lunedì 29 marzo 2010

Pane di Pasqua

Questo al mio paesello è il dolce irrinunciabile per festeggiare come si deve la Pasqua. Così irrinunciabile che è impensabile non farlo, nonostante la sua preparazione comporti un vero massacro. Del resto ne vale la pena, perché è veramente di bontà sublime. Non c'è colomba, panettone o quant'altro che gli possa stare anche solo lontanamente alla pari. Per cui, se volete festeggiare anche voi come si fa nel mio Sannio, mettetevi all'opera con la consapevolezza che le vostre fatiche saranno ampiamente ripagate, anche se ci vorranno due giorni di lavoro. Un solo consiglio: se vi accingete all'impresa, fate in modo di avere qualcuno che vi aiuti, perché da soli al primo tentativo rischiate una crisi di nervi. Oppure fate metà dose, che vi basterà per due bei dolci e vi eviterà di lottare con una quantità di ingredienti che spaventerebbe anche un cuoco casalingo rifinito. Ma procediamo con ordine.

Ingredienti:
1 chilo di farina
10 uova
350 grammi di zucchero
250 grammi di lievito di pane (più in basso troverete le istruzioni per prepararlo)
250 grammi di patate
150 grammi equamente suddivisi fra burro, strutto e olio
la buccia grattugiata di 2 limoni rigorosamente non trattati
un bicchierino di liquore gradito (limoncello, strega o analoghi)

Preparazione:
la prima cosa da approntare il giorno prima di darsi del tu con codesta bestia nera della gastronomia sannita è il lievito di pane, il quale si prepara in questo modo: in una capace terrina si mescolano con il cucchiaio 150 grammi di farina, una bustina di lievito di birra secco (non usate l'orrido panetto, ché lo sa il cielo quante può averne passate prima di arrivare al banco frigo del supermarket) e 100 grammi circa di acqua, quindi coprite con un tovagliolo spesso e lasciate lievitare in luogo riparato da correnti d'aria per una notte intera e anche più. Quando andrete a controllare la mattina dopo, deve avere più o meno l'aspetto che vedete in foto, il quale mostra che gli ingredienti hanno fermentato come si confà arrivando al risultato ottimale.
Se avete la madia per impastare, tirate fuori quella. Se siete degli sfigati come la sottoscritta, cacciate fuori quella bella e capace tinozza (e dico tinozza in senso stretto, ché non vi basterebbe per lo scopo manco la più gigante delle vostre terrine) che tenete da parte esclusivamente per usi di cucina. Metteteci quindi la farina, il lievito di pane, lo zucchero, i grassi, le patate (preventivamente lessate, sbucciate e passate), il liquore e le prime cinque uova, le quali vanno appena appena intiepidite in acqua calda e rotte rigorosamente fuori dalla tinozza per comprovare che siano fresche, ché basta un solo uovo partito per pregiudicare tutto.
Ora respirate profondamente e concentratevi, perché vi servirà massima dedizione per la prossima mezz'ora e anche oltre.
Immergete le vostre manine ben pulite e attaccate a impastare. Fatelo con forza non disgiunta da garbo, costantemente, senza fermarvi. La pasta deve diventare morbida, liscia ed elastica. Man mano che impastate, la persona di buon cuore che vi assiste deve aggiungere tre uova intere, aspettando che ciascuna si assorba prima di aggiungere l'altra, e poi due rossi. Voi intanto procedete a lavorare la pasta senza smettere. Se vi aiuta a dare il ritmo, cantate. Continuate finché l'impasto fa come si suol dire le bolle, ovvero inizia a mostrare dei piccoli rigonfiamenti colmi d'aria: a quel punto sarà pronto, sarà passata più di mezz'ora e voi avrete le braccia che se avessero il dono della parola strillerebbero come prefiche, ma potrete gioire perché avete superato la prova.
L'impasto va quindi messo a lievitare per almeno dodici ore: mettetelo in capaci recipienti (più d'uno, perché se lo lasciate nella tinozza c'è il rischio che trabocchi) i quali saranno stati preventivamente ben unti d'olio, copriteli con il solito panno spesso e lasciateli in santa pace.
Se tutto è andato come deve andare, al momento di controllare vedrete che la pasta è perlomeno raddoppiata di volume. Al che va sgonfiata e messa in appositi stampi alti una ventina di centimetri e della circonferenza di 25 centimetri circa, che saranno stati unti di strutto e spolverati con semola di grano duro, badando che l'impasto arrivi a un terzo dell'altezza del recipiente e non di più. Se non ne disponete potete impiegare le classiche pentole purché prive di manici di plastica come per secoli han fatto le donne del mio paese, ma in tal caso abbondate assai di strutto perché le malnate tendono a fare brutti scherzi al momento di sformare i dolci. Nulla osta ovviamente all'impiego di altri stampi più piccoli purché alti, ma la tradizione vuole che le forme siano di discreto volume, altrimenti che pane è.
Coprite quindi gli stampi e fate lievitare per altre sei ore: il risultato finale della lievitazione dovrebbe essere quello ritratto qui sotto, e scuserete la foto sfuocata ma oramai ero un po' stravolta dalla stanchezza.
Accendete il forno a 180°, fatelo riscaldare come si deve e man mano mettete a cuocere i dolci per una mezz'ora o poco più, prima ponendoli sulla parte bassa del forno e poi nella parte alta: quando la superficie ha assunto un bel colore bruno dorato, tirateli via aiutandovi con due belle mappine spesse e lasciateli riposare per una decina di minuti.
Una volta che son passati i suddetti minuti, è arrivato il momento di sformare: scuotendo dall'alto in basso lo stampo assicuratevi che il dolce si stacchi, capovolgetelo con l'aiuto di un piatto e mettetelo a raffreddare su una gratella da pasticcere o su una coppa che avrà bell'agio di raccogliere eventuale umidità in eccesso.
Tutto sarà andato sicuramente benissimo e, al taglio, il pane di Pasqua rivelerà una mollica dorata, fragrante, soffice e lievemente bucherellata, frutto della lunga lievitazione e del vostro lavoro.
Dolci analoghi vengono arricchiti in altre regioni con coperture di glassa di zucchero e confettini, ma i Sanniti essendo stati sempre poveri in canna non sono abituati a queste smancerie e lasciano nature il pane di Pasqua: io vi consiglio di seguire la tradizione. Servitelo il giorno della ricorrenza dopo il pranzo insieme agli ovetti, e scoprirete che il suo sapore dolce ma non troppo si sposerà perfettamente con il cioccolato.
Chi invece già conosce questo dolce perché come la sottoscritta è originario dell'antica Arx Calela o di paeselli vicini e ha la mia età non più verdissima, al primo morso avrà un proustiano "effetto madeleine" e ricorderà come fino a pochi anni fa le vecchierelle andavano ancora con file e file di pentole al forno comunale per cuocervi i pani, quelli di ciascuna famiglia distinti dagli altri tramite nastrini di diversi colori applicati sui manici dei tegami, e ingannavano l'attesa tutte assieme chiacchierando del più e del meno. Nel caso, come alla sottoscritta, al ricordo gli venisse una botta di magone, provveda a dare un altro morso seguito da numerosi altri, e con la scusa del suddetto magone provveda a tagliare per sé un altro paio di fette: la malinconia sarà scacciata da gaudiosa sazietà, e pazienza per le occhiatacce del consesso familiare.

4 commenti:

  1. grazie condivido con te questo ricordo profumato ed antico della nostra terra,sarà anche povera,ma ricca di odori unici

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  2. Salve, volendo cimentarsi nell'impresa e volendo iniziare con la versione "metà dose" ed avendo a disposizione una impastatrice... come mi consigli di procedere?

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  3. Dolente, ma non avendo l'impastatrice e non avendola manco mai vista all'opera non ne ho la più pallida idea... Suppongo che la macchina possa sostituire il tapino che impasta e che si possa procedere come da ricetta, ma non ne sono certa. Del resto, a meno di non avere già pronto il lievito di pane, non si riuscirebbe a fare in tempo per Pasqua: siamo a sabato, e come detto ci vogliono due giorni di lavoro! :(

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