domenica 25 ottobre 2009

Dolcetto? No, scherzetto

Halloween quest'anno è arrivato in anticipo, almeno per me.
Sarà che è un po' che non faccio dolcetti.
Pertanto, quale scherzetto non poteva che arrivare un ameno colpo della strega.
Almeno per solidarietà femminile poteva essere più clemente.
Temo che resterò lontana dai fornelli e dal pc per un po'.
Spero di tornare in piedi per il 31 ottobre.
Così investo la strega con una scarica di pepatelli al miele caldi caldi di forno, e a dolcetti e scherzetti siamo pari e patta. Tiè.

venerdì 23 ottobre 2009

Riso e fagioli neri della zia messicana

L'amato bene ha la pazienza, se impegni e studi permettono, di seguirmi nelle mie scorribande gastronomiche che generalmente prevedono tour de force in tutti i mercati della Capitale alla ricerca di ingredienti improbabili quali cavolo nero, cicerchie, mele limoncelle, curcuma in polvere e altre amenità da acquistare previa contrattazione con il venditore in dialetto stretto oppure in urdu. Va detto che la pazienza non gli difetta e che spesso è lui a fornirmi utili suggerimenti: uno degli ultimi utili suggerimenti ha fatto sì che siamo usciti da un negozietto nei dintorni di Piazza Vittorio, la chinatown dell'Urbe, carichi di granaglie, spezie e prelibatezze varie.
Fra gli acquisti c'erano mezzo chilo di fagioli neri, che sono rimasti a ronfare in dispensa per un bel po' finché non ho avuto la mala pensata di cucinarli secondo i consigli datimi da Elsa, la zia messicana che risiede per un terzo dell'anno a Mazatlàn, per un altro terzo a Los Angeles dove si spupazza il nipotame e per un altro terzo al paesello.
La pensata in realtà sarebbe stata ottima, se non fosse stato per l'entusiasmo eccessivo che caratterizza la sottoscritta. La quale, tutta allegra alla vista dei legumi, ha ben pensato: massì, mettiamoli a bagno tutti. E il giorno dopo, ovviamente, si è trovata con una quantità di materia prima più che doppia rispetto a quella di partenza.
Le dosi, di conseguenza, sono per così dire massicce. Ma il risultato è assai appetitoso, e vi offrirà il vantaggio di poter sfamare con poca fatica una pletora di invitati.

Ingredienti:
mezzo chilo di fagioli neri
350 grammi di riso a chicco lungo o parboiled
un piccolo peperone rosso
un peperoncino verde dolce, di quelli che al paese mio son detti friarielli
qualche rondella di sedano
due grosse cipolle bianche
tre spicchi d'aglio
un peperoncino piccante secco
una manciata di origano
una punta di cucchiaio di cumino
due cucchiai d'olio

Preparazione:
lasciate a bagno i fagioli neri per cinque o sei ore, poidiché scolateli e metteteli a cuocere a fuoco lento con il sedano e i peperoni tagliati a pezzi in una pentola antiaderente e munita di coperchio di vetro (vi basterà un bicchiere d'acqua scarso, badando di tener coperto il tegame).
Quando i fagioli sono a metà cottura, in una capace padella antiaderente mettete a stufare la cipolla tagliata, l'aglio privato del germoglio e tritato, il peperoncino in pezzi, l'origano e il cumino con i due cucchiai d'olio.Quando la cipolla si è appena imbiondita, con abile mossa rovesciate il contenuto della padella dentro la pignatta dei fagioli. Voilà!
Date quindi una bella mescolata, rimettete il coperchio e fate cuocere finché i fagioli sono morbidi.
Nel frattempo cuocete il riso con il solito sistema: pentola antiaderente, doppia quantità d'acqua rispetto al peso del riso, coperchio di vetro e fuoco lento finché i chicchi non hanno assorbito tutta l'acqua.
Poidiché, in un bel piatto di portata mettete da un lato il riso, dall'altro i fagioli, e ammannite agli invitati affamati, badando a conservarne una porzione per voi e l'amato bene giacché, il giorno dopo, sono ancora più buoni.
Se le cose sono andate come si confà, i fagioli saranno piccanti quanto l'inferno e i commensali sbaferanno tutto con goduria, innaffiando con vino rosso. E difficilmente vi chiederanno da mangiare altro che non sia un dolce, magari quei biscotti con le mandorle che sono uno dei vostri cavalli di battaglia e che sono tanto buoni da pucciare nel passito.
Il che vi darà il sommo piacere, a fine pasto, di rigovernare piatti e pentole con un allegro sottofondo di avvinazzati che sciorinano tutto il repertorio latinoamericano da La cucaracha a Tres delinquentes.
Se poi i vicini tozzolano alla porta per protestare, scatenategli addosso i suddetti avvinazzati al grido di "Viva Zapata".
E godetevi lo spettacolo, prima di tornare all'acquaio.

mercoledì 21 ottobre 2009

Scarola 'mbuttunata

Questo piatto è uno dei cavalli di battaglia di mia nonna paterna, che ne ha trasmesso la ricetta alla oramai leggendaria zia Lella. La quale zia, ogni tanto, me ne omaggia in modo che la sottoscritta, a suo dire, non perda tempo ai fornelli.
Ma io amo perdere tempo ai fornelli. Pertanto ne ho chiesto la ricetta, e non appena ho trovato due scarole comme il faut al mercatino dietro caso ho provveduto ad approntarla.
Ho avuto conferma che è squisita, e che la sua preparazione è alla portata anche di chi, come me, con pentole e padelle si da a malapena del tu. Purché abbia a disposizione un collaboratore che presti il suo aiuto in un determinato passaggio, altrimenti si rischia di far volare il cespo di scarola per aria con tutto il suo ameno ripieno.
La versione che propongo non è quella campana, ben più ricca, bensì quella sannita, che denota la cronica difficoltà che i miei conterranei pativano in passato per mettere insieme il pranzo con la cena. Però, anche se meno lussuosa, è buona lo stesso, e per chi si guarda in cagnesco con la bilancia ha pure il vantaggio di scarse calorie.

Ingredienti:
due belle scarole (sceglietele il più possibile piccole)
tre spicchi d'aglio
una bella manciata di capperi sotto sale (non sotto aceto, vi prego)
una manciatina di olive nere
due cucchiai d'olio
spago da cucina

Preparazione:
tagliate la cima delle scarole e togliete le foglie esterne più durette, quindi passate i cespi sotto l'acqua corrente onde eliminare residui di terra, polvere & quant'altro e mettetele a scolare.
Tagliuzzate gli spicchi l'aglio dopo averne rimosso il germoglio, i capperi che avrete già sciacquato ben bene onde rimuoverne il sale in eccesso, e le olive nere. Mescolate il tutto in una ciotolina e lasciate insaporire un paio di minuti.
Acchiappate un cespo di scarola alla volta, apritelo con garbo in modo da accedere al centro e farcitelo con il trito.
Quindi chiamate l'aiutante: ne avrete bisogno.
Tagliate per ciascun cespo due pezzi di spago di lunghezza adeguata (ho calcolato una trentina di centimetri) e poggiateli su un piano, in modo che corrispondano più o meno all'altezza del centro e poco meno della cima del cespo. Con presa ferma prendete una scarola imbottita, poggiatela sugli spaghi, e tenendola chiusa fare annodare all'altezza prescritta i succitati spaghi all'assistente; ripetete quindi l'operazione con l'altra scarola, e mettete entrambe in una pentola antiaderente dove aspettano in paziente attesa i due cucchiai d'olio e il terzo spicchio d'aglio affettato in quattro.
Se non avete l'assistente, preparatevi a litigare un bel po' con le scarole che sgusciano da tutte le parti mentre tentate pietosamente di legarle e con il ripieno che vola per aria. Se non volete litigare, mettetele in pentola così come sono, ma sappiate che in cottura si sbracano (fa lo stesso: l'estetica, quando si sta lottando con i secondi per preparare la cena, è un optional).
Accendete la fiamma avendo cura di tenerla bassissima e mettete sulla pentola il fido coperchio di vetro. Quando l'olio comincia a sfrigolare, aspettate un po' e quindi con l'aiuto del cucchiaio di legno rigirate la scarola, che nel frattempo si sarà già stufata quel tanto che basta a farvi compiere l'operazione senza santioni.
Fate cuocere sempre a fuoco minimo finché le scarole non si sono appassite, avendo cura di rigirarle di tanto in tanto.
Eliminate gli spaghi che risulterebbero alquanto indigesti e servitele come contorno a un bel secondo semplice, ad esempio hamburger fatti in casa come ho fatto io l'altra sera.
Farete contento il commensale, e sarete contenti voi, che avrete preparato la cena in mezz'ora scarsa.

martedì 20 ottobre 2009

Freddo, pussa via: farro e melanzane

"Tesoro mio, che bell'arietta che c'è fuori..."
Quando l'amato bene con il suo consueto understatement si lagna della temperatura, è segno che non c'è scampo: è arrivato ufficialmente il gelo.
Il che vuol dire che, con somma soddisfazione di chi cucina, è arrivato il momento di approntare risottini e zuppe bollenti senza più correre il rischio che il poveretto sudi a fontana.
Ho pertanto colto l'occasione per liberarmi del paio d'etti di farro che stavano a immestirsi in dispensa per approntargli una pietanza che gli ho servito ben bollente. Giacché, oltre a sciogliergli la patina di ghiaccio che aveva accumulato addosso aspettando l'autobus, gli è pure piaciuta parecchio, ve la propongo.

Ingredienti:
due etti circa di farro intero
due belle melanzane scure
uno spicchio d'aglio
due cucchiai d'olio

Preparazione:
lavate le melanzane, togliete il picciolo e tagliatele a tocchetti, provvedendo poi a spruzzarle di sale e a metterle nel colapasta per una mezz'oretta onde togliergli l'eventuale amaro (procedete, insomma, come se steste preparando delle melanzane a funghetto).
Nell'attesa, sciacquate il farro sotto il rubinetto e lasciatelo da parte.
Quando è passata la mezz'ora, sciacquate pure le melanzane e tamponatele con un canovaccio, oppure scrollatele ben bene nel colapasta.
Togliete il germoglio all'aglio, tritatelo con la grattugia (se avete lo spremiaglio meglio ancora, ovviamente) e mettetelo a soffriggere con i due cucchiai d'olio in una pentola antiaderente a fuoco bassissimo: non appena si è un po' colorito, buttate le melanzane in pentola, coprite col coperchio di vetro e lasciate cuocere sempre a fuoco bassissimo per una decina di minuti. Grazie alla fiamma minima, non sarà necessario aggiungere acqua; nel caso funesto che non disponiate di coperchio di vetro, anziché impiegare quei dieci minuti per farvi i fatti vostri date una controllata ogni tot e aggiungete acqua (poca, mi raccomando) se necessario.
Passati i dieci minuti, fate la prova forchetta: se i rebbi entrano nelle melanzane senza difficoltà, è arrivato il momento di procedere.
Alzate la fiamma, aggiungete il farro e fatelo insaporire per un minuto mescolando con il cucchiaio di legno. Versate quindi in pentola il doppio della quantità d'acqua rispetto al peso del farro, in cui avrete sciolto una presa di sale. Riabbassate la fiamma al minimo, rimettete il coperchio di vetro e lasciate cuocere per una ventina di minuti rimescolando di tanto in tanto, finché il farro non ha assorbito tutta l'acqua o quasi. Quando è pronto, tenete pure in caldo impiegando il coperchio: fra le tante virtù di questo cereale, purché di buona qualità, c'è quella di non spappolarsi.
Quando il vostro amato bene arriva esibendo una bella barba di ghiaccioli sotto il mento, aggiungete alla pietanza una spruzzatina di peperoncino se garba e portate in tavola.
Mangiate insieme all'amato/a la zuppa e osservate con tenerezza il suo naso che da viola porporino torna di colore normale.
E poi date un bacio su quel naso.
Vi parrà strano, ma così la pietanza diventerà più buona.

domenica 18 ottobre 2009

E' fatto strano ascoltare le Lescano?

I miei gusti musicali sono oggetto a turno di sospettosa curiosità o aperto ludibrio da parte di chi mi conosce.
La sospettosa curiosità è dovuta al fatto che, a parte i consueti classici pop e rock, ascolto cose a loro dire quantomeno singolari come misconosciuti gruppi post punk e new wave (fino a Joy Division ci arrivano, ma quando si tratta dei Passage oppure degli Orbidoig scuotono la testa anche i più fini cultori) oppure, sempre a loro dire, coperte da strati e strati di muffa come il madrigale nelle sue diverse declinazioni o peggio ancora simpatici pazzerelloni come Arvo Pärt.
L'aperto ludibrio scatta quando mostro la mia predilezione per gente che era sulla cresta dell'onda in quel periodo in cui si marciava per non marcire: mi basta accennare la prima strofa di Ho un sassolino nella scarpa per suscitare risate manco fossi Gigi Proietti al top della condizione.
Pare infatti che per ascoltare Rabagliati, Natalino Otto o il Trio Lescano sia condizione ineludibile il veleggiare per la novantina.
Alle loro esplosioni di ilarità, ribatto sempre che se non ci fossero stati signori come i succitati, in grado di sdoganare in salsa italica lo swing, i nostri nonni e genitori sarebbero affogati nelle mestizie dell'autarchia culturale (mia zia ancora ricorda come si fosse costretti ad ascoltare i dischi jazz americani fortunosamente importati a bassissimo volume, pena occhiatacce dei vicini o peggio ancora), ma ciò non pare sortire effetto alcuno. Sicché loro continuano a sghignazzare e io a riascoltare a intervalli regolari Maramao perché sei morto o Camminando sotto la pioggia.
Insieme a Natalino Otto, le Lescano sono state le mie predilette fin da quando ero piccina. Sarà per il fascino che esercitavano le loro armonie vocali, che ancora adesso trovo di qualità sublime, o forse per l'accento. Solo quando sono cresciuta ho scoperto, e me lo avrebbe dovuto render chiaro il loro successo più famoso, che erano olandesi. Molto più tardi ho scoperto come tre signorine olandesi fossero andate a finire nell'Italietta dell'aratro che traccia il solco. E ancora più tardi sono venuta a sapere perché fossero letteralmente finite nel nulla.
Per la cronaca, il trio era composto da tre sorelle: Alexandrina, Judith e Katharina "Kitty" Leschan, cognome che ovviamente venne autarchizzato in Lescano così come i loro nomi: Sandra, Giuditta e Caterinetta. Erano figlie di un contorsionista ungherese e di una madre olandese cantante d'operetta, e come contorsioniste iniziarono a far carriera nel mondo dello spettacolo. Pare fossero parecchio brave: e se è vero, come sosteneva Louise Brooks, che la danza è l'allenamento migliore per recitare, il contorsionismo lo deve essere per cantare, se non altro perché il fiato impari a usarlo e risparmiarlo molto, ma molto bene.
Dopo una serie di peripezie e tournée massacranti in giro per l'Europa, a metà degli anni Trenta vennero notate in un minuscolo circo vicino Verona dal direttore artistico della sede torinese dell'Eiar (ovvero l'antenata dell'attuale Rai), che decise di impiegarle come trio specializzato nel vocalese, uno stile di cantato virtuosistico tipico della musica swing e jazz.
Il successo fu incredibile: centinaia di migliaia di dischi venduti (solo del loro hit più celebre, Tulitulipan, pare ne venissero acquistate oltre 350.000 copie), esaltazioni della stampa italiana e un'orda di fan entusiasti, fra i quali anche il pelato di Predappio che volle conoscerle. Con il successo vennero anche numerosi tentativi di imitazione, ma funzionarono fino a un certo punto. "Forse perché si somigliavano tanto, forse perché si vestivano in un certo modo, forse perché il loro cantato era simile a un miagolio - un piacevole miagolio, molto piacevole - loro vengono ancora ricordate", dice in un documentario Lidia Martorana, cantante che i cultori ricordano per la temibile Paquito lindo (sbertucciata in maniera sublime da Proietti e Arbore qualche anno fa) e che fu parte di uno di quei trio simil-Lescano.
Il piacevole miagolio assicurò alle sorelle Leschan una popolarità tale da portarle, oltre che sulla stampa, anche nel cinema (con numeri musicali nei famigerati film dei telefoni bianchi) e persino a casa Savoia. L'ascesa pareva irrefrenabile.
Lo sarebbe stata, se non fosse per un piccolo particolare.
Un particolare su cui, vista l'incredibile fama del Trio e gli incassi che portava, si glissò nel 1938, ma che nel 1943, con mezza Italia divenuta RSI, non si poteva ignorare.
La madre delle sorelle Leschan era ebrea.
Da un giorno all'altro scomparvero, letteralmente. La Eiar e la connessa casa discografica Cetra sciolsero qualunque contratto. Le canzoni già registrate uscirono a nome Trio Cetra. E nel novembre del 1943 vennero addirittura arrestate a Genova, perché accusate di mandare messaggi in codice al nemico con le loro canzoni. La detenzione durò poco, ma fino alla fine della guerra furono costrette a nascondersi sotto falso nome.
Nel dopoguerra, almeno in Italia, se ne perdono le tracce. Dopo qualche concerto, tenuto nemmeno con la formazione originaria, una lunga tournée in Sud America. Poi lo scioglimento. Una delle tre, Alexandra, torna in Italia. Lì la scoverà un settimanale, che la intervista poco prima della morte nel suo appartamentino di Salsomaggiore.
Dopo questo, il nulla.
E dire che l'interesse, da parte degli appassionati italiani, mi risulta sia notevole.
Lo prova fra l'altro un bel documentario, Tulip Time, realizzato nel 2008 da Tonino Boniotti e Marco De Stefanis.
Per una casa produttrice olandese, la Memphis Film.
In Olanda, dopo la presentazione in diversi concorsi, è stato proposto in televisione. Da noi no, nonostante sia stato coprodotto dalla Rai.
Si vede che nei palinsesti attuali non vi è posto.
O forse il motivo è un altro.
Agli italiani non piace che gli si ricordi che no, non siamo brava gente.

Post scriptum:
uno degli amici sbeffeggiatori mi comunica che la Rai non avrà trasmesso Tulip time, però ha in cantiere una di quelle belle fiction in due puntate in cui ripercorrerà la storia del trio.
Titolo, "Le ragazze dello swing". Cast ancora da definire, ma già si sa che a interpretare Alexandra Leschan sarà Andrea Osvart.
Sì, miss Scena Muta di uno degli ultimi festival di Sanscemo.
Non so il perché ma, come si suol dire nell'Urbe, me viè da piagne.

venerdì 16 ottobre 2009

Accade oggi

Scrivo due righe per invitarvi a fare, chiamiamolo così, un gioco.
Andate sulla pagina iniziale del vostro motore di ricerca preferito.
Nella stringa di ricerca digitate la data di oggi, con in aggiunta "1943" e "Roma".
Premete sul tasto "Cerca".
Poi vedete che succede.
E dopo aver visto, leggete.
Leggete cos'è successo a Roma il 16 ottobre 1943 a partire dalle 5.30 del mattino.
Potete anche dilettarvi con quesiti matematici.
Ad esempio quali sono le condizioni perché da un numero iniziale di 1.022 si arrivi a 15.
La Storia ha un modo tutto suo di fare i conti.
E poiché la Storia la fanno gli essere umani, i conti non tornano mai.
Anche per questo è importante non dimenticare.

mercoledì 14 ottobre 2009

Strascinati con pomodorini e salsa al basilico

Come la stragrande maggioranza degli esseri umani, io ho un sogno.
E' un sogno piccolo. Niente a che vedere con sogni grandi e importanti, ad esempio quello dell'associazione che porta il nome della celeberrima frase di Martin Luther King, e alla quale toccherà sognare ancora a lungo, visto che una certa legge proprio ieri è stata affossata in Parlamento con scuse a dir poco risibili.
Il mio sogno è avere un balcone ove batta il sole.
Perché grazie all'esposizione del palazzo dove abito, il quale palazzo è stato costruito in barba a qualunque buonsenso e a qualsivoglia piano regolatore come spesso accade nell'Urbe, il mio si becca un po' di luce a malapena un'ora al giorno. Questo in estate, perché per i restanti mesi dell'anno manco quello.
Conseguenza è che le uniche piante che vi possono prosperare sono muschi e licheni, e che qualunque altra specie appartenente al mondo vegetale sceglie di commettere suicidio.
Il basilico, ad esempio, che è una delle piante che più mi piacciono, anche per questioni affettive: al mio paese, dove ogni balcone ne reca minimo due o tre esemplari, si chiama vasenecole, che tradotto letteralmente significa "bacia Nicola". Ditemi voi se non è bellissima una pianta che ti invita a baciare qualcuno.
Fatto sta che il baciatore di Nicola sul mio balcone i baci del sole non se li prende mai. E nonostante tutte le cure, le povere piantine che mi ero ostinata a coltivare erano rimaste alte mezzo palmo scarso e avevano assunto il colore di un divo del muto.
Questo fino a quando il mio amico Mauro non mi ha proposto di fargli fare un po' di villeggiatura a casa sua.
Quando sono tornate, erano dei baobab che sfoggiavano foglie di un verde in technicolor quasi insultante.
Un invito irresistibile a mettersi ai fornelli.
Questo è il risultato dell'invito irresistibile, che è stato servito a Mauro qualche sera fa. La ricetta, ça va sans dire, è dedicata a lui con gratitudine.

Ingredienti:
mezzo chilo di strascinati (che per chi non lo sapesse è quella squisita pasta pugliese assai simile alle orecchiette)
un etto di pomodorini
mezz'etto circa di foglie di vasenecole, lavate e asciugate con un canovaccio (non con la carta, per cortesia: ci patiscono)
due cucchiai di formaggio grattugiato (grana o parmigiano vanno benissimo, ma se vi procurate del cacioricotta è il non plus ultra)
un paio di cucchiai d'olio
uno spicchio piccolo di aglio

Preparazione:
in un capace pentolone mettete a bollire adeguata quantità d'acqua con la regolare manciata di sale e con il regolare coperchio, così fate prima e risparmiate sulla bolletta del gas.
Nel frattempo togliete all'aglio il germoglio, fatelo a pezzetti e frullatelo insieme al cacioricotta e all'olio. Se non avete il frullatore, ritenetevi oggetto di un'occhiataccia ben assestata e procedete come segue: con la comune grattugia tritate lo spicchio facendo attenzione a non grattugiarvi anche le dita, e con santa pazienza mescolatelo agli altri ingredienti impiegando il cucchiaio di legno che riservate a salse e intingoli.
Nel mentre che voi siete in tal modo impegnati, l'acqua in pentola avrà iniziato a bollire gagliarda: buttateci gli strascinati e date una mescolata per far sì che non si appiccichino.
E' arrivato il momento di impiegare 'u vasenecole: con le manine sante spezzettate le foglie (perché non con il coltello che è tanto più comodo?, mi chiederete: perché al contatto con il metallo si sciupano, e già avranno quello poco gradito con le lame del tritatutto) e mettetele nel recipiente del frullatore. Poidiché azionate il marchingegno, e fatelo a intervalli brevissimi e solo quel tanto che basta a ottenere una crema liscia e verde. Non di più, altrimenti la cremina si riscalda e anziché verde brillante assume un poco ameno color marroncino: il sapore non ne risente molto, ma il naso e l'occhio sì, e pure loro voglion la loro parte.
Se non avete il frullatore per questa fase, sono veramente crauti (cavoli acidi, per coloro che avessero poco dimestichezza con la cucina teutonica). O vi procurate qualcosa di molto simile a un pestello e pestate il tutto con movimento circolare fino a ridurre in crema il basilico, rassegnandovi al fatto che ci metterete un tempo infinito, oppure tagliuzzate le foglie in pezzi il più possibile piccoli e rimestate il tutto energicamente con il cucchiaio di legno. L'effetto visivo sarà una ciufega, ma il sapore sarà buono comunque.
Travasate la salsa al basilico nella zuppiera che impiegherete per la pasta e aggiungeteci un cucchiaio o due dell'acqua di cottura in modo da renderla più fluida.
Tagliate i pomodorini in pezzi, eliminate l'acqua in eccesso e semi se ce ne sono, e lasciateli da parte.
Scolate gli strascinati non appena sono al dente, buttateli roventi come sono dentro la zuppiera e mescolate per bene aiutandovi con due cucchiai facendo movimenti dal basso verso l'alto.
Aggiungete quindi i pomodorini, date una mescolata veloce, prendete la zuppiera con un bel canovaccio spesso (accorgimento necessario perché scotta come l'inferno) e portate in tavola.
E mentre state mangiando, ripensate ai santioni che avete cacciato mentre litigavate con grattugia, pestello, cucchiaio di legno e quant'altro, e fatevi una nota mentale per comperare alla prossima occasione il benedetto frullatore.
Qualcuno mi chiederà: ma chi vuoi che non abbia un frullatore nella sua cucina?
Che domande: gli ingegneri.
E gli informatici.
E i grafici.
E i matematici.
E i programmatori.
E tutta una serie di altre categorie che, so da fonte sicura, leggono questo blog.
E che invito caldamente a dotarsi di attrezzi atti a spignattare, perché se continuo a dover aguzzare l'ingegno onde suggerire espedienti per supplire a codeste mancanze, diventerò Jessie MacGyver, e non ci tengo davvero.

martedì 13 ottobre 2009

La merenda del bebè: torta di gelato e frutta

Ogni tanto, un bel dolce è quel che ci vuole.
Soprattutto se ci sono cuccioli in casa.
E soprattutto se detto dolce è una scusa per pasticciare in cucina con i succitati cuccioli, nonché per fargli mangiare un po' di frutta, cosa che fa assumere a tutti i miei nipotini l'espressione di un capo sassone cui un emissario di Carlo Magno abbia appena annunciato che, causa atteggiamento rivoltoso, farà la fine di San Giovanni Battista. Ovvero, l'espressione di chi piuttosto che cambiare di una virgola il suo credo (nella fattispecie, che la frutta è roba da scimmie: quello dei capi sassoni era un filino diverso), la testa preferisce perderla, non senza opporre prima una fiera resistenza.
Questa torta incontra sempre grande successo anche se la temperatura esterna è più o meno quella della Groenlandia, o se per questo quella che caratterizza oggi l'Urbe, passata nello spazio di un pomeriggio da un teporino estivo a diciotto gradi secchi di massima: pertanto ve la propongo con la certezza che sarà gradita a grandi e piccini. E pazienza se, dopo averla preparata, vi toccherà passare un paio d'ore a staccare dal soffitto un terzo degli ingredienti che, per qualche misterioso motivo, hanno deciso che dovevano finire proprio lassù.

Ingredienti:
tre o quattro belle pesche, grandi e mature (da sostituire con mele o simili se non se ne trovano, a patto di superare lo sbarramento sospettoso della prole/nipotanza per la quale la mela è tabù)
una vaschetta di gelato di crema da mezzo chilo
un etto circa di biscotti tipo novellini, o qualunque biscotto da colazione
cannella (sempre se riuscite a vincere il citato sbarramento)

Preparazione:
spostate la vaschetta del gelato dal freezer al frigo, in modo che si ammorbidisca senza però sciogliersi.
Nel frattempo, mentre voi sbucciate e tagliate le pesche a fette (attività che è ovviamente riservata a mamma, babbo o zio/a in quanto prevede l'impiego di un coltello) affidate ai cuccioli i biscotti da triturare con le manine, cosa che procurerà a loro gran sollazzo e a voi un pavimento che alla fine dell'operazione sarà coperto da una sottile coltre di briciole. Fa niente: le ramazze sono state inventate proprio per motivi come questi.
Prendete quindi una tortiera con cerniera apribile, foderatene la base con della carta da forno e l'anello con pellicola per alimenti, e fatevi aiutare dai piccoli a coprirne il fondo con le fette di pesca in modo da non lasciare buchi.
Togliete dal frigo la vaschetta di gelato che oramai sarà ben ammorbidito, e sempre con l'aiuto della prole versateci dentro le briciole di biscotto. Ovviamente la cosa si svolgerà con una pioggia di schizzi, ma fa niente: le spugnette sono state inventate proprio per motivi come questi.
Impiegando un cucchiaio (che volerà per aria un tot di volte visto che le creaturelle se lo litigheranno con gagliardìa) travasate quindi il gelato biscottato nella tortiera, facendo in modo da pareggiarlo per bene.
Sulla superficie di gelato sbizzarritevi a fare le vostre belle decorazioni con la frutta rimasta: fiorellini, tondini, quadrucci, foglioline, autoambulanze, qualunque cosa insomma vi suggerisca la vostra fantasia (e soprattutto quella dei piccini, che non mancherà di stupirvi per i livelli cui giunge). Se avete vinto la resistenza, spruzzateci infine un po' di cannella.
Ponete la tortiera nel congelatore per un quarto d'ora circa, ovvero quanto basta perché il gelato si ricompatti quel che è necessario.
Poidiché toglietela, poggiatela su un piatto di portata, sganciate la cerniera con somma cautela, con altrettanta cautela rimuovete la pellicola per alimenti. Non tentate, volendo sfogare il prestigiatore che è in voi, di rimuovere la carta da forno, pena uno smottamento a catena da rivaleggiare con quelli che le pioggerelline autunnali causano sulle superstrade del mio amato Sannio.
Godetevi la soddisfazione dei piccirilli, e portate trionfalmente il dolce in tavola per la merenda.
Guardate le creature con occhio amoroso mentre sbafano la torta, e portate pazienza se il cucciolo di turno con la precisione di un cesellatore si mangia tutto il gelato e, uno per uno, rimette i pezzi di frutta nel suo piatto dopo averli ciucciati.
Portate pazienza pure quando, lasciati i piccoli a giocare come si confà ai piccoli, vi toccherà pulire la cucina.
Siete mamme, babbi, zii, quant'altro. Portare pazienza è il vostro lavoro.
E ne vale la pena.

domenica 11 ottobre 2009

Com'è lontano il mio vicino Totoro

"Tanto è garantito come l'oro che qualche boiata la fanno. Mettiti il cuore in pace, e goditi il film. Semmai, vai di mannaia dopo."
Il mio amato bene aveva, come spesso gli succede, ragione. Si sbaglia solo sulla scelta dello strumento. Che, nella fattispecie, è un mazzuolo di legno. Vi spiego dopo il motivo della scelta. Per adesso, basti dire che sono uscita dal cinema dove proiettavano Il mio vicino Totoro in modalità Okiku.
Di questo bellissimo film avevo già parlato altrove, per cui non dico nulla della trama o delle caratteristiche che lo rendono un capolavoro. E, a scanso di equivoci, sono tanto, tanto grata alla Lucky Red che, bontà sua, ha deciso di doppiare e proporre sul mercato italiano i film di Miyazaki che il pubblico non aveva avuto modo di vedere al cinema per via di una certa faccenduola: goderselo sul grande schermo è ben diverso che sguerciarsi sul televisore casalingo. Però, giacché c'era, poteva fare un lavoro comme il faut. Ci è andata vicina. Il problema è che, per certi versi, ci è andata pure troppo.
Mi spiego.
Chi ha avuto modo di leggere le mie bagattelle sull'animazione giapponese già sa che ho il dente avvelenato causa adattamenti da vergogna, in cui il traduttore tenta pietosamente di strizzare l'occhio al pubblico occidentale con battute che con l'originale non c'entrano un bel nulla o aggiungendo dialogo a man bassa. Non è questo il caso. Il rispetto per l'originale è evidente, molto evidente. Lo è fin dalla sigla iniziale: azzeccatissimo il cantato, tant'è che per i primi secondi ho pensato che avessero lasciato quello nipponico, centrato il significato della traduzione. Io e l'amato bene ci siamo guardati in faccia (un po' difficile nel buio della sala, ne convengo), e abbiamo detto, cosa che non ci succede spesso: "Però, comincia bene".
Il problema è come continua.
Perché il rispetto per l'originale è cosa santa. Quando è eccessivo, no.
Chi ha un minimo di dimestichezza con la lingua del Sol Levante sa quanto i giapponesi siano formali nel parlare. Lo sono in maniera terrificante. Per un povero gaijin, non c'è modo di evitare figuracce spaventose manco se studia indefessamente per anni. Hanno delle costruzioni che grondano cortesia, in cui il tapino occidentale si ritrova stravolto già a metà del "prego umilmente l'eccellenza vostra" (espressioni che, più o meno, si usano anche quando stai chiedendo a un commensale di versarti un bicchier d'acqua). Il punto è che, tradotte letteralmente in italiano, danno la sensazione polverosa di un drammone ambientato a metà Ottocento in qualche casata del Regno delle Due Sicilie. Il che non è gradevole se si sta vedendo una storia che, nella fattispecie, è ambientata nel Giappone degli anni Cinquanta. Men che meno se a espressioni della nobiltà gattopardesca si alternano altre del linguaggio colloquiale. E men che meno ancora se si fanno dire a una creatura di dieci anni costrutti quali "avevi forse l'intenzione". Ha dieci anni, per la miseria. Vabbè che è figlia di un archeologo, ma se a quell'età parla a quel modo chiunque abbia un po' di sale un zucca le fa fare una settimana di cura a base di coda alla vaccinara e film di Tomas Milian.
Chi ha la succitata dimestichezza sa pure che in certi contesti abbondano vezzeggiativi e nomignoli, questi ultimi perlopiù segno di rispetto. Per carità, li abbiamo anche noi. Che si definisca una persona anziana "nonnina" va pertanto benissimo. Se però si mettono in bocca ai personaggi espressioni quali "Da mammina per nonnina!" (lo pronuncia un fanciulletto decenne che ha il livello di civetteria di uno scaricatore di porto) oppure "Avverti papino!" (detto dalla nonnina al succitato fanciulletto), lo spettatore aggriccia. Idem dicasi per la tendenza di Mei, la più piccola delle due protagoniste, a chiamare la sorella maggiore Satsuki sempre e comunque "sorellona": non c'è bimbo o bimba giapponese che non chiami "oneechan" la sorella più grande, se però lo metti in bocca ogni due per tre a una creatura parlante italiano, alla quarta volta scatta il birignao.
I nipponici hanno inoltre il vizio di parlare di sé o dell'interlocutore in terza persona. Il che è spesso strumento chiave per equivoci che in manga e anime si trovano a bizzeffe (esempio classico, la ragazzina che chiede a un ragazzo "Scusa, ma è vero che Tizio frequenta il liceo Taldeitali?", e lui le risponde "E' vero, Tizio frequenta quel liceo": va da sé che il ragazzo è Tizio in persona). Da noi non è particolarmente usato: lo impiegano soprattutto i bambini. E va benissimo che nel film la piccola Mei dichiari fieramente "Mei non ha paura!". Va meno bene che parli di sé in terza persona sempre, e della mamma in terza persona pure quando la citata mamma è presente. Il birignao scatta subito, e nella assoluta spontaneità suggerita dal contesto e dalle immagini è a dir poco micidiale.
Mei, per inciso, è proprio quella che se la passa peggio. Nella versione originale è una deliziosa creaturella sui tre anni, e come tutti i piccini di quell'età ogni tanto intruppa sulle parole o le dice a modo suo. E' proprio lei a battezzare lo spirito della foresta con il nome Totoro, storpiatura dell'inglese "troll" (reso in giapponese con tororu) che non riesce a pronunciare. Nel doppiaggio, parla con la nitidezza di una signorina buonasera vecchio stampo. Per cui, quando la traduzione le mette in bocca "girelli" anziché girini, vien voglia di dare il girello in testa all'adattatore fino ad esaurimento dello stesso.
Tutto ciò fa dar di matto a uno spettatore che, come la sottoscritta, abbia già visto più volte Totoro in versione originale, e lo consideri uno dei più bei film che l'animazione giapponese e non solo ci abbia mai regalato.
Fa dare ancor più di matto considerando che alcune cose della traduzione sono assolutamente sublimi.
Prendiamo un caso eclatante: i Makkurokurosuke, ovvero gli spiritelli fuligginosi che all'inizio del film infestano la casa dove le piccole protagoniste e il loro papà vanno ad abitare. Letteralmente, sono i "cosi nerissimi". Vengono resi con "nerini del buio". Che è pressocché perfetto, sia per significato, sia per la metrica. Oppure la scena in cui la nonnina, terrorizzata perché Mei non si trova, prega febbrilmente: "Namu amida butsu, namu amida butsu", tradotto con "nel nome di Buddha, nel nome di Buddha" e reso ancora più emozionante dalla somma Liù Bosisio. Mi si dirà che sono piccolezze: non lo sono. Sono le cose che mi fanno alzare e togliere il cappello.
Peccato che poi chi ha tradotto e adattato incorra in perle come Totoro definito "fantasma" da Satsuki (nell'originale è "spirito", cosa ben diversa) o che il mitico Gattobus, in originale Nekobasu, venga reso letteralmente con "autobus gatto".
Autobus gatto? Quando Gattobus metricamente era perfetto, e perfettamente comprensibile anche per uno spettatore che vada all'asilo?
Si vede che lo sforzo dedicato ai Makkurokuroske aveva esaurito in chi ha tradotto e adattato qualunque riserva di creatività.
Vi consiglio comunque di andare a vedere Totoro al cinema. Non c'è adattamento malfatto o legnoso che possa scalfire il senso di meraviglia che trasmette. Vederlo sul grande schermo e poterne apprezzare tutti i magnifici dettagli del disegno e dell'animazione è emozionante. Fa quasi passare sopra al fatto che la versione italiana sia un'occasione davvero sprecata.
Quasi, per l'appunto.
Ed è per quello che mi armo di mazzuolo.
Perché se putacaso mi trovo davanti traduttore & adattatore, visto che hanno mostrato un rispetto tanto pedissequo quanto pigro nei confronti dell'originale giapponese, sarà mio piacere ridurli in mochi.
Che per coloro che non lo sapessero è il dolce tradizionale nipponico per eccellenza, fatto con riso glutinoso che viene pestato, pestato e ancora pestato fino a quando non è diventato una collosa poltiglia.
La prossima proposta in italiano della Lucky Red dovrebbe essere Porco Rosso.
La attendo con entusiasmo e con fiducia.
Che spero sia ben riposta.
Perché in caso contrario sostituisco il mazzuolo di legno con un Savoia Marchetti S.21 e, vi assicuro, sarà di gran lunga peggio.

sabato 10 ottobre 2009

Ar iu crézi?

Io guardo di rado la tivù. Non so se faccio bene o faccio male. Forse faccio bene, visto che mia madre, la quale si è da qualche mese procurata l'accrocco per vedere i programmi in digitale terrestre, sostiene che è passata dal lagnarsi di schifezze abominevoli disponibili su una ventina di canali al lagnarsi di schifezze abominevoli disponibili su un centinaio di canali.
Fanno eccezione, a suo dire, quelli stranieri. Ovvero France 2, con cui io mai mi son data del tu causa una conoscenza del transalpino meno che nulla, e BBC World, con cui talvolta mi diletto per testare il livello di comprensibilità del soave accento british, che a torto o ragione mi dà sempre l'idea che il parlante abbia appena trangugiato una cassetta di limoni.
Stasera, visto che non c'era niente, dopo un tot di impaziente zapping sono finita sul canale di Sua Maestà Britannica. E ci son rimasta perché, guarda un po', di parlava di Italia. No, non di quella faccenda recente in cui il presidente del consiglio ha dichiarato che farà vedere di che pasta è fatto, e nemmeno di quella meno recente in cui il citato presidente del consiglio è stato, come dire, collegato a imbarazzanti vicende che vedono fra le protagoniste alcune signore tanto belle quanto intelligenti.
Parlava di una faccenduola che sulla nostra stampa ha avuto la prima pagina lo spazio di un mattino, per poi essere accantonata a favore di altro. Ovvero, del respingimento alla base dei migranti che arrivano via mare.
Il solerte reporter della BBC, cassetta di limoni o meno, era quello che si suol definire un bravo professionista. Per il servizio si era documentato bene, ed è andato in giro fra Libia, Svizzera e Italia per parlare con immigrati, politici, forze dell'ordine, chi più ne ha più ne metta. Si è fatto un giro nelle celebri prigioni libiche, dove gli immigrati, suddivisi in base alla provenienza, non paiono passarsela un granché bene. E per chi è riuscito a scappare, il più grande terrore è tornarci. Dopo aver visto un po' di riprese, ne comprendo il motivo.
Giacché il nodo centrale della questione era la politica di respingimenti adottata dall'Italia, non poteva mancare un'intervista ai nostri rappresentanti. Nello specifico, l'onorevole Ignazio La Russa, ministro della difesa.
L'intervista è stata molto breve. Sarà che il giornalista ha commesso l'errore di riferirgli all'inizio che l'approccio italiano era stato definito nazista da alcuni.
Reazione dell'onorevole La Russa: "Ar iu crézi?". E a seguire la dichiarazione che, se si partiva da queste basi, l'intervista non avrebbe avuto luogo.
Non so cosa mi ha fatto più cadere le braccia, se l'accento o la successiva dichiarazione.
Forse non tutti sanno che le Camere ogni anno spendono un bel po' di soldini per far sì che chi ci rappresenta faccia i suoi bravi corsi di lingue straniere.
Soldini che, ovviamente, escono fuori dalle nostre tasche.
Per cui mi aspetto che l'onorevole La Russa o chi per lui, quando si trova davanti chicchessia della stampa estera non suoni come uno, per citare Francis Ford Coppola, che "talka lika Luigi". Perché noi italiani, che già siamo noti per un tasso di ignoranza dell'inglese tanto alto quanto malamente gestito (cosa che ben sa chiunque abbia un minimo di cognizione linguistica e si trovi a sopportare gli abominevoli doppiaggi di serie, film e quant'altro che ci vengono propinati), non ci facciamo questa gran figura.
E, visto che lo stipendio di chi ci rappresenta viene parimenti pagato con dindi che escono dalle nostre tasche, mi aspetto pure che il rappresentante di turno risponda a tono, e non con l'atteggiamento di un bambino che fa "ecco, e io non gioco più!" perché l'altro l'ha stizzito. Stai rappresentando l'Italia, signor ministro, non stai facendo a pallonate in cortile con gli amichetti del palazzo.
L'onorevole La Russa, alla fine, un paio di dichiarazioni le ha rilasciate, sostenendo che il respingimento in mare è in realtà assai più umano del dare un foglio di via a un immigrato clandestino che viene beccato sul territorio italiano: in questo modo, gli si risparmia una lunga permanenza in centri di accoglienza dove non verrebbe trattato adeguatamente.
L'opinione non era però condivisa dall'UNHCR (ovvero il commissariato ONU per i rifugiati), i cui rappresentanti il solerte giornalista della BBC non ha mancato di intervistare. E non era condivisa perché l'Italia, rispedendo tutti al mittente senza effettuare controlli, respinge sia chi emigra alla ricerca di un lavoro, sia coloro che sono in fuga da zone di guerra e pertanto hanno diritto a chiedere asilo politico.
In sintesi, fra immagini delle libiche galere e dichiarazioni ONU il governo italiano, ovvero tutti noi, ha fatto la figura di chi tenta pietosamente di nascondersi dietro a un dito.
Il tutto su un'emittente che viene vista quotidianamente da qualche milioncino di spettatori.
Voi direte: mica è il numero di spettatori che garantisce la qualità di un canale.
Avete perfettamente ragione.
Per cui vi cito i risultati della European Opinion Leaders Survey, ovvero quell'indagine focalizzata su ciò che pensano coloro che, per dirla in breve, fanno da opinion leader (inutile tradurre, visto che codesti termini sono da lunga pezza entrati nel comune vocabolario) nel Vecchio Continente, ovvero oltre 30.000 fra politici, imprenditori, accademici, giuristi e altre amene figure professionali: "BBC World is the most relevant, authoritative and impartial news channel, as well as the source most quoted among Europe’s most senior opinion leaders. The results also confirm that BBC World is the channel with the largest ‘regular’ viewership."
In sintesi: non solo viene considerato il canale di news più autorevole e imparziale, è anche il più citato e quello che può contare la più alta fidelizzazione.
Come fare una figuraccia in mondovisione.
Mi si dirà che ci sono cose peggiori. Qualcuno sosterrà che il mio atteggiamento è disfattista. Oppure che si sa, gli inglesi ce l'hanno con noi.
A me viene da pensare che i peggiori nemici degli italiani sono gli italiani stessi.
Mi sa che mi asterrò dalla televisione per un bel po'. Mi deprime.
Gente che conosco mi dirà che mi sta bene. Così imparo a guardare i canali stranieri. Sei italiana, mi diranno, informati con un telegiornale italiano.
Telegiornale italiano?
Magari di Minzolinho Zero Tituli?
Ar iu crézi?

mercoledì 7 ottobre 2009

Insalata di zucchine

Sono reduce da serata di puro delirio gastronomico.
Mauro è venuto a cena, e grazie a un filo di tempo in più del solito ho potuto finalmente preparargli un pasto come si confà.
Menù: linguine al pesto casalingo, polpette ai pomodorini di collina, finocchi al gratin, ostie con gelato.
Non ho fatto manco una fotografia, per cui di tutti codesti mangiari non posterò un bel nulla.
Non che mi spiaccia, visto che causa il succitato menù ho la sensazione di avere nello stomaco una riproduzione in scala 1:1 di Ayers Rock, e anche solo ripensarci mi dà un senso di agonia, figurarsi scriverne.
Vi propongo pertanto una pietanzina leggera, ma leggera leggera. Ideale anche per chi sta a dieta, ma al pensiero di affrontare il solito piatto di cucuzze lesse si sente lieto e vivace come, non so, uno che ha pensato "massì, facciamo una bella cena fra amici" e il mattino dopo alle sei e mezza si è trovato a darsi del tu con una Torre di Pisa di piatti sporchi.
Ovvero, quello che è successo a me stamane. Ma questo fra parentesi.

Ingredienti:
zucchine, quante ne garbano, possibilmente romanesche, piccole e prive di semi
olio in base al gusto e alle esigenze
sale

Preparazione:
lavate ben bene le zucchine, tagliatene via le estremità, e con un pelapatate affettatele nel senso della lunghezza il più sottili possibile. Quindi mettetele in un colapasta, salate e lasciatele lì una mezz'ora perché perdano l'acqua in eccesso.
Prendete una padella antiaderente munita di coperchio di vetro, scaldatela senza olio o grassi di sorta, e quando è bella rovente con santa pazienza metteteci man mano le strisce di cucuzza, facendole cuocere da una parte e dall'altra calcolando una trentina di secondi per lato e facendo attenzione che non si attacchino (vi aiuterà il fedele cucchiaio di legno).
Man mano che son pronte, mettetele in una scodella, e spruzzatele di olio. Quando avrete terminato le cucuzze aggiungete una puntina di odori graditi (a me piace l'origano, ma anche i semi di finocchiella ci stanno bene assai), date una bella mescolata, coprite con un piatto e lasciate raffreddare.
Sono ottime per accompagnare del semplice riso lesso condito con un filo d'olio e una punta di salsa di soya, del petto di pollo alla griglia o in padella, oppure un bel merluzzetto lessato in acqua addizionata con un po' di pepe e una fogliolina d'alloro.
Scommetto che sono ottime anche con l'Alka Selzer, combinazione che testerò stasera.
Così magari evito di sognarmi, come stanotte, che dovevo prendere la maturità scientifica visto che la mia laurea in lettere a fini lavorativi non serviva a niente.
Il che è vero anche nella realtà.
Ma questo, come sempre, fra parentesi.
Se rinasco, faccio l'idraulico.
Per intanto, vado a caccia di un po' di idraulico liquido. E speriamo che sciolga la replica 1:1 di Ayers Rock.

martedì 6 ottobre 2009

Sfigato ad ogni costo: Vasco Rossi vs. Radiohead

Conoscete i Radiohead?
Sì?
Buon per voi. Eccellente band. Certe volte eccede in lagna, ma ha fatto alcuni pezzi memorabili.
Non li conoscete?
Peggio per voi. Oppure no, dipende. Perché almeno non correte il rischio di uno choc anafilattico come è successo a me domenica.
Scenario, il supermercato vicino casa, dove in fretta e furia e completamente rimbambita dalla consueta sonnolenza del finesettimana ho fatto quel po' di spesa che occorreva.
Mentre ero alla cassa, fra le nebbie della cecagna si è fatta strada una melodia, trasmessa a educato volume dalla radio del discount stesso: bella musica, mi pareva mi fosse nota, ma non ne ero certa. Ho appizzato le orecchie. Toh, sembra Creep dei Radiohead, ma il ritmo me lo ricordavo diverso.
Poi è partito il cantato.
E lì mi sono svegliata.
Uno, perché la voce non era quella di Thom Yorke, bensì di qualcuno che sembrava aver pasteggiato da sempre a Blu Sgorgatutto.
Due, perché il testo era in italiano. Ed era una vera perla.
"Guarda che lo so/ che gli occhi che hai/ non sono sinceri/ sinceri mai/ già da quando ti svegli/ nanana/ tanto è lo stesso/ soffro anche spesso/ Ma sono qui/ amo dirtelo/ voglio restare insieme a te/ ad ogni costo/ ad ogni costo".
La cassiera, perplessa probabilmente causa il mio sguardo vetrificato, mi ha chiesto se ci fosse qualcosa che non andava.
Sì, c'era qualcosa che non andava. Vabbè che le radio dei discount proliferano di fondi di magazzino che tanto non ascolta nessuno, ma la cover di Creep in stile spaghetti-ballad, perdipiù cantata da uno che non verrebbe accettato manco nel coro della bocciofila, è davvero troppo anche per le radio dei discount. Che poi, mi son chiesta, ma chi è il demente che sceglie di fare una versione di Creep in lingua nostrana?
L'ho scoperto ieri.
Il demente è quel rocker di Zocca, provincia di Modena, che in Italia riempie stadi di pubblico adorante, e altrove al nominarlo causa sguardi basiti.
Lo avrei dovuto capire dal "nanana".
Non che io abbia nulla contro Vasco Rossi. C'è di gran lunga di peggio, altroché. Quando era giovine e sfoggiava lunghe chiome senza il bisogno di nascondere la chierica con il cappellino ha scritto un paio di autentici gioielli del pop-rock autarchico (delizioso il simil-reggae sbilenco di Vado al massimo in cui prendeva per i fondelli l'insopportabile Nantas Salvalaggio, "quel tale che scrive sul giornale"), e anche in anni più recenti ha proposto canzoni notevoli come Sally, che mostrano capacità compositive di autentico pregio nell'ambito della musica mainstream.
Proprio per questo considero tante delle sue canzoni più celebri delle occasioni sprecate se va bene, delle dimostrazioni di pigrizia furbesca se voglio pensare male (basti citare la terrificante Bollicine, che il mio collega Dario, con la sua perfetta sobrietà, mi suggerì di ascoltare dopo Sally come antidoto alla commozione).
E proprio per questo non gli perdono Ad ogni costo che, fra le cover che i cantanti dello Stivale ci hanno elargito, è appena un pelo più su della inarrivabile E chi se ne frega di Masini (per la quale spero sempre che i Metallica prima o poi affoghino in Arno lo straccianote gigliato, ma questo en passant).
Con ciò sono consapevole di essermi attirata le ire funeste dei fans del Blasco - pardon, il Komandante, come mi è stato detto vien chiamato adesso. I quali fans, a vedere i commenti che postano su Youtube a difesa del loro idolo per la temibile versione di Creep (si va da "Vasco è una fede" a "l'originale dei Radiohead non vale niente e in Italia non li conosce nessuno, devo ringraziare Vasco se qualcuno se li fila"), non sembrano particolarmente portati a mettere in discussione una scelta che, non solo a mio giudizio, discutibile lo è stata a dire poco. Sostengono anzi che la cover è uno splendido omaggio, una scelta coraggiosa, e che i Radiohead abbiano dato il loro consenso e si siano detti entusiasti del risultato.
Ora, a me risulta che il catalogo dei Radiohead e i suoi diritti li detenga la Emi, che se non sbaglio è pure la casa discografica di Vasco Rossi.
Pertanto, è molto probabile che Yorke e compagnia siano stati bellamente doppiati perché del loro consenso non c'era bisogno.
Consenso che dubito sarebbe arrivato se avessero potuto sentire un adattamento che musicalmente tramuta una composizione secca, tagliente e basata su quattro-accordi-quattro in una ipertrofica ballatona in stile REO Speedwagon (il tutto senza cambiare di un pelo l'arrangiamento: che dire, chapeau), e per quanto riguarda il testo trasforma un inno all'alienazione che vive chi è creep - traducibile più o meno con "sfigato" - nella solita, stracotta canzone d'amore all'italiana. Per fare un paragone basta fare una traduzione, seppur abborracciata, della prima strofa e del ritornello originali: "Mentre eri qui /non riuscivo a guardarti negli occhi/ sei uguale a un angelo/ la tua pelle mi commuove/Lieve come una piuma/ in un mondo bellissimo/sei così speciale/vorrei esserlo anch'io/Ma sono uno sfigato/Sono un balordo/Che diavolo ci faccio qui/Non è questo il mio posto..."
Ve la immaginate la faccia di Thom Yorke di fronte a "tanto è lo stesso/ soffro anche spesso"?
Più o meno questa, credo.
Vasco Rossi mi dicono sia in tour, o stia programmando l'ennesimo. Sono persuasa che non mancherà di proporre al pubblico in visibilio anche Ad ogni costo.
Con cui è riuscito a trasformare una delle più belle canzoni degli ultimi anni in una ciufega vergognosa.
Il che, volendo, ha una sua logica.
Più creep di così, infatti, non si può.

lunedì 5 ottobre 2009

Riso freddo di LP

Gli ingegneri, soprattutto quelli informatici, non sono particolarmente noti per essere dei draghi ai fornelli.
Anzi, in franchezza sono perlopiù disastrosi.
Vi sono ovviamente delle eccezioni fra coloro che conosco. Ad esempio Dottor P, che fra un esame e l'altro si rilassa facendo gnocchi, fettuccine o pizza sbattuta, oppure Garfield, che alla casa dello studente ove risiedeva quand'era matricola veniva definito dalle signore delle pulizie "quello dei manicaretti".
Il mio amato bene non rientra fra le succitate eccezioni. Sarà perché a casa sua, ogniqualvolta faceva timidamente il gesto di avvicinarsi a pentole e padelle, trovava uno sbarramento da fare invidia alle mura ciclopiche erette dai miei sanniti.
Va detto che però la buona volontà non gli manca, e che da quando alberghiamo sotto lo stesso tetto me lo trovo più che spesso spalla a spalla mentre sto litigando con la cipolla da tritare o con la pietanza di turno che borbotta sul gas. E benché ancora non osi cimentarsi con le quattro ricette che compongono il mio smilzo repertorio, non manca ora di propormi migliorie o ingredienti per dare that special kick alla cena serale.
Questo piatto è frutto della sua manodopera e dei suoi suggerimenti, per cui mi par giusto postarlo a suo nome. I cuochi provetti osserveranno forse che Escoffier arriccerebbe il nasino, ma per un ingegnere informatico medio è un autentico capolavoro di nouvelle cuisine. Ed è pure buono e veloce da fare, il che esprime ottimamente la tendenza ingegneristica a ottenere il massimo risultato con il minimo dispendio di energie.

Ingredienti:
200 grammi di riso (rigorosamente parboiled: sia perché è ideale per fare qualunque riso freddo, sia perché non c'è il rischio che si tramuti in colla vista la nota tendenza degli ingegneri ad allontanarsi dai fornelli per sgranchire i neuroni dimostrando, non so, il teorema di Ford-Fulkerson, e perdersi per ore nella citata dimostrazione)
tre o quattro pomodori San Marzano
due wurstel di pollo belli cicciotti
qualche pomodoro secco sott'olio
un par di cucchiai d'olio, presi ovviamente dal barattolo dei pomodori secchi (l'ingegnere è maestro nella fine arte del non buttare via niente)
una spruzzata di origano
foglioline di basilico

Preparazione (ad usum informatici):
mettete il riso in una pentola antiaderente con il doppio della quantità d'acqua rispetto al suo peso, salate leggermente e fate cuocere a pentola coperta fino a quando l'acqua non si è assorbita (consiglio: vabbé che il parboiled non scuoce, ma per una decina di minuti sorvegliate la cottura anziché dedicarvi a Ford-Fulkerson sennò rischiate di ritrovarvi con una simpatica mattonella di carboidrato al carbone). Avvenuto ciò, passate il riso sotto l'acqua fredda e scolatelo bene con un colino a trama fitta, poidiché lasciate raffreddare.
Nel frattempo preparate il resto: affettate i wurstel a rondelle sottili, spezzettate i pomodori secchi aiutandovi con un coltello affilato il giusto (e non vi mettete a pensare al test di Turing durante l'operazione se non volete ritrovarvi con la metà delle falangi prescritte), tagliate i pomodori freschi a tocchetti avendo cura di eliminare i semi, fate a striscioline le foglie di basilico e mettete il tutto a riposare per una mezz'oretta in una ciotola assieme al paio di cucchiai d'olio e alla spruzzata di origano.
Nella mezz'oretta, dedicatevi finalmente alla dimostrazione del teorema di Ford Fulkerson. Se siete veloci, dilettatevi pure con l'algoritmo di Dijkstra. Oppure mettetevi davanti allo specchio e ripetete con aria compiaciuta "le equazioni differenziali sono roba da matematici, un ingegnere non ci perde tempo e le trasforma in equazioni ordinarie!", o qualunque altra frase sia utile a fortificare il vostro ego.
Quindi tornate in cucina, e senza la goffaggine tipica dell'ingegnere incorporate il condimento nel riso, un cucchiaio alla volta, girando con movimenti dal basso verso l'alto.
Se vi sentite in vena di smancerie, mettete al centro del piatto un po' di foglioline di basilico e un pezzettino di pomodoro a mo' di decorazione.
Altrimenti siate ingegneri fino in fondo e portate in tavola così com'è.
Chi vive con voi vi sarà grato comunque, e mangerà con lieto appetito.
Alla faccia di Ford-Fulkerson.

domenica 4 ottobre 2009

"We are the engineers, you will be assimilated"

Io ho studiato lettere.
Il mio amato bene è un ingegnere.
In teoria, non vi potrebbe essere combinazione più infelice.
In realtà non è esattamente così, perché essendo entrambi dei geek non mancano elementi di contatto.
Per cui, la differenza di formazione e soprattutto di forma mentis non mi ha mai preoccupato più che tanto.
Ma avrei dovuto dar retta a una saggia persona che, quando seppe che mi ero messa con un ingegnere, mi guardò con la faccia che deve aver avuto qualunque mamma di emigrante quando il figlio le ha detto che stava andando in America.
"E' fatta. Ti abbiamo perso."
"Eh?"
"Ingegnere."
"E allora?"
"Ingegneria è una brutta bestia. E' contagiosa. Tempo qualche mese e non sarai più tu."
"Non dire fesserie. A me le scienze dure hanno sempre fatto ribrezzo. Basta una divisione a due cifre a farmi venire l'ansia!"
"Vedrai..."
Se c'è una cosa che odio è quando qualcuno mi dice "vedrai..." con aria comprensiva e con tanto di tre puntini.
Pertanto ho liquidato la cosa con una scrollata di spalle.
E non ho mancato di farmi beffe dell'amato bene ogniqualvolta mostrava le sue temibili defaillance ingegneristiche, ad esempio conservando manuali di quella che lui definisce "epoca predigitale" manco fossero i gioielli della corona perché fosse mai dovessero ancora servire (per intanto servono a occupare chilometri cubi di spazio nella sua libreria), manifestando l'intenzione di costruire un anemometro impiegando le confezioni che racchiudono le sorprese dell'ovetto Kinder o calcolando metro alla mano lo spazio necessario a sistemare i peluche sopra il comò.
Poi ho cominciato a notare alcune cose nel mio comportamento. Ovvero, mi sono state fatte notare. Perché il brutto dell'ingegneria è proprio questo: è un virus insidioso, e ti assimila senza che tu te ne accorga. Manco se sei di lettere.
Di esempi ne ho a bizzeffe. Fra tanti, il fatto che abbia iniziato a calcolare lo spreco d'acqua potabile ogni volta che si aziona lo sciacquone del bagno (20 litri per uno scarico normale, 10 per quello ridotto), oppure che ultimamente abbia manifestato il mio spregio per i computer Apple in quanto, giacché offrono all'utilizzatore finale - ahem - la pappa già pronta, rendono l'utenza pigra e incapace di stare a galla in un bicchiere d'acqua. O la recente tendenza a stoccare lo scatolame nella dispensa in base a dimensione, tipologia, data di scadenza. O che abbia ordinato una biografia di Alan Turing, che per chi non lo sapesse è considerato il santo martire protettore degli informatici.
Ma queste son bazzecole. Le fa chiunque. Anche quelli di lettere. Credo.
Ciò che mi ha dato la misura di aver raggiunto the point of no return è stata la conversazione che ho sostenuto qualche minuto fa sotto casa con l'amato bene e il suo amico Marco (noto come Marco DB, le quali lettere sono le iniziali del suo cognome ma stanno anche per DataBase: come dire, cognomen omen). Per inciso, si stava parlando di università, e del fatto che a tutto serva tranne che a imparare un mestiere. Ingegneria informatica in particolare, ça va sans dire, in base alla mia umile opinione, visto che conosco fior di informatici che le aule di qualsivoglia alma mater le hanno viste giusto in fotografia.
E a quel punto è arrivato il colpo di maglio, gentile omaggio del mio amato bene.
"Tesoro, tu oramai ragioni come un ingegnere."
"Chi, io? Ma quando mai!"
"Ti ho sentita oggi, mentre parlavi con tua zia. Dicevi che abbiamo sostituito il televisore, e che non sopportavi di tenere quello vecchio a prendere polvere da qualche parte visto che ancora funziona. Questo è ragionare da ingegnere."
"Questo a casa mia si chiama piatto buon senso!"
"Ma dai... Da quando stai con me hai pure imparato a fare la valigia!"
"Io la valigia la sapevo fare già prima di conoscerti!"
"Tesoro... Quella di tua madre..."
"Anche a mettere le cose in valigia ci vuole semplicemente buonsenso! Basta calcolare lo spazio di stoccaggio! Io ad esempio ho delle valigie minuscole perché metto il minimo indispensabile e il resto, semmai, lo compero se mi serve! Mica è colpa mia se mia madre pretende di portarsi in viaggio il 70% in più di quello che effettivamente le serve! Ma basta organizzare gli spazi, e anche quel 70% in più ci entra, tutto lì."
Marco DB: "Minimo indispensabile? Il 70% in più? Organizzazione degli spazi di stoccaggio? Anche questo è ragionare da ingegnere..."
Panico. Silenzio raggelato.
L'amato bene ne ha approfittato per assestare la mazzata finale.
"Visto? E poi da quando stai con me hai pure imparato a usare Excel!"
Un pochino.
Excel lo so usare soltanto un pochino.
Ma non ho avuto la forza di dirlo.
Perché davanti a me ho visto i Borg, quelli di Star Trek.
Io non ho mai visto una puntata di Star Trek, ma nonostante ciò so chi sono i Borg. Me lo deve avere detto un ingegnere durante il sonno.
"Siamo i Borg, sarete assimilati."
Ogni resistenza è inutile.
Nonostante le divisioni a due cifre mi facciano venire l'ansia, sono un ingegnere onorario.
Da Natale, nemmeno le operazioni di calcolo saranno più un problema: l'amato bene ha promesso che mi regala i bastoncini di Nepero, che sono anche un bell'oggetto d'arredamento e molto pratici da portare nello zainetto.
Però ha manifestato anche l'intenzione di regalarmi un triceratopo di peluche, ovviamente basato sulla più precisa ricostruzione della simpatica bestiola del Cretaceo. E se gli dimostro di saper padroneggiare l'identità di Eulero, magari ci aggiunge anche il peluche di un cucciolo di T-Rex.
Non mi posso davvero lamentare.
Non ci pensiamo.
Anzi, sai che c'è? Cantiamoci su.
"La macchina di Turing, ha un buco nella gomma, la macchina di Turing, ha un buco nella gomma..."
Paperblog