mercoledì 12 ottobre 2011

Cotognata in barattolo e in forma

Dopo sì lunga assenza da queste blog colpevolmente negletto, mi pare cosa giusta fare una rentrée con una delle ricette più apprezzate del patrimonio familiare.

La cotognata a casa mia si fa infatti da sempre: in versione marmellata da mettere sul pane o in mezzo alle ostie o per farcire una crostata di pastafrolla, o più spesso in forma, impiegando allo scopo delle formine di latta che mi ricordo fin dalla più tenera età non solo io, ma pure le zie.

La mia prediletta è sempre stata quella che rappresenta una bella triglia, cosa che la zia Lella sa bene. Quando nell'ormai lontano anno 1994 mi trovai a passare un gelido inverno in Olanda, nella casa dove soggiornavo arrivò un bel pacco di generi vari e, davanti ai miei perplessi coinquilini batavi, dovetti spiegare la commozione che mi avevo preso a leggere su un contenitore di plastica "Cotognata (a lato c'è il pesciolino)". E per quanto possa sembrare strana ai più l'idea che la cotognata possa essere un comfort food, a me basta un morso per sentirmi di nuovo nella cucina del paese davanti alla stufa che scoppietta, mi trovassi pure a Katmandu o persino in quel dell'Olanda afflitta - la sottoscritta, non la Batavia - dall'inverno più freddo dal Dopoguerra, dalla tipica simpatia dello Jan Kaas medio e dall'irrisione dello Jan Kaas medio e non nei confronti della classe politica italiana e di un suo certo rappresentante in particolare. Ma sto divagando come di consueto.

Le ricette di cotognata più un voga suggeriscono una vagonata di zucchero e l'impiego del setaccio fine. Quella di famiglia è più spiccia e meno dolce, ma proprio per questo vi permetterà di assaporare le cotogne come si confà.
Un solo consiglio: provvedete ad avere con voi un maschio dalle mani grandi e toste, ché ne avrete bisogno, soprattutto quest'anno e alle latitudini della Capitale. Se poi disponete di una quantità notevole di frutta e la vostra cucina è da puffi come la mia, chiedete a qualche persona di buon cuore se vi può ospitare nella sua: io ho chiesto asilo alla zia Lella, altrimenti mi sarei trovata sommersa dagli scarti.

Ingredienti:
cotogne, mele o pere che siano, a volontà
zucchero, 250 grammi per ogni chilo di polpa di frutta
il succo di un limone ogni due chili di polpa di frutta

Strumenti:
un vecchio paiolo
un passaverdure
una pentola dal fondo spesso
formine di coccio o metallo per alimenti

Preparazione:
armatevi di pazienza. Tanta, tanta pazienza. E fate pace con la consapevolezza che a fine lavoro le vostre mani si lamenteranno come prefiche. Ciò perché le cotogne sono di polpa legnosa e toste da non dirsi, e dovrete usare il coltello a mo' di mannaia. Impiegate il maschio dalle mani robuste allo scopo, e voi dedicatevi allo sbucciamento e detorsolatura. Anche questa operazione vi costerà un bel po' di fatica, soprattutto come già detto quest'anno e in zona Capitale: ciò perché causa clima bizzarro le cotogne stan cadendo tutte dagli alberi senza giungere a piena maturazione e i più diversi generi di parassiti per via del suddetto clima hanno avuto bell'agio di andare all'attacco. Fate un bel respiro e andate all'attacco voi: quando si fa la cotognata resta comunque sul campo una quantità di scarto impressionante anche nelle annate migliori, per cui la differenza sarà minima.

Mettete quindi i pezzetti di cotogne pulite in un paiolo, aggiungete un mezzo bicchiere d'acqua, coprite e fate cuocere a fuoco lento finché non si ammorbidiscono. Nel caso si trattasse di mele e pere, sappiate che non c'è differenza reale fra le due se non per il tipo di innesto: a voi la scelta se cuocerle tutte assieme o separatamente, tenendo conto che secondo alcune scuole di pensiero la cotognata di pere ha un sapore e un colore più delicati, e secondo altre son sciocchezze buone solo per coloro che spacciano le pere cotogne a prezzo superiore.

Una volta che sono belle morbide toglietele dal fuoco, fatele intiepidire e quindi passatale fino a ridurle in crema. La old school dice che è necessario il setaccio di crine della nonna, secondo me se usate il passaverdure ci mettete meno tempo, vi stressate di meno e vi verranno benissimo lo stesso. E' in questo momento che avrete bell'agio di apprezzare i risultati della fatica fatta al momento della pulitura: essendo già al netto dello scarto, la polpa vi darà un'idea alquanto precisa della quantità di marmellata che potrete ricavare. In sostanza, what you see is what you get.

Pesata la polpa calcolate quindi la giusta quantità di zucchero, e una parte dello stesso (circa un terzo) mettetelo nella pentola dal fondo spesso insieme a un mezzo bicchiere d'acqua. Ponete quindi il tegame sul fuoco basso e aspettate che lo zucchero si sciolga nell'acqua: il risultato deve essere uno sciroppo piuttosto liquido.

Fatto ciò, aggiungete nella pentola la polpa di cotogne e il restante zucchero e fate amalgamare il tutto ben bene mescolando con il fedele cucchiaio di legno. Rimettete quindi su fuoco basso, aggiungete il succo di limone e rassegnatevi all'idea di rimestare di frequente il composto finché lo stesso non si appiccica con gagliardìa alla cucchiarella.
Versate quindi la marmellata nel necessario numero di barattoli, provvedendo a capovolgerli una volta chiusi perché il calore provvederà a una spiccia sterilizzazione.

La fatica termina qui se avete optato per la sola marmellata, continua invece se avete deciso di fare anche o solo le formine. Qui la faccenda si fa più complicata, perché intuire quando il composto è pronto all'uso non è immediato e ci può volere lungo tempo di cottura: sappiate comunque che un buon indicatore è quando la marmellata si stacca senza difficoltà da pareti mentre state mescolando - perché, come non mai, qui vi tocca andar di cucchiara pena orribili sentori di bruciaticcio che sciuperebbero il tutto.

Preparate tante formine quante sono necessarie (se avete quelle magnifiche di coccio che si usano in Sicilia - ricordo ancora quando le vidi a casa della mia amica Paola, con il suo papà che me ne spiegò l'impiego mentre io, che le avevo scambiate per posacenere, diventavo alta come un puffo - adoperate quelle, sennò van bene quelle di metallo), oliatele accuratamente, metteteci con l'aiuto di un cucchiaio la giusta quantità di cotognata facendo attenzione a non scottarvi e livellate la superficie con il cucchiaio stesso dopo averlo bagnato. Qui sotto vedete la parata di formine da me relizzate. E no, non c'è il pesciolino, gelosamente conservato nella dispensa del paese dove è giusto che sia.
Dopo ventiquattr'ore controllate se la cotognata si è rassodata come si confà: se così non fosse, con santa pazienza rimettete il tutto in pentola e fate cuocere almeno per mezz'ora, quindi ripetete la procedura. E non fate quella faccia, ché dopo ciò il risultato è sicuro.

La cotognata in barattolo sarà eccellente sola o come ripieno per dolci, quella in forma si presterà a diverse combinazioni, fra cui quella, di gran moda da qualche tempo (il che spiega perché le cotogne e derivati siano giunti a prezzi vertiginosi), di accompagnarla a fettine di formaggio piccante e ben stagionato.
Potrete pertanto a seconda dei casi rendere lieta una comitiva di nipotini golosi di torte, fare una bella merenda tradizionale con i vostri cari, stupire a cena il commensale che si dà arie da raffinato con un antipasto assai più fine di lui, e così via.

In frigo all'interno di appositi contenitori e separate da carta da forno, le formine si conserveranno agevolmente per più mesi.
A ridosso delle feste di Natale potete quindi, nel caso che ne aveste ancora, acconciare un regalino tipico adagiandone un tot su un piatto o vassoio di terracotta da avvolgere con carta trasparente ben infiocchettata.
I buongustai gradiranno molto, voi ci farete in figurone, e converrete che sì, fare la cotognata sarà pure una fatica belva, ma ne vale davvero la pena.

lunedì 9 maggio 2011

La gattorta di Gelsomina

Lo so: oramai aggiorno il blog ogni beatificazione di papa.

Me ne scuso ancora una volta. E' che di tempo proprio non ne ho. E quel poco tempo libero che resta dopo il lavoro e impegni vari, lo dedico alla mia famigliola. Sapete com'è, un masculo bipede e una femminella quattrozampe han le loro esigenze, e mi pare doveroso sopperirvi.

Però oggi cinque minuti me li prendo e condivido un evento assai importante per la succitata famigliola. Ieri la gatta Gelsomina ha compiuto un anno. La data l'abbiamo scelta per convenzione: Minarella la abbiamo trovata in strada lo scorso 8 luglio e il veterinario ci ha detto che l'allora cucciolina aveva due mesi. Pertanto, abbiamo fissato il suo compleanno all'8 maggio.

Una festa grande, che abbiamo condiviso gioiosamente con i nostri amici gattari.

La torta che vedete è molto semplice e lesta a farsi, con pasta sfoglia già pronta e crema chantilly: il procedimento lo trovate qui, e si presta ovviamente a infinite variazioni. Nel caso specifico, mi sono divertita con confettini e decorazioni di zucchero, e il musino micioso l'ho fatto con la nutella e della gelatina rosa impiegando una comune siringa per dolci con bocchetta liscia di piccole dimensioni: una comoda soluzione nel caso non si riesca a trovare la famosa matita del pasticcere.

Alcuni mi faranno gli occhiacci perché ho fatto una torta per festeggiare il compleanno di "una bestia". Io dal canto mio so, come sa chiunque ne abbia in casa una, che i quattrozampe sono parte della famiglia a pieno diritto, e diventano come dei figli. Gelsomina da quando è arrivata ha reso la mia vita più bella, e festeggiare il suo compleanno è solo un piccolo modo per dirle grazie di tutto quello che mi ha donato e mi dona ogni giorno.

E grazie a Giulia, Paolo, Marco, Cionzo e al leggendario Dottor P (il quale ha partecipato nonostante con i gatti vada non proprio d'accordo) per aver condiviso la festa, e per i bellissimi regali che hanno fatto alla nostra amata "mina vagante", e ai suoi genitori.

domenica 20 marzo 2011

Caveciune (ravioli fritti ripieni di ceci)

Questa ricetta, lo dedurrete dal ripieno, è un dolce contadino di origine secolare.

Da noi, come saprà chi dei miei ventiquattro lettori ha avuto occasione l'anno scorso di leggere la descrizione della festa di san Giuseppe al mio paese, si fanno per l'appunto in occasione della ricorrenza del santo falegname.

Ricorrenza a cui quest'anno avevo tutta l'intenzione di partecipare. C'erano tutte le condizioni per farlo, visto che cadeva in corrispondenza del ponte, ed erano mesi che mi preparavo giuliva. Peccato che la legge di Murphy abbia ben pensato di dire la sua sotto forma di uno di quei bei raffreddori di fine inverno. Cui, per gradire, si è sommata la schiena che ha fatto cilecca.
Sicché, anziché un bel viaggetto in quel del paesello (il quale viaggetto, mi è stato riferito, sarebbe stato funestato dal fatto che il trenino spolmonato sulla linea Urbe-Sannio ha fatto cilecca peggio della mia schiena: ma questo fra parentesi), mi son goduta quattro giorni in puro stile lazzaretto. E prima o poi qualcuno mi dovrà spiegare perché nove volte su dieci mi ammalo in corrispondenza delle ferie, ma pure questo fra parentesi, e fine della geremiade.

Se non altro, mi sono goduta i piatti tipici della festa grazie alla zia Lella: maccarun' c'a meglìche, pezzènd, sc'rpèll e non da ultimo i caveciune. Questi ultimi li ho fatti con la gentile collaborazione della zia lo scorso weekend in un momento di rara libertà, per fare in modo che pure i miei potessero gustarseli, se non nella data canonica, almeno a ridosso: è infatti una di quelle pietanze che se si fanno in almeno due persone è meglio, giacché la preparazione se non è lunga una quaresima poco ci manca. Visto che il viaggio al paese almeno a questo giro è andato giù per il secchio, è stata occasione perché li gustassimo pure io e l'amato bene. Ed è stata consolazione non magra: perché i caveciune sono buoni da non dirsi.

La ricetta che vi propongo è quella della mia famiglia, e tradisce le sue origini borghesi nell'impiego del cacao: quelli contadini, ovviamente, non lo prevedevano causa i costi proibitivi dello stesso. Va detto che un purista ad assaggiare quelli che escono oggi dalle cucine del mio paese verrebbe colto da catalessi: causa il benessere seguito al boom economico il ripieno prevede ora, a seconda dei casi e dei gusti, l'aggiunta di noci, nocciole, mosto cotto, cioccolato fondente e cioccolato bianco (ingrediente, quest'ultimo, da far venire la catalessi anche a chi non sia purista). Personalmente ritengo che miele e cacao bastino e soperchino per arricchire i ceci, pertanto la ricetta della mia nonnina resta a mio avviso insuperabile: e chi arriccia il naso al pensiero di mangiare un dolce ripieno di legumi, sia pronto a stupirsi.

Ingredienti:
300 grammi di farina
4 cucchiai di olio
2 cucchiai di olio
una tazzina da caffè scarsa di vino bianco
acqua tiepida quanto basta
olio di semi per friggere
500 grammi di ceci da lessare
un cucchiaio di cacao amaro
un cucchiaio colmo di miele

Preparazione:
per iniziare mettete a bagno i ceci col solito pizzico di bicarbonato, lasciateli ammollo una notte intera, quindi lavateli per bene sotto l'acqua corrente e metteteli a lessare (se disponete di una pentola a pressione usatela, ché vi risparmierà di tempo e di bolletta) fino a quando non sono ben cotti. Qualcuno osserverà che impiegare i ceci in lattina accorcerebbe di gran lunga la preparazione, ma le mie zie gli farebbero giustamente gli occhiacchi, giacché i legumi già cotti sono gustosi quanto il polistirolo: armatevi di santa pazienza e seguite il metodo classico.

Cotti i ceci, s'ha da ridurli in crema: e allo scopo una volta tanto non vi suggerisco l'amato frullatore a immersione, bensì il setaccio o meglio ancora il passaverdura. In tal modo eliminerete le bucce dei legumi (operazione che, vi avverto, tramuta anche il più educato in un camallo genovese e produce una quantità inverosimile di scarto), ottenendo un passato che vi permetterà di incorporare il miele e il cacao senza problemi.
Alla fine, la crema di ceci doverosamente addizionata dovrà essere cremosa ma bella compatta, come da foto: lasciatela riposare e dedicatevi alla preparazione della pasta.
Mettete la farina a fontana con all'interno l'uovo, l'olio, il vino e l'acqua tiepida e attaccate a impastare con gagliardìa. Quando sentite che la pasta è liscia ed elastica potete smettere di manipolarla: prendete un coltello e dal panetto tagliate via man mano delle fette per stendere la sfoglia, provvedendo ad appiattirle prima di andare all'attacco, a seconda della perizia e dell'abitudine, o con il matterello o con l'apposita macchinetta (in questo secondo caso partite dal primo buco, passate poi al secondo e da ultimo impiegate il quinto).
Stesa la sfoglia (che dovrà essere spessa un millimetro) tagliatela in tanti quadrotti di circa dieci centimetri di lato, tirate lievemente la pasta per allargarla appena badando bene a non romperla, quindi poggiate al centro un cucchiaino di ripieno.
Il procedimento è tal quale quello per fare i ravioli: ripiegate il lato inferiore sul ripieno e saldate quindi entrambi i lati premendo delicatamente con le dita.
In ultimo rifilate con la rotella tagliapasta, e se volete essere sicuri che il ripieno non scappi via al momento della frittura pressate con la parte piatta della stessa intorno ai bordi. Voilà!
Dopo tanto faticare è arrivato il momento della frittura: e per non perdere il tempo e il ritmo, è santa cosa se qualcuno vi si dedica man mano che voi approntate i caveciune. Detta frittura è meglio farla con olio di semi anziché di oliva, o i dolci vi verranno leggeri come i sassi che costellano il letto del torrente Cigno.
Per far sì che la cottura venga a puntino impiegate una pentola e non la solita padella, in modo che il caveciune al momento del tuffo si trovi completamente immerso: quando salirà su bello panciuto, rigirandosi stile cetaceo in vena di giocare e dorato come una giornata estiva, è pronto per essere preso con la schiumarola (attenzione allo schizzo in agguato) e deposto su un bel letto di carta assorbente.
Con le dosi prescritte vi verranno una quarantina di caveciune, quantità che non basterebbe mai a sopperire alle esigenze di chi prepara la tavola di San Giuseppe ma che sarà più che sufficiente nel caso vogliate proporli come dessert a una bella tavolata di amici per coronare una cena tipica.

Avrete il duplice piacere di un applauso, e di una pletora di facce basite quando rivelerete l'ingrediente principale di quel dolce così gustoso.

giovedì 17 marzo 2011

Non è la storia, è colui che la racconta: Gran Torino di Clint Eastwood

"E' la storia, non colui che la racconta".

Chi ama Stephen King ha riconosciuto uno dei suoi aforismi più famosi. Sa anche che si trova in uno dei suoi racconti più belli, che è anche una delle più belle storie di coming of age (ovvero il momento che segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta) che personalmente abbia letto.

E' un principio che può essere più o meno valido. Una buona storia può catturare l'interesse anche se chi la narra non vale granché. Ma va da sé che se il narratore sa il fatto suo, avrà la completa attenzione di chi lo ascolta. E se, dote rara, sa davvero il fatto suo, la avrà anche se la storia, benché buona, non dice nulla che l'uditore non sappia già.

Clint Eastwood è un narratore che sa davvero il fatto suo. Lo ha dimostrato infinite volte. Chi volesse averne la riprova, la avrà con Gran Torino. Che considerando il ritmo con cui film, libri e quant'altro vengo prodotti e digeriti dal mercato, è ormai vetusto: è uscito nel 2008. Ma l'anno di produzione non conta, perché si tratta di un classico nel più puro senso della parola. Un classico che ha il contempo il pregio di essere atipico: è un film che racconta una storia, e la racconta dall'inizio alla fine.

La storia in sé è già nota. Il protagonista è un uomo anziano e burbero, afflitto da due figli della consistenza di un budino e da nipoti adolescenti che sono la quintessenza della stupidità più gretta e modaiola. Morta la moglie, si ritrova unico bianco o giù di lì in un quartiere che pullula di immigrati. Immigrati che lui chiama con garbo swamp rats (letteralmente "pantegane di palude", ma si potrebbe rendere in maniera assai meno gentile), visto che, oltre a essere anziano e burbero, Walt Kowalski è anche la quintessenza del più retrivo americano medio: praticello di un metro quadro perfettamente rasato, fucile di precisione in casa, ghiacciaia colma di lattine di birra sulla veranda che è, ça va sans dire, adorna di una bandiera a stelle e strisce formato lenzuolo.
Il fatto che sia un reduce della guerra di Corea non contribuisce a renderlo ben disposto nei confronti dei vicini, musi gialli di provenienza ignota che hanno pure il cattivo gusto di celebrare con gran dispendio di festa e folla un battesimo nel mentre che a casa sua si sta tenendo il rinfresco dopo il funerale dell'amata consorte. E che uno dei musi gialli, un ragazzo adolescente scarso a spina dorsale e fin troppo prono a farsi sviare da un cugino gangster d'accatto, tenti di rubargli la sua Ford Gran Torino, lo rende ancor meno ben disposto.

Con questi presupposti, lo spettatore smaliziato fa presto a fare due più due: scommette, e sa di vincere in partenza, che fra il vecchio americano flessibile quanto il marmo e i suoi vicini asiatici si instaurerà una relazione. Sa pure che nel percorso non mancheranno intoppi di vario genere. E sa che alla fine il tutto sarà di beneficio e crescita per entrambe le parti. Ma nonostante sappia, quella storia la vuole sentire e vedere: perché chi la racconta è un narratore eccezionale. E come tutti i narratori eccezionali, sa sorprendere.

Fra i pregi di Eastwood c'è il sapersi affidare a compagni di viaggio sperimentati, saper riconoscere del materiale valido, saperlo trattare. La sceneggiatura lo aiuta: i dialoghi non hanno un momento di stanca. Non c'è bisogno di saltare avanti e indietro a suon di flashback, né di indulgere in colpi di scena: una comunissima fetta di vita è sufficiente a sostenere il tutto, e lo è anche perché, essendo comunissima, è paradigmatica. Gli attori sono solidi. La fotografia ha un nitore documentaristico, la musica c'è quando ci vuole. Ogni dettaglio ha il suo peso, e contribuisce a dar peso alla storia. E nonostante ormai anche un bimbo si ritrovi ingozzato di postmodernismo da ogni parte con il risultato di trovare tutto già visto, trito e per questo persino ridicolo ("Si può dire 'Era una bella mattina di fine novembre' senza sentirsi Snoopy?", osservò una volta qualcuno), Eastwood ha pure il coraggio di impiegare i cliché. E li impiega così bene che non sono più cliché: tornano ad essere archetipi.

Altrettanto archetipica è la funzione dei valori all'interno della trama (di cui non dirò niente, perché va bene che la storia è intuibile, ma rivelarla sarebbe pura cattiveria). Credo che ci siano poche cose più soggette a sfottò dei valori: non a torto, visto che è da quando è nato il mondo che se ne parla giusto per dare una risibile patina di decoro a una realtà lercia quanto una sentina. Ma come disse un regista che non potrei immaginare più lontano da Eastwood, "fare i cinici è molto facile". La vera scommessa per un narratore è evitare il cinismo senza cadere nella stucchevolezza. Eastwood ha un equilibrio invidiabile, tanto più evidente quanto meno si vedono sullo schermo i modi con cui lo raggiunge. E riesce a trasmettere senza alcuna sdolcinatezza il valore di una famiglia i cui membri si vogliono bene, dei risultati ottenuti attraverso il duro lavoro, del rispetto di sé e degli altri, di un amore così forte da durare anche dopo che morte separa.

Sono cose che al naso di qualcuno puzzano di conservatorismo. Il conservatorismo è stato spesso rimproverato a Clint Eastwood, e per i personaggi interpretati e per alcuni film che ha diretto. Personalmente, la ritengo una fesseria. Basta vedere il ruolo che nelle sue opere da regista hanno le donne. Gran Torino non fa eccezione, se si escludono la nipote avida e imbecille e la sua altrettanto avida e imbecille madre: la giovane Sue, vera coprotagonista del film e la sola capace di tener testa a Kowalski grazie a una lingua tagliente e a un cervello che lo è ancora di più, la sua rocciosa nonna che scambia con il rigido vicino eloquenti dialoghi a suon di occhiate, le numerose comprimarie che crescono piccoli delle più varie età e imbandiscono al protagonista manicaretti meravigliosi sono tutti tasselli di un'unica immagine di donna come individuo capace di pensare, decidere, procreare, nutrire, potente e ricco di significato a qualunque età.
Individui a confronto dei quali i maschi fanno una figura ben meschina: a parte casi rarissimi sono o amebe di aspetto e di fatto, o amebe truccate da delinquenti dotati di pistole ma privi di palle, in grado di imporsi solo con la violenza. Considerato attore e regista virile per eccellenza, Eastwood dedica all'universo femminile gran parte dell'attenzione: lo fa con prospettiva da uomo, ma è capace di cogliere aspetti che non tutti gli uomini sanno cogliere. E a volte, manco le donne.

In tutto questo, l'attore e regista è l'anima del film: espressione abusata, ma mai vera come in questo caso. Clint Eastwood è da tempo un'icona, ma nonostante ciò è capace di dare corpo in maniera credibile al protagonista e alla sua interazione con gli altri personaggi (delle donne ho già detto, degli uomini non dico perché se c'è un simbolo per eccellenza del buddy movie è lui). Si sa che è noto per avere due espressioni, ovvero una quando gli manca il cappello: e nessuno come lui riesce a trasmettere le emozioni più diverse con un battito di palpebra, un cenno della testa o semplicemente fissando lo sguardo. Tanto più esprime il movimento del corpo, la postura delle spalle, la camminata decisa e appena sbilenca da vecchio solido. Esatto opposto di un istrione, Eastwood è uno di quei rari attori che nel tempo hanno raffinato l'arte di ottenere il massimo risultato con la massima economia. E' banale osservare che è un piacere guardarlo, ma è vero: è un piacere guardarlo.

E' un piacere anche vedere il film, in tutto il suo dipanarsi verso una fine che è nota. E che però stupisce, e stupirà tanto più chi ha in mente Eastwood nel suo ruolo primigenio di giustiziere. Il finale vi allude, e allo stesso tempo lo risolve. Non vi dico come. Perché lo ripeto, se non avete visto Gran Torino, lo dovete vedere. E' uno di quei film che fanno bene al cuore.

Fa bene al cuore perché, oltre al piacere di guardare un'opera fatta con maestria e cognizione di causa, restituisce il piacere del coinvolgimento senza distanza, e senza sentirsi stupidi perché si è coinvolti.

Forse anche per il momento in cui l'ho visto, Gran Torino mi ha fatto pensare al mio paese. Non solo perché Eastwood è il simbolo per eccellenza di uno dei filoni più riusciti del cinema italiano, e non solo perché l'auto che dà il titolo al film è fin dal nome un omaggio alla città che, oltre ad essere il cuore dell'industria, fu la prima capitale.

Mi ci ha fatto pensare, magari confusamente, per diversi motivi, e per mero paragone. Forse perché Walt Kowalski, maschio bianco americano medio con la bandiera fuori di casa e le armi dentro e perfettamente conscio di chi e cosa è, riesce comunque a entrare in contatto con ciò che è diverso e per certi versi opposto (l'altro da sé, direbbero i miei amici più colti), che si tratti di stranieri o di giovani. Nel farlo, è capace di individuarne i punti comuni e quelli non comuni, ma che sono validi, e quindi da far propri. Riesce quindi a ridefinire il sé senza perdere identità, anzi arricchendola.

La capacità di entrare in contatto con l'altro da sé non sembra una delle caratteristiche del mio paese.
Da quel poco che ho studiato, la capacità di farlo deriva dal fatto di avere un'identità solida e definita.
Chissà perché, mi viene in mente quella famosa frase attribuita a Metternich.

Buon centocinquantenario.

martedì 8 marzo 2011

Martedì Grasso: migliaccio di Carnevale

Questo dolce carnevalesco è parecchio antico: il nome deriva infatti da miliaceus, una torta a base di farina di miglio parte dello sparuto ricettario dolciario dei Romani. Ma la mia patria di adozione non c'entra nulla con la scelta di prepararlo. Men che meno c'entra il mio paese di origine: il migliaccio è sì sannita, ma del Beneventano. E' entrato però nel patrimonio familiare da qualche anno a questa parte. O farei meglio a dire rientrato, dopo un'assenza durata più o meno centotrent'anni. Tanti ce ne sono infatti voluti perché la parte di famiglia che risiede in quel borgo frentano di cui declamo le beltà ogni tre per due rientrasse in contatto con la parte originaria.

Del paese d'origine del mio trisavolo ho sentito parlare molte volte durante l'infanzia, e anche dopo. Appena diciottenne, il mio avo era partito col fratello sedicenne percorrendo in carretto la strada che dal Sannio profondo puntava verso il mare. In un baule c'erano ancora le pistole corrose dalla ruggine che si erano portati per difendersi dai malviventi. Per un certo periodo avevano conservato rapporti affettuosi con la famiglia d'origine, ma non erano più tornati indietro. E dopo la loro morte e la guerra, il legame si era interrotto. Mio nonno aveva detto più volte che sarebbe voluto andare sul posto e cercare eventuali familiari ancora vivi, ma non ci era riuscito.
Più passava il tempo, più il paese assumeva la sfumatura fantastica della Macondo di Marquez. E nessuno sembrava sapere dove fosse esattamente.

Una bella mattina d'estate mio padre smese di bere il caffè a metà tazzina e guardò mia zia Margherita.
"Per la miseria. So' iute a' Mereca, n'a Finlandia, me ce manghe sule 'a Cina e 'u Giappone. Ma ti pare possibile che non ho mai visto il paese di mio nonno? Sta pure sulla statale dove è il nostro. Mò mi organizzo."

Si organizzò con mia madre, mio cugino Antonio e lo zio Michelino, e si scoprì così che il paese c'era.
C'era pure la famiglia. Con un cognome diverso, perché l'unica a sposarsi era stata una sorella del trisnonno. Ma c'era. Telefonarono. Rispose Raffaellina. Nome di famiglia. E quando capì con chi stava parlando, per l'emozione le sparì la voce.
Non era la sola a essere emozionata.

Mi sono emozionata anche io quando sono andata al paese, qualche tempo dopo, a conoscere i parenti ritrovati. L'abitato così simile a quello del mio borgo, ma sovrastato dalla figura massiccia della montagna, che copriva tutto lo sguardo quando si usciva da quella porta che il mio trisavolo aveva varcato per non tornare. E il tremito a constatare le burle delle leggi genetiche, con Raffaellina identica nella figura a zia Margherita, ma con gli occhi e i tratti di zia Maria. E ben più di un tremito nel trovarsi di fronte gli stessi occhi celesti e gli stessi corposi, lunghissimi capelli biondi della sorella di mio nonno, morta a vent'anni prima della Grande Guerra e vista solo in fotografia, in una florida ragazzina novenne dallo sguardo serio.

A quella visita è collegato anche un ricordo gastronomico. Il migliaccio, per l'appunto. Preparato meravigliosamente dalla moglie del capofamiglia, Vittoria. La ricetta è sua, e l'ho seguita fedelmente. Il suo aveva una meravigliosa superficie bruna e compatta, e odorava di primavera. Il mio è venuto crepato come un campo riarso dalla più feroce calura estiva, ma la bontà era quasi pari a quella del capolavoro dolciario della zia. Nel caso vogliate festeggiare l'ultimo giorno di Carnevale all'insegna della tradizione sannita, ecco come approntarlo.

Ingredienti:
125 grammi di semolino
500 grammi di ricotta di mucca
tre quarti di litro di latte intero
250 grammi di zucchero
1 bustina di vaniglia
3 uova
un cucchiaio di liquore Strega

Preparazione:
in primis scaldate a fuoco lento il latte addizionato con un pizzico di sale. Prima che inizi a bollire versateci a pioggia il semolino (onde evitare i grumi io mi sono aiutata con un colino) e mescolate continuamente con la fedele cucchiara di legno per evitare che si attacchi. In capo a breve vi accorgerete che il semolino si è bevuto tutto il latte, diventanto bello cremoso e giungendo a cottura: spegnete il fuoco, mettete da parte e lasciate raffreddare.
Nel mentre che il semolino si fredda acchiappate una capace scodella (mi raccomando: capace) e mescolate con l'aiuto di uno sbattitore elettrico tenuto al minimo la ricotta, lo zucchero, il liquore Strega, la vaniglia in polvere e, una alla volta, le uova intere.
Provvedete quindi a incorporare il semolino mescolando accuratamente con lo sbattitore: il composto dovrà risultare liscio, cremoso e assolutamente privo di grumi. Se non avete il frullino elettrico armatevi di santa pazienza con la fedele cucchiara, o meglio ancora con una frusta di fil di ferro: fino a che l'ultimo grumo non si è suicidato di fronte alla vostra pervicacia, non smettete di mescolare.

Fatto ciò è arrivato il momento di darsi del tu con la cottura: preriscaldate il forno a 160°, imburrate per bene una teglia rotonda che abbia un diametro di 24 centimetri (se avete la fortuna sfacciata di avere quella da pastiera impiegatela allo scopo) e versateci l’impasto, facendo attenzione perché risulterà alquanto liquido. Quindi lasciate andare la cottura per un'oretta almeno.
Dopo la succitata oretta la superficie della torta dovrebbe avere un bel colore bruno dorato. La mia, causa forno birbante che di far colorire la superficie di qualsivoglia cosa non ne vuole sapere, era pallida come una patata in cantina. Se pure voi avete un elettrodomestico maramaldo chiudete il gas, accendete il grill e lasciate che sia lui a colorire la torta. Si creerà un'appetitosa crosticina dovuta al caramellarsi della superficie, e pazienza se non è uniforme.

Fate quindi raffreddare il dolce in santa pace a temperatura ambiente per almeno un'ora: non fatevi prendere dalla tentazione di sformarlo prima, pena lo sbragamento dello stesso.

Io ho atteso religiosamente il tempo prescritto, l'ho rovesciato su apposito piatto e prima di ribaltarlo onde presentarlo a faccia in su ho avuto modo di constatare che il fondo era ben cotto, compatto e la colorazione giallo-dorata lo faceva sembra un disco solare. Essendosi crepata sì malamente la superficie ho ben pensato di servirlo così. Ho comunque ragione di credere che delle mie considerazioni estetiche non importasse un bel nulla a nessuno: il migliaccio è stato grandemente apprezzato da amato bene, genitori, zia e, come potete vedere, anche dalla gatta Gelsomina.Cottura a parte, per la preparazione del tutto sono necessari non più di venti minuti. Se pertanto siete fra quei fortunati che riescono a tornare a casa a un'orario decente e persino a fare la spesa prima che i negozi chiudano, avrete bell'agio di fare stasera una piacevole sorpresa a chi vi è caro e festeggiare degnamente il Carnevale.
Oggi, per inciso, sarebbe anche la Festa della Donna.
Ma io non mi sento molto in vena di festeggiare.
In primis, perché le donne nell'ultimo periodo non sembrano passarsela molto bene.
E non da ultimo, perché se questa ricorrenza diventa occasione per rimpinguare le casse dei fiorai, o delle pizzerie e discoteche dove il solito manipolo di schiave del tacco a spillo va a godersi il giorno di libera uscita dal fidanzato/marito con le amiche, il tutto senza che nessuna sappia niente di quelle povere operaie arse vive, e peggio ancora senza che ne voglia sapere niente, è una festa che con le donne non ha nulla a che fare.

Però, per quello che vale, rivolgo un augurio a tutte le donne, me inclusa. Ricordatevi che siete importanti 365 giorni l'anno, e 366 nei bisestili.
Meritiamo molto di più.
E le mimose le portassero al cimitero.

giovedì 17 febbraio 2011

Festa del gatto (con tanti auguri alla mia piccina pelosa)

Oggi è una giornata speciale, speciale come le creature cui è dedicata: i nostri adorati amici con le vibrisse hanno una festa tutta per loro.

Per me è ancora più speciale, perché è la prima volta che la festeggio con un miciotto in casa. Per la precisione una miciotta, la mia (pardon caro, nostra) adorata Gelsomina.

Mina, altresì nota come la Mina Vagante, ha da poco compiuto nove mesi. Chi segue questo modesto blog già la conosce, e sa quanto era bella fin da piccina. Ora è più bella che mai. Ed è fulva, discola, intraprendente e vivace.

Corre dietro a qualunque oggetto semovente, imbarcandosi in partite di calcio con pallina di stagnola da stracciare Pelè e Cruijff messi assieme. Ogni giorno tira giù i novanta e passa peluche che si trovano stipati sul comò, trascinandone una parte sotto il letto o sul tappetino del bagno e giocandoci con gagliardìa. La casa non ha più tende, impiegate come supporto per l'arrampicata verso il soffitto. Le ciabatte mie e dell'amato bene tendono a scomparire, per poi misteriosamente riapparire in posti impensati.

Quando io rientro a casa mi guarda con affettuosa degnazione, mi saluta poggiandomi la zampetta sullo stinco e poi mi segue per ogni dove, protestando con ripetuti mamao e mameo in quanto la sottoscritta si imbarca in cose noiose come il cucinare anziché dedicarsi ad attività più consone come tirare il topolino di pezza (gioco che può durare potenzialmente all'infinito, visto che Mina lo riporta al lanciatore stile segugio). Quando rientra l'amato bene, grande entusiasmo: usando il divano come trampolino di lancio gli vola in spalla e lì si mette a fare il colletto di pelliccia. Se la sottoscritta è più vicina del divano diventa lei il trampolino di lancio, con conseguenti ululati causa unghiette. Ma bastano due fusa e passa tutto.

Le fusa diventano infinite nel lettone. Basta chiamarla, "Mina, Mina...", e dopo qualche secondo si sente un trottare, un salto soffice sulla coperta, e un taptaptap fino al cuscino. Nel buio si aggrappa ai miei capelli, la pancia contro la sommità della testa, una zampetta contro la mano del suo papà bipede, e ci si addormenta tutti assieme. E la mattina la sveglia non serve più, perché ci desta il ron-ron. Molto meglio di una musichetta qualsiasi, credetemi.

Per queste e altre cose le sono grata.
Da quanto lei è entrata nella vita mia e dell'amato bene, tutto sembra molto più bello. Anzi, è più bello.
Tanto può una creaturina pelosa.

Se volete vedere le nuove foto di Gelsomina, ne troverete tante sulla sua pagina di feisbuc. Se volete, vi potete pure iscrivere. Mina ogni tanto commenta da par suo le vicende di vita proprie e della coppia di pasticcioni che l'ha adottata, e i selezionati amici che la leggono dicono pure che è divertente. Ci mancherebbe che non fosse ironica: è una micia romana, perbacco.

Se amate i gatti e ancora non ne avete uno, questa giornata (ma anche le altre 364 dell'anno) è ideale per andare ad adottare uno dei mici che ci sono nei gattili della località dove abitate o nei dintorni. Ce ne sono sempre tanti, di tutte le età e di tutti i colori, e ciascuno aspetta il suo umano da amare.

E quando avrete il vostro compagno peloso, scoprirete che quando c'è l'amore di un micio è festa tutto l'anno.

Auguri a tutti voi.

domenica 6 febbraio 2011

Far la festa al maiale: Pizze c'i cìcule (Pizza con gli sfrizzoli)

Drrrrriiiinnn.
"Brondo?"
"Stella mia, come stai!"
"Inzobba. Febbre bassada, ma ho il daso che berde beggio dell'agguedoddo bugliese".
"Te l'avevo detto io di fare il vaccino! Ma tu niente, sempre co' sta tiritera che non avevi tempo e dovevi lavorare! Visto che ti è successo? Il compleanno con 39 di febbre! Bella cosa!"
"Dando gabidava di ludedì, dod sarei riuscida a fesdeggiare gomungue..."
"Eh, bella consolazione! Pure a chille povere fìglie hai attaccato l'influenza!"
"Zì, se sdrilli gosì di sende bure ghille povere fìglie e lo svegli..."
"Non sia mai! Povere guagliòne, chi sa come sta accìse..."
"Dranguilla, siabo giovadi e fordi. Dibbi di de biuddosdo..."
"E che ti devo dire... Solite cose. Ho appena fatto la sugna e ci sono usciti pure un bel po' di cìcule, così ci faccio una bella pizza e la surgelo, che a papà tuo piace tanto..."
"Uuuh, 'a bìzze! E' vero, è beriodo... E gome si fa, ghe dod be l'hai mai deddo?"
"Guagliò, ma te pare momènte de penzà a 'a pizze c'i cìcule?"

Ovvio che è il momento. Dopo che una ha passato una settimana tonda tonda chiusa in casa a starnutire avrà pure il diritto di distrarsi un po'. E per distrarsi, niente di meglio di una ricetta di cucina, soprattutto in una situazione in cui persino una fetta di torta al cioccolato sa di cavolo lesso e lasciato in frigorifero per una settimana. E meglio ancora se si tratta di uno dei cavalli di battaglia familiari.

La pizze c'i cìcule è una delle prelibatezze invernali della gastronomia sannita, e un tempo non c'era famiglia che non la preparasse quando si faceva la festa al porco. Del resto, non c'era famiglia che non facesse la festa al porco, visto che il povero suino era in grado di sfamare un bel po' di gente per lunga pezza a fronte di minima spesa per l'allevamento. Il maiale veniva in genere stallato nella cantina, la quale si trovava perlopiù al piano terra, e nutrito con ricche dosi di avanzi e di pastone a base di mais e crusca. A sovrintendere al suo benessere nella nostra famiglia era la nonna, la quale era nota in tutto il paese per la bontà dei salumi che faceva: del resto il suo porco, prima di incontrare mesta fine, era trattato come un re. Un particolare suino ebbe persino l'insolito onore di entrare nella sua stanza da letto, portato lì dalla zia Maria per mostrare a mia nonna, costretta a letto da una frattura alla gamba, come il porcello stesse crescendo benissimo. E come zia Maria sia riuscita a far salire e scendere una scalinata ripidissima fino al primo piano a un maialotto che stazzava sui due quintali è cosa che tuttora ci lascia perplessi, ma credo si spieghi con la nota tostaggine delle donne di famiglia, e della zia in particolare.

Va da sé che oggi la festa al porco non la fa quasi più nessuno, se si esclude qualche famigliola che ancora risiede in campagna: primo perché suppongo che allevare un maiale nella propria cantina sia cosa da causare un coccolone a chiunque abbia una minima conoscenza di norme igieniche e sanitarie, secondo perché fare i salumi in casa è una faticaccia tremenda che prevede un nutrito numero di persone, e non da ultimo perché le mie compaesane sono ormai tutte provviste di Bimby e affini ma se gli si chiede come si fa una soppressata o una salsiccia rimangono con la mascella appesa.
Massima comprensione da parte mia, anche perché il pensiero di far secco un povero porcellino con il muso a turacciolo dopo averlo nutrito per mesi è cosa sufficiente per persuadere chiunque che la creatura, se proprio deve morire, lo deve per vecchiaia. Ma se continuo su questo tenore va a finire che mi viene la mestizia e non trascrivo più la ricetta della pizza: il che sarebbe un peccato perché, come detto prima, è una vera prelibatezza. Mi scuseranno pertanto i poveri suini, condannati a una sorte che è tanto più triste considerando che vi sono tanti bipedi i quali, nonostante la loro natura ben più porcina, non rischiano di diventare salsicce. Ma questo, come sempre, fra parentesi.

Per fare la pizza ci vogliono due cose: pasta lievitata e cìcule ovvero sfrizzoli, entrambi di ottima qualità. Potete procurarvi la prima dal vostro panettiere di fiducia e gli altri dal macellaio, risparmiandovi un mucchio di lavoro. Converrete però che a fare così non c'è gusto. Pertanto riporto paro paro il procedimento impiegato da mia nonna prima e da zia Maria adesso: sarà pure una faticata, ma la soddisfazione è pari.

Ingredienti (bastevoli per due pizze):
mezzo chilo di farina
un cucchiaino di sale
mezza bustina di lievito di birra secco
circa 300 grammi di acqua tiepida
mezzo chilo di grasso di maiale (fatevi dare quello di pancia)
un po' di pepe
pazienza ad libitum

Preparazione:
in primis dovrete approntare i cìcule, e sappiate che alla fine vi chiederete, a mezza voce perché manco avrete la forza di strillare, chi accidenti ve l'ha fatto fare. E' infatti un esercizio di pazienza zen da far cacciare i santioni a un santone. Però avrete come risultato anche dell'eccellente sugna fatta in casa, ideale per fare una pasta sfoglia che sia di quelle come si confà (a breve vi darò pure la ricetta della zia Lella, roba d'alta scuola di cucina casalinga), pertanto ne vale la pena.

Con santa pazienza fate a pezzi il grasso di maiale, mettetelo in una bella bacinella piena di acqua fredda e lasciatelo a mollo in loco fresco. Durante la giornata cambiate l'acqua un paio di volte, in modo da far diventare bianco il grasso come dice la zia Maria (ciò succede, lo dico a beneficio degli amanti del gore, perché più si cambia l'acqua più eventuale sangue presente se ne va giù per lo scarico). Quando l'acqua sarà limpida è arrivata la parte più difficile, quella di separare la sugna dagli sfrizzoli: raccomandatevi allo spirito di Escoffier, o meglio ancora a quello della grande Marietta, cuoca di casa Artusi, che sicuramente aveva con le squisitezze di campagna assai più dimestichezza di qualsivoglia chef transapino.

Prendete la vostra pentola migliore, ovvero quella con il fondo dello spessore di un cingolato, travasatevi i tocchi ben sgocciolati e accendete il fornello al minimo. Piano piano vedrete che il grasso si scioglie, e che sul fondo restano gli sfrizzoli, in una quantità che si aggira sui tre o quattro cucchiai: spegnete il fuoco, aspettate che il tutto si intiepidisca (non che si freddi), quindi armatevi di mestolo, e con santa pazienza travasate pian piano il grasso in un barattolo. Diventerà sugna candida, da impiegare oltre che per la pasta sfoglia anche per una frolla da crostate che vi stupirà per la croccantezza. Ma a voi per il momento sono i temibili cìcule che interessano: teneteli pertanto a portata di mano e a temperatura ambiente. Oppure, se avete deciso che dopo cotanta seccatura è il caso di rimandare la preparazione della pizza, surgelateli: non ne avranno alcun danno.

Fatti gli sfrizzoli, s'ha da fare la pasta: e quella si fa more solito, ovvero mettendo su una spianatoia o in una ciotola capace la farina e il lievito, impastando man mano che si aggiunge l'acqua tiepida, e aggiungendo il sale solo dopo che gli ingredienti si sono amalgamati sennò il lievito si impigrisce. Chi segue questo modesto blog sa già che, giusta i dettami di Gabriele Bonci, la pizza si può fare anche senza impastare: ma nel caso di ricette di famiglia io butto volentieri alle ortiche il trend degli impasti idratati e vi suggerisco di fare come mia zia e come le vostre zie e nonne, ovvero lavorare la pasta con gagliardìa per una decina di minuti e, quando è diventata bella elastica, farne una palla su cui farete una bella incisione a croce e lasciarla lievitare in loco ben riparato da correnti d'aria.

Quando la pasta sarà raddoppiata di volume (cosa di cui vi renderete conto perché la croce è scomparsa) toglietela dalla ciotola, ponetela su un piano ben infarinato e allargatela con le mani, badando che la superficie sia il più possibile uniforme e non si buchi. Fatto ciò, fate scaldare i cìcoli addizionati con un bel cucchiaio di sugna e con una bella spruzzata di pepe e con somma cautela versateli sulla superficie della pasta, in modo da lasciare circa un centimetro libero sui bordi. Quindi con abile mossa arrotolate la pasta su se stessa come se steste facendo uno strudel, foggiatela a pagnottella e rimettetela a lievitare per una mezz'ora.

Nel frattempo accendete il forno a 250°, acchiappate la placca e rivestitela di carta da forno in modo che sia pronta all'uso. Allo scadere della mezz'ora riprendete la pagnottella, dividetela in due e sul piano sempre infarinato foggiate ciascuna metà a forma di focaccia piatta con un bel buco al centro, come da foto all'inizio. Sistemate quindi entrambe le pizze sulla placca, e lasciate cuocere per una quindicina di minuti. Poi spegnete il forno, tirate fuori la teglia, e lasciate intiepidire.

Quando le pizze avranno smesso di fumare ma saranno ancora belle caldocce, potrete decidere di premiarvi e assaggiarne un pezzettino, assai meritato dopo tanta fatica.
Scoprirete così che sì, ne valeva la pena, di fare tutta quella fatica. Perché la pizze c'i cicule fatta in casa è morbida, croccante e aromatica come nessun'altra, e mentre la mangiate vi si scioglierà in bocca.

A quel punto decidete se volete godervela da soli oppure, cosa che vi raccomando caldamente, accompagnati. In questo secondo caso, allertate amici e persone care con i mezzi che vi sembrano più acconci, e ditegli di presentarsi a casa vostra in tempi ragionevoli e bussando con i piedi, perché le mani dovranno recare salame casereccio, formaggio stagionato e, per i non astemi, una bella boccia di rosso.

Se poi a mezza serata vi suona il vicino con occhi di bragia perché sono due ore che stornellate sul tema di "Cicerenelle teneva teneva", ditegli che avete la benedizione di Alberto Maria Cirese.

Se vi risponde "Il professor Cirese?!" fategli un sorriso a trentadue denti, acchiappatelo per le spalle e offritegli un pezzo di focaccia. E' grazie a gente come lui, infatti, se la rustica pizze c'i cicule è considerata un patrimonio da salvaguardare anziché uno scarto da nascondere di quel periodo povero in cui si allevava il maiale al pianterreno.

Se invece vi risponde con "Chi?!" ditegli che è la riprova vivente di quanto le scienze umanistiche siano inutile zavorra nella formazione di un individuo. E tornate serenamente a stornellare.

martedì 25 gennaio 2011

Pizze de randìnie e fuèglie (Pizza di granturco e verdura)

E' un periodo che stare nell'Urbe mi pesa.

Per carità, ha i suoi vantaggi. Ad esempio, l'improbabilità di trovarsi la porta di casa bloccata da un metro di neve grazie alla peggiore bufera invernale capitata negli ultimi trent'anni.

Però la puzza, il traffico e il caos della capitale mi fanno pensare che sarebbe assai più sano imbracciare un badile onde farsi strada nel manto nevoso piuttosto che resistere alla tentazione di imbracciarlo per dare una piattonata in testa al solito buzzurro che ti passa avanti in farmacia, parcheggia sul marciapiede o, non so, fa il gradasso in ristoranti e hotel da conto a triplo zero in centro storico con i soldi delle mie tasse, e non solo delle mie.
Giacché però a dar piattonate si finisce in genere all'Albergo Roma o al Regina salvo il solito indulto, meglio dar pedate, stavolta alla nostalgia per il paesello.

Io in genere lo faccio mettendomi ai fornelli, e preparando pietanze di casa.

La pizze de randìnie e fuèglie, ad esempio, che è un classico, e che ben mostra la povertà che un tempo affliggeva i miei Sanniti: trattasi infatti di una pizza di farina di mais accompagnata da verdura selvatica. Un tempo era il pasto delle famiglie contadine, che non si potevano permettere altro: adesso, ça va sans dire, è diventata "antipasto tipico" nei ristoranti più lussuosi, che la servono in genere in improbabili quadrucci formato tessera e accompagnati da una porzione di verdura che starebbe comoda in un piattino da caffè ed è addomesticata al gusto dell'utente medio, il quale a sentire l'amaro della vera cicoria di campo viene colto da catatonia.

Le mie zie la servono invece come si confà: in tocchi grossi quanto la mano di un carpentiere, e con una padellata di fuèglie miste colte e cotte sul momento. Questa che vedete ritratta, nella fattispecie, è stata preparata l'inverno scorso (sì, sono un po' indietro con l'aggiornamento del blog) da zia Maria, la quale ha pazientemente tollerato la sottoscritta armata di macchina fotografica che la seguiva come un'ombra fra piano di lavoro e fornelli, e le carpiva con le tenaglie i trucchi per realizzare una pizze de randìnie a regola d'arte.

Ingredienti:
tre etti circa di farina gialla
mezzo litro d'acqua
una tazzina da caffè di olio più un po', più quello per ripassare la verdura
uno sferzellone (peperone semipiccante secco)
uno spicchio d'aglio
fuèglie miste a volontà (cicoria, sinepe, borragine e qualunque altra cosa passino i campi, da addizionare volendo con broccoli, cavolo o verza)

Preparazione:
in primis capate la verdura, che se è quella vera di campo vi farà dar di matto come poche cose al mondo: brontolate pure se vi aiuta a compiere meglio l'operazione, perché ne avete il santo diritto. Finito che avrete di pulirla lavatela bene sotto l'acqua corrente per eliminare residui di terriccio, lessatela al dente in acqua leggermente salata e quindi lasciatela a scolare per i fatti suoi. Nel frattempo portatevi avanti col lavoro e mettete a scaldare il mezzo litro d'acqua con un cucchiaino di sale.

Una volta che l'acqua è calda, versatela a più riprese in una scodella in cui avrete già provveduto a sistemare la farina di granturco e la tazzina d'olio e fatela incorporare girando il cucchiaio di legno con movimenti decisi dal basso verso l'alto, in modo che non si formino grumi. Nel momento in cui la consistenza sarà cremosa ma solida, come da foto, potete smettere di aggiungere acqua perché essa ha già fatto il suo dovere. A questo punto acchiappate una teglia di medio formato, ungetene fondo e pareti con un po' d'olio e con l'aiuto della cucchiara di legno versatevi dentro il composto pareggiandolo con le manine unte d'olio. Lo spessore deve essere di circa un centimetro, perché a differenza della consueta polenta alla brace la pizze de randìnie si caratterizza per essere compatta ma non tosta. Quindi con le nocche fate delle fossette sulla superficie, e versateci sopra una generosa dose di olio.
Un tempo la teglia veniva munita di coperchio e la pizza si cuoceva a ritmo lento fra le braci del camino sapientemente disposte sotto, ai lati e sopra, e mia zia ricorda "quand'era bèlle quànn mammà 'a facéve" con la famigliola tutta intorno al camino. Oggi tocca accontentarsi del forno, già caldo a 200°, dove terrete la pizza il tempo sufficiente a farle fare una bella costa dorata, cosa per la quale ci vorranno tre quarti d'ora circa: e non per dire, guardate che bellezza.
Mentre la pizza si intiepidisce, passate alle fuèglie, che ne frattempo si saranno liberate dell'eccesso dell'acqua di cottura: in una capace padella mettete a scaldare (senza farli friggere) lo spicchio d'aglio e 'u sferzellone, buttateci quindi dentro la verdura e fate insaporire a fuoco lento rigirando di tanto in tanto. Le mani nella foto, per inciso, sono della zia Maria. E si vede che sono mani che da una vita cucinano, e lo fanno con grande amore.
Quando le fuèglie sono ben insaporite spegnete il fuoco, tagliate la pizza a quadrotti, versateci le verdure con l'olietto saporito, mettete 'u sferzellone sulla cima per decorare e portate in tavola: vedrete che i commensali andranno in visibilio. E se provvederete ad accompagnare il tutto con qualche fetta di caciocavallo e un po' di sopressata sannita tagliata sottile, la saporita pizze de randinie anziché antipasto sarà pasto completo, e vi permetterà di svoltare la cena con ricca soddisfazione vostra e di chi mangia assieme a voi.

giovedì 13 gennaio 2011

Il bove e la chiesa: Santa Maria della Strada

Come detto altrove, talvolta l'amato bene e io si riesce ad andare in vacanza.

Evento degli eventi, in casi rari si riesce persino a coinvolgere gli amici. Ciò ovviamente dopo lunga preparazione e attenta analisi, perché già è difficile andare in vacanza da soli, figurarsi in compagnia.

Sicché, fin da ottobre avevano progettato un piano formidabile: sottrarre la macchina a mia sorella, e puntare verso il paesello in gruppo composto dalla sottoscritta, l'amato bene, il mio amico Mauro e la gatta. Il mio amico Nicola, specialista in quella che al paese viene chiamata "l'arte dei pazzi" (ovvero spostamenti frenetici dal punto A al punto B e viceversa: egli suole infatti muoversi sulla direttrice Urbe-Sannio con la rapidità e frequenza di una pallina da flipper), ha commentato che ci mancava giusto qualche carabattola e un paio di infanti per rifare il Carro di Tespi. Non posso ragionevolmente dargli torto: in compenso al ritorno abbiamo riportato con noi la zia Lella e svariati quintali di cibarie tipiche, e ho motivo di pensare che chi si spostava con il Carro di Tespi viaggiasse più comodamente. Ma tutto ciò, come sempre, fra parentesi.

Se la sottoscritta, l'amato bene, la gatta Gelsomina e la zia Lella sono persone assai note a chi segue questo modesto blog, non altrettanto si può forse dire di Mauro: il quale ha però fornito al mio arsenale culinario proprio la prima ricetta pubblicata qui sopra. Mauro è infatti eccellente cuoco, ed è solo una delle sue qualità. Ad esempio, a differenza di me e del mio compagno di casa e di vita, adora guidare. E sempre a differenza di me e del mio compagno di casa e di vita, l'ansia non sa cosa sia, o se lo sa la gestisce molto bene. Infatti il mio tartassarlo a partire da ottobre per un viaggio di tre giorni da svolgersi in gennaio, e in un loco per raggiungere il quale ci vogliono tre ore e rotti di macchina e non venti ore di volo lo ha lasciato alquanto perplesso. Ma fra le sue qualità vi è anche quella di essere assai paziente con le nevrosi altrui. Sicché, la mattina del 5 gennaio, si è presentato alle nove sotto casa nostra, ha caricato noi e il bagaglio peloso (copyright Dottor P) e abbiamo fatto rotta verso il torrente Cigno.

Per me, la Befana al paese è un punto fermo. La Befana è infatti quella che quando le zie, mio papà e zio Antonio erano piccini portava i doni. La mattina del 6 gennaio era mio nonno a dare la sveglia, mi diceva zia Margherita: "L'ho vista mentre se ne andava, chella vecchiarella..."
La Befana continua a portare i doni, e il camino fa sempre mostra di una parata di calze ben pasciute, con le zie che si divertono assai ad aprire le loro rovesciando il contenuto sul tavolo. Quando in casa abbiamo un ospite, ovviamente la calza c'è pure per lui. E la vecchierella deve saperla lunga, visto quella di Mauro era fornita di un bel po' di prelibatezze di casa e di cascina.

Dette prelibatezze spero abbiano aiutato Mauro a tollerare il sovrabbondante entusiasmo della sottoscritta. La quale, quando riesce ad attrarre qualsivoglia persona nella tela del Sannio, fa al tapino o tapina di turno una capa tanto. Sicché Mauro si è fatto appresso a me e al sempre paziente amato bene il tour del centro storico, sguerciandosi per vedere la pregevole lunetta medioevale della chiesa madre sommersa dalle impalcature, la fontana barocca con i mascheroni, la chiesetta rococò dell'Addolorata e 'a fonda préte (fontana di pietra) risalente alla metà del Settecento. Si è fatto pure dodici chilometri di curve per raggiungere Larino e vedere il portale romanico della chiesa, cibandosi un dettagliato resoconto della festa di san Pardo fra un tornante e l'altro. E il pomeriggio prima di partire, guidando con somma scioltezza sull'asfalto malconcio della SS87 Sannitica, ci ha accompagnato a Santa Maria della Strada.

E' una chiesa che conoscono solo i locali, e talvolta manco loro. Io l'avevo vista dall'esterno quando ero alta un palmo, e da allora ho sempre sognato di tornarci. Sta spersa in mezzo alla campagna lungo la strada che un tempo collegava il Sannio alla Puglia, e chi prende il trenino spolmonato che a cinquanta all'ora si fa il tragitto dal capoluogo alla costa può vederla in lontananza nella valle su cui si snoda la ferrovia. Tutti i viaggi che mi sono fatta verso il paesello prevedevano in quel punto la sottoscritta con il naso incollato al finestrino e, da quando ho percorso il tragitto con l'amato bene, l'ululato "Guarda là! Guarda la chiesa! E' bellissima, ci dobbiamo andare!", con l'amato che paziente rispondeva, sisì, va bene, ci andremo, ma dobbiamo venire con la macchina, altrimenti come ci si arriva?

Non ci si arriva. E' infatti uno di quei gioielli nascosti, che si raggiungono solo se si ha l'intenzione di farlo. E per farlo ci vuole la macchina, una discreta perizia alla guida perché la strada è quella che è, e occhi attenti perché il cartello che indica la deviazione dal tracciato principale è scolorito da anni di intemperie.

Vale la pena di fare tanta attenzione, e di percorrere a passo d'uomo la stradetta che conduce alla meta.

Ve ne accorgerete arrivando, quando su una collinetta verde circondata di alberi spunterà la sagoma piccola e solida della chiesa, che pare essere stata posta lì con amorosa cura dalla mano del Creatore in persona.

Secondo la leggenda, più che la mano dell'Alto Fattore ci dovrebbe essere quella del suo eterno rivale. Infatti Santa Maria della Strada è una delle chiese di Re Bove. Costui doveva essere un pessimo soggetto, e fra una mala azione e l'altra pensò bene di mettere gli occhi su una fanciulla con la quale, per motivi di eccessiva consanguineità, era poco opportuno convolare a nozze. E giacché, come diceva il principe, ogni limite ha una pazienza, questo specifico limite fece saltar la mosca al naso all'Altissimo, ovvero al suo rappresentante ufficiale in terra. Il quale condannò Re Bove a costruire sette chiese in una notte (altre tradizioni dicono che il numero fosse cento), pena la dannazione eterna.
Visto il compito non esattamente spiccio, il sovrano come spesso accade in simili casi decise di affidarsi alla concorrenza. Stipulò pertanto un patto col demonio, offrendo in cambio la merce prediletta dal sire cornuto. E via a costruire, con Satanasso a tirar giù le pietre dai monti sanniti e Re Bove a tirar su forsennatamente gli edifici sacri.
All'alba le chiese erano tutte pronte meno una. E mentre il sole spuntava, il re fra terrore e pentimento cadde in ginocchio e in lacrime pregò Dio che lo perdonasse.
Si sa che la misericordia divina è grande. E così l'ultima chiesa non venne mai completata: il Diavolo, furioso che gli fosse stata tolta da sotto il naso quell'anima che stava lì bella pronta, la distrusse con un enorme macigno.

Leggende a parte, buoi di pietra si trovano come elemento decorativo in più chiese nel mio Sannio. Io sospetto che non ci abbia a che fare alcun sovrano zozzone, ma piuttosto il fatto che per i Sanniti molisani il bove era un animale totemico: mica per niente la loro capitale si chiamava Bovianum ed era stata fondata, così narra la tradizione, da un gruppo di giovincelli che avevano seguito un bue nel rituale - nato pare onde levarsi di torno eccessive bocche da sfamare senza venire alle armi - passato alla storia con nome di ver sacrum.
Fatto sta che buoi scolpiti si possono trovare ad esempio sulla chiesa di San Leonardo a Campobasso, sulla Cattedrale di Larino, nella meravigliosa chiesa di San Giorgio a Petrella Tifernina. Ci sono anche a Santa Maria della Strada. Ma non potrete vederli qui. Perché la sottoscritta, oltre ad avere il noto talento canino con la macchina fotografica, proprio in questa occasione ha ben pensato di dimenticarsela, la macchina fotografica, e ha mestamente supplito con il cellulare: a seguire trovate quel poco di salvabile degli scatti.

Nella sua solo apparente semplicità, Santa Maria della Strada rivela nelle sue decorazioni una complessità rappresentativa e simbolica notevole. Basta leggere la pietra. E se non la si sa leggere, si sarà comunque colpiti da quanto quella pietra è bella. Ad esempio il rosone con dodici raggi perfettamente uguali, simbolo degli apostoli ma anche richiamo alla ruota della Fortuna, e il timpano con la sposa simbolo di Gerusalemme.
Sulla lunetta di sinistra, un uomo a cavallo ne trafigge un altro. Alcuni sostengono che si tratti di un riferimento alla chanson de geste, con Fioravante che ammazza un saraceno per liberare una donzella. Altri, forse più correttamente, dicono che ricordi l'episodio biblico dell'uccisione di Assalonne, noto per i suoi lunghi capelli. Quale che sia l'interpretazione, la scena è magnifica.
Forse ancora più bella la rappresentazione sulla lunetta di destra, con un uomo circondato di animali che soffia nel corno. I fan della chanson de geste lo identificano con Rolando, altri lo vedono speculare alla lunetta di sinistra e riferito al fatto che Gioab, uccisore di Assalonne, dopo l'assassinio fece suonare il corno nella Valle dei Re.
Se già timpano e lunette fanno venire alle armi gli studiosi riguardo le intepretazioni, sugli elementi decorativi cosiddetti minori è la festa della citazione erudita. Io le citazioni erudite le lascio perdere, ma ditemi voi se le figure non sono da guardare con amorosa attenzione, dall'uomo nelle grinfie della belva al cavaliere assalito dal leone al cane zannuto che fa capolino, e che se la sottoscritta fosse meno canide con la macchina fotografica si vedrebbe benissimo mentre azzanna un'altra bestiaccia a sua volta impegnata ad assaltare un agnello.
Sul lato destro della chiesa, un altro ingresso che stavolta prende dichiaratamente a prestito elementi non biblici. La lunetta rappresenta infatti il cosiddetto volo di Alessandro, leggenda che vede il magno condottiero farsi una bella gitarella in quota su una cesta trainata da due grifoni. Il Macedone nell'iconografia medievale era impiegato quale simbolo negativo: qui invece, e gli esperti dicono che è quasi un unicum, lo si impiega come simbolo del desiderio di ascendere al cielo.
A evidenziare la valenza positiva una serie di elementi con cui non vi sto a tediare: voi limitatevi a guardare quanto son belle le due pistrici e l'Agnus Dei che incorniciano la scena.
L'interno è semplicissimo, con poca luce di suo e ancora più scarsa per via del tramonto incombente al momento dello scatto. Soffitto a capriate, tre navate sorrette da robuste colonne i cui eleganti capitelli non mostrano la capricciosa creatività che si può vedere altrove, ma forse proprio questo aumenta la sensazione accogliente che si prova entrando. Sul fondo, dietro un altare semplicissimo, la statua della Madonna con il bimbo in braccio, illuminata da due piccole lampade e da una delle minuscole finestre.
Poco vicino all'ingresso si trova un monumento funebre, più recente della chiesa - edificata, per inciso, dai monaci basiliani nella prima metà del XII secolo. Anche questo è un piccolo capolavoro di delicata finezza, con gli angeli a tenere le cortine che celano a metà il trapassato. Come usava un tempo, la tomba è stata impiegata per la sepoltura successiva di più persone, identificate variamente come l'abate Landolfo, il nobiluomo Berardo d'Aquino e tale Gemma signora di Lupara. Più romantica la tradizione popolare, che in quel sepolcro, o sotto di esso, ritiene dorma il sonno eterno Re Bove.
La collinetta su cui è adagiata la chiesa si affaccia su una piana circondata in lontananza di rilievi. Se andrete all'imbrunire e se la giornata è tersa, vedrete un tramonto dai colori incredibili. Se andate durante il giorno, mettetevi a contare quante sfumature ha il verde dei campi e dei colli tutto intorno. Scoprirete che il Molise ne ha più dell'Irlanda.

Se con tutto ciò vi è venuta voglia di fare una capatina, sappiate che arrivare è assai semplice. Come detto, Santa Maria della Strada si trova nei pressi della SS87. Se arrivate da Campobasso troverete la diramazione alla vostra sinistra, da Termoli (cosa che non conviene perché la distanza è di gran lunga superiore) sul lato opposto. Ad accogliere il veicolo c'è un ampio parcheggio, con l'asfalto nuovo nuovo e confinante con una macchia di piccoli abeti. Ai margini della collinetta un pannello esplicativo vi introdurrà alla storia dell'edificio assai meglio di quanto potrei fare io. Una piccola bacheca poco distante vi fornirà alcune informazioni utili, fra cui i riferimenti per contattare la signora Angela in caso trovaste chiuso l'ingresso alla chiesa (la quale, cosa rara nel Sannio, è aperta tutti i giorni fino al tramonto). Se dopo la visita veniste colti da un insano desiderio di convolare a nozze con il vostro partner, su detta bacheca troverete anche il telefono del padre guardiano.

Putacaso poi vi venisse appetito, presso il parcheggio troverete un ristorante chiamato, assai attamente, La quiete di Re Bove. Da maggio a settembre risulta aperto tutti i giorni, in inverno è chiuso il martedì. Noi non abbiamo avuto il piacere di provarlo in quanto un piatto di arrosticini alle cinque del pomeriggio della Befana sarebbe cosa da stroncare anche Pantagruele. Voi fate un tentativo, e oltre agli arrosticini ordinate la pizza e menesta (pizza di farina di granturco e misto di erbe di campagna) che mi dicono essere la specialità della casa.

Se dopo la visita potete usufruire di altre ore di luce, riprendete il veicolo e guidando in relax procedete sulla SP13 per altri otto chilometri e mezzo, ovvero quelli che vi basteranno a raggiungere Petrella Tifernina. Lì troverete la già citata chiesa di San Giorgio, altro tesoro del romanico molisano. E di lei spero di raccontarvi un'altra volta, mi auguro presto, quando andrò a vederla di persona.

Allo scopo, vado subito ad allertare Mauro di tenersi liberi un paio di giorni per la prossima estate.

E se non mi tira addosso, come avrebbe il santo diritto, un capitello a rosette longobarde, ci si vede presto qui sopra per una serie di ricette tipiche. A bientot.
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