, ma se non avete voglia di perder tempo a pulir verdure campestri le tanne de rape sono un'eccellente quanto saporita soluzione per portare in tavola un appetitoso sentorino di bella stagione.

Ingredienti:
tre etti abbondanti di cime di rapa ben fresche già pulite (se sono da pulire, calcolate almeno il doppio del peso di partenza)
due uova grandi
uno spicchio d'aglio
un cucchiaio d'olio
una manciata di pecorino stagionato grattugiato (se possibile molisano: da escludere quello romano perché di gusto davvero troppo deciso)
una grattata di pecorino fresco (che nella ricetta originale non c'è, ma che io metto perché mi garba parecchio)

Preparazione:
prendete una bella padella antiaderente e metteteci a scaldare l'olio con lo spicchio d'aglio pelato e privato del germoglio. Appena comincia a sfrigolare, buttate in tegame le tanne de rape rigorosamente crude che avrete provveduto a lavare bene sotto il rubinetto e a scuotere appena, in modo da mantener loro addosso una certa quantità d'acqua: questa sarà sufficiente, con l'aiuto del solito coperchio di vetro, a produrre quel tanto di vapore che cuocerà la verdura senza lessarla, in modo che mantenga intatti profumo e consistenza.
Nel mentre che le cime di rapa si cuociono (badate che restino bene al dente, basteranno cinque/sei minuti di fuoco vivace per raggiungere lo scopo) provvedete a battere le uova con la manciata di pecorino stagionato: non appena la verdura è pronta eliminate lo spicchio d'aglio, abbassate il fuoco e versate in padella il composto di cacio e uova, rigirando bene con il cucchiaio di legno in modo che i tanne si insaporiscano per bene.
A questo punto avete due opzioni: potete portare la verdura così condita direttamente in tavola dopo averla eventualmente spolverata di pecorino fresco, oppure adottare la soluzione che prediligo io. La quale consiste nel rimettere sulla padella il coperchio di vetro, continuare a cuocere per un par di minuti scarsi a fuoco medio in modo da fare una specie di morbidissima frittata, aggiungere quindi sulla superficie il cacio fresco, rimettere il coperchio qualche secondo per far sì che fonda appena e servire ben fumante.
La prima versione è eccellente accompagnata da pane abbrustolito, oppure versata su qualche fetta di casareccio raffermo tagliato sottile lasciando riposare il tutto un paio di minuti di modo che il pane si ammorbidisca. Per la seconda potete procedere come segue, e come piace a me: acchiappate un bel triangolo di scanata (focaccia morbida tipica del Molise, cotta in formato ruota di camion e provvista di un bel buco al centro), tagliatela a metà, e farcite in abbondanza. Avrete così modo di scoprire perché il panino con tanne de rape, casce e ove è il mio prediletto da sempre, e lo è a ragion veduta.

mercoledì 7 aprile 2010

Risotto con porcini secchi

Questo piattino assai semplice da realizzare ma parecchio gustoso mi è stato suggerito dalla zia Lella: la quale zia, bontà sua, mi ha pure fornito la materia prima. Tempo fa mi è stato infatto recapitato un sacchettino contenente un bel po' di porcini secchi, gentile omaggio dovuto al fatto che, sostiene la zia, a casa dei miei ve ne è in quantità atta a sfamare il Settimo Granatieri. Insieme ai funghi mi è stata pure fornita apposita ricetta, frutto della sapienza familiare e creata quando i funghi freschi erano un lusso introvabile, che è stata da me eseguita scrupolosamente e che ha portato a risultati grandemente apprezzati dall'amato bene. Ve la suggerisco a mia volta con la raccomandazione di impiegarla anche in caso abbiate ospiti: ci farete eccellente figura e scoprirete che il tempo di preparazione equivale a quello di qualsiasi orrido risotto pronto in busta, ma con bontà incomparabile e spesa assai più contenuta. Con buona pace di chi produce piatti pronti, in certi casi benedizione di chi cucina correndo, ma sempre e comunque maledizione della gastronomia.

Ingredienti per due persone:
due etti scarsi di riso
una manciatona di porcini secchi
una cipolla bianca di media grandezza
un goccio di vino bianco
due cucchiai d'olio d'oliva
un bel pugno di parmigiano

Preparazione:
in primis mettete a mollo i funghi secchi in una ciotola coprendoli con quantità d'acqua pari al doppio del riso che impiegherete e lasciandoli in santa pace per un quarticello d'ora. Nel frattempo portatevi avanti con il lavoro sbucciando e tritando la cipolla. Passato il tempo prescritto vedrete che i porcini si sono ben ammorbiditi e che l'acqua è diventata marroncina: non buttatela, giacché sarà il vostro tocco dello chef, e procedete a strizzare i funghi e a filtrare il liquido con un colino a maglie strette, tenendolo da parte.
In una padella antiaderente provvedete quindi a far imbiondire il trito di cipolla con l'olio a fuoco medio. Fatto ciò, buttateci i porcini e fate insaporire per un minuto o giù di lì rigirando con il cucchiaio di legno: sentirete salire dalla pentola un profumino delizioso, e ciò contribuirà a mettervi di buonumore. Il che, lo converrete, è un buon inizio.
Siete quindi pronti per aggiungere il riso: buttatelo in un sol colpo nel tegame e fatelo tostare a fuoco vivace fino a quando è diventato trasparente, poi sfumate con il goccio di vino bianco. Non appena questo si è assorbito, è arrivato il momento del tocco dello chef: con l'aiuto di un mestolo iniziate ad aggiungere il liquido ricavato dal bagnetto dei funghi, rigirando delicatamente con il cucchiaio di legno il riso che starà cuocendo a fuoco medio. Man mano che viene assorbito, vedrete che la pietanza sta assumendo un bellissimo color camoscio, e che il profumino aumenta sempre più contribuendo a migliorare ulteriormente il vostro umore. Continuate ad aggiungere il liquido fino a cottura completa del riso: nel caso l'acqua aromatizzata si esaurisse prima aggiungetene altra semplice, ma se avete correttamente seguito le proporzioni indicate all'inizio vedrete che sarà sufficiente.
Non appena il risotto è al dente spegnete il fuoco e, a scelta, mantecatelo direttamente in pentola con il parmigiano oppure versatelo in una capace scodella, spolveratelo generosamente di cacio e portatelo in tavola ben fumante.
Godetevi quindi l'espressione giuliva dell'amato bene e degli eventuali commensali che si gustano la pietanza, commentando a bocca piena che è una vera bontà.
E la prossima volta che andate a far spesa al supermarket correndo al solito come dannati incalzati dal forcone, scoccate un'occhiata di degnazione al risotto pronto in busta e lasciatelo a prender polvere nello scaffale. Zia Lella knows better, e pure voi.

martedì 6 aprile 2010

Carciofi a barchetta

Ragazzi, non so voi, ma io non voglio vedere cibo né pensarci per il resto della settimana.
Le feste si sono tradotte in sostanza in un'unica ininterrotta mangiata. Il solo pensiero di qualsivoglia pietanza mi causa un mancamento.
Vi propongo questa ricettella a mo' di disintossicante. Condimento prossimo allo zero, materie prime che son note per essere depuranti e in genere per fare tanto bene alla salute. E la posto in fretta perché anche la ricettella disintossicante suscita in me il desiderio di chiedere pietà.

Ingredienti:
tre bei carciofi
una manciata di capperi sotto sale
foglioline di menta fresca
succo di limone

Preparazione:
pulite i carciofi togliendo le foglie più dure e mozzando almeno tre dita della cima, badando però non recidere il gambo cui toglierete, con somma cura in modo da non spezzarlo, la parte più esterna. Man mano che procedete, mettete i carciofi puliti in una scodella con acqua acidulata con il succo di limone in modo che non anneriscano. Quando avete terminato le operazioni di pulizia tagliateli a metà nel senso della lunghezza e metteteli lunghi distesi in una padella, dove verserete un dito d'acqua. Coprite il tegame con il solito coperchio di vetro e fate cuocere per un quarto d'ora: se quando andate a controllare vedrete che l'acqua di cottura è diventata color verde smeraldo elettrico non fate uno zompo, perché è assolutamente normale.
Scolate in carciofi con delicatezza (il gambo cotto tende infatti a rompersi) e disponeteli su un piatto, magari a raggiera giacché l'effetto estetico non è malvagio. Ponete quindi dei mucchiettini di capperi preventivamente ben sciacquati su ciascuna mezza corolla. Al centro della raggiera mettete un trito di foglioline di menta. Se gradite, infine, condite con un goccio, ma proprio un goccio d'olio d'oliva.
Portate in tavola, e vedrete che dopo i bagordi pasquali nessuno si lagnerà se l'accompagnate giusto con una fettina di pane.
Quanto a me, vado a pranzare con un alka selzer. Buon appetito.

venerdì 2 aprile 2010

Buona Pasqua

Cari tutti, vi faccio mille auguri.
Giacché io sono astemia e quindi non faccio brindisi, alla data canonica azzannerò una fetta di pane di Pasqua alla vostra salute.
Statevi bene assai, e passate delle belle feste in compagnia di chi vi è caro. E mangiate un sacco di cose buone, che fa sempre tanto bene all'umore.
Molti saluti,
Jessie

giovedì 1 aprile 2010

Agnello al forno con patate

Mi sento orrendamente in colpa a proporre questa pietanza. Personalmente mangio ciccia senza problemi, purché però di bestia adulta. I cuccioli in tegame mi fanno strazio. Stan bene a zompettare per prati, non in tavola. Detto ciò, la tradizione è tradizione. Che Pasqua sarebbe senza l'agnello. Quindi eccolo qui con la sua bella coroncina di patate. La ricetta, ça va sans dire, è della tradizione familiare, e l'autrice è ancora una volta la zia Maria. La quale, visto che a Pasqua c'è fin troppo da spignattare, impiega da sempre il metodo di preparazione più semplice e veloce: vi sarà pertanto utile nel caso vogliate rispettare il classico menù della festa senza star troppo ai fornelli.

Ingredienti:
un chilo abbondante di cosciotto d'agnello, debitamente fatto a fette dal vostro macellaio di fiducia
un chilo abbondante di patate
olio d'oliva
pepe
una spruzzata di aceto
rosmarino se gradito

Preparazione:
mettete a marinare il povero agnello per un'oretta in una terrina con poco olio e la citata spruzzata di aceto e se si vuole il rosmarino, il quale rosmarino non andrà messo poi in teglia sennò dà un retrogusto amarognolo. Quando sta per scadere l'ora pelate le patate, affettatele a grossi spicchi e tenetele a portata di mano.
Acchiappate quindi una capace teglia antiaderente, metteteci un goccio d'olio (proprio un goccio, perché la ciccia è già bella grassa di suo), ponete le fette di agnello al centro, fateci la consueta coroncina di patate e condite con sale e pepe quanto basta: voilà.
Infilate la teglia in forno già caldo e lasciate cuocere per i fatti suoi una quarantina di minuti, sorvegliando di tanto in tanto e aggiungendo una spruzzatina d'acqua se necessario, in modo che agnello e patate non si secchino. Grazie alla marinatura la ciccia si manterrà morbida, mentre le patate cotte nel grasso della carne e in quel poco olio saranno soffici all'interno e ben croccanti in superficie: cosa volere di più.
Lasciate in caldo nel forno e servite come secondo, magari con un bel contorno di insalatina mista fresca.
Guardate quindi i vostri commensali che spolpano la povera creatura osservando che siete stati tanto bravi e l'avete cucinata proprio a regola d'arte.
Se riuscite a vincere il senso di colpa assaggiatene un pezzettino: constaterete che è veramente buono.
Io, dal canto mio, al mio solito mangerò solo le patate.
La zia Maria, dal canto suo, mi ha già minacciato che se pure quest'anno non assaggio l'agnello lo fa a pezzettini minuscoli e mi costringe a ingurgitarli uno per uno.
Però ho un asso nella manica: l'amato bene mi ha incaricato di portarle un uovo Majani Fiat grosso quanto un autocarro. Avrò cura di posizionarlo davanti al posto della zia in modo da ostruirle completamente la visuale, e al momento del secondo passerò di nascosto l'agnello a mammà.
Spero solo che la zia non mi sgami. Perché altrimenti per il pranzo di Pasquetta cucina me, e per quanto la cosa sarebbe magari gradita agli animalisti, personalmente avrei qualcosa da ridire.
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