domenica 20 marzo 2011

Caveciune (ravioli fritti ripieni di ceci)

Questa ricetta, lo dedurrete dal ripieno, è un dolce contadino di origine secolare.

Da noi, come saprà chi dei miei ventiquattro lettori ha avuto occasione l'anno scorso di leggere la descrizione della festa di san Giuseppe al mio paese, si fanno per l'appunto in occasione della ricorrenza del santo falegname.

Ricorrenza a cui quest'anno avevo tutta l'intenzione di partecipare. C'erano tutte le condizioni per farlo, visto che cadeva in corrispondenza del ponte, ed erano mesi che mi preparavo giuliva. Peccato che la legge di Murphy abbia ben pensato di dire la sua sotto forma di uno di quei bei raffreddori di fine inverno. Cui, per gradire, si è sommata la schiena che ha fatto cilecca.
Sicché, anziché un bel viaggetto in quel del paesello (il quale viaggetto, mi è stato riferito, sarebbe stato funestato dal fatto che il trenino spolmonato sulla linea Urbe-Sannio ha fatto cilecca peggio della mia schiena: ma questo fra parentesi), mi son goduta quattro giorni in puro stile lazzaretto. E prima o poi qualcuno mi dovrà spiegare perché nove volte su dieci mi ammalo in corrispondenza delle ferie, ma pure questo fra parentesi, e fine della geremiade.

Se non altro, mi sono goduta i piatti tipici della festa grazie alla zia Lella: maccarun' c'a meglìche, pezzènd, sc'rpèll e non da ultimo i caveciune. Questi ultimi li ho fatti con la gentile collaborazione della zia lo scorso weekend in un momento di rara libertà, per fare in modo che pure i miei potessero gustarseli, se non nella data canonica, almeno a ridosso: è infatti una di quelle pietanze che se si fanno in almeno due persone è meglio, giacché la preparazione se non è lunga una quaresima poco ci manca. Visto che il viaggio al paese almeno a questo giro è andato giù per il secchio, è stata occasione perché li gustassimo pure io e l'amato bene. Ed è stata consolazione non magra: perché i caveciune sono buoni da non dirsi.

La ricetta che vi propongo è quella della mia famiglia, e tradisce le sue origini borghesi nell'impiego del cacao: quelli contadini, ovviamente, non lo prevedevano causa i costi proibitivi dello stesso. Va detto che un purista ad assaggiare quelli che escono oggi dalle cucine del mio paese verrebbe colto da catalessi: causa il benessere seguito al boom economico il ripieno prevede ora, a seconda dei casi e dei gusti, l'aggiunta di noci, nocciole, mosto cotto, cioccolato fondente e cioccolato bianco (ingrediente, quest'ultimo, da far venire la catalessi anche a chi non sia purista). Personalmente ritengo che miele e cacao bastino e soperchino per arricchire i ceci, pertanto la ricetta della mia nonnina resta a mio avviso insuperabile: e chi arriccia il naso al pensiero di mangiare un dolce ripieno di legumi, sia pronto a stupirsi.

Ingredienti:
300 grammi di farina
4 cucchiai di olio
2 cucchiai di olio
una tazzina da caffè scarsa di vino bianco
acqua tiepida quanto basta
olio di semi per friggere
500 grammi di ceci da lessare
un cucchiaio di cacao amaro
un cucchiaio colmo di miele

Preparazione:
per iniziare mettete a bagno i ceci col solito pizzico di bicarbonato, lasciateli ammollo una notte intera, quindi lavateli per bene sotto l'acqua corrente e metteteli a lessare (se disponete di una pentola a pressione usatela, ché vi risparmierà di tempo e di bolletta) fino a quando non sono ben cotti. Qualcuno osserverà che impiegare i ceci in lattina accorcerebbe di gran lunga la preparazione, ma le mie zie gli farebbero giustamente gli occhiacchi, giacché i legumi già cotti sono gustosi quanto il polistirolo: armatevi di santa pazienza e seguite il metodo classico.

Cotti i ceci, s'ha da ridurli in crema: e allo scopo una volta tanto non vi suggerisco l'amato frullatore a immersione, bensì il setaccio o meglio ancora il passaverdura. In tal modo eliminerete le bucce dei legumi (operazione che, vi avverto, tramuta anche il più educato in un camallo genovese e produce una quantità inverosimile di scarto), ottenendo un passato che vi permetterà di incorporare il miele e il cacao senza problemi.
Alla fine, la crema di ceci doverosamente addizionata dovrà essere cremosa ma bella compatta, come da foto: lasciatela riposare e dedicatevi alla preparazione della pasta.
Mettete la farina a fontana con all'interno l'uovo, l'olio, il vino e l'acqua tiepida e attaccate a impastare con gagliardìa. Quando sentite che la pasta è liscia ed elastica potete smettere di manipolarla: prendete un coltello e dal panetto tagliate via man mano delle fette per stendere la sfoglia, provvedendo ad appiattirle prima di andare all'attacco, a seconda della perizia e dell'abitudine, o con il matterello o con l'apposita macchinetta (in questo secondo caso partite dal primo buco, passate poi al secondo e da ultimo impiegate il quinto).
Stesa la sfoglia (che dovrà essere spessa un millimetro) tagliatela in tanti quadrotti di circa dieci centimetri di lato, tirate lievemente la pasta per allargarla appena badando bene a non romperla, quindi poggiate al centro un cucchiaino di ripieno.
Il procedimento è tal quale quello per fare i ravioli: ripiegate il lato inferiore sul ripieno e saldate quindi entrambi i lati premendo delicatamente con le dita.
In ultimo rifilate con la rotella tagliapasta, e se volete essere sicuri che il ripieno non scappi via al momento della frittura pressate con la parte piatta della stessa intorno ai bordi. Voilà!
Dopo tanto faticare è arrivato il momento della frittura: e per non perdere il tempo e il ritmo, è santa cosa se qualcuno vi si dedica man mano che voi approntate i caveciune. Detta frittura è meglio farla con olio di semi anziché di oliva, o i dolci vi verranno leggeri come i sassi che costellano il letto del torrente Cigno.
Per far sì che la cottura venga a puntino impiegate una pentola e non la solita padella, in modo che il caveciune al momento del tuffo si trovi completamente immerso: quando salirà su bello panciuto, rigirandosi stile cetaceo in vena di giocare e dorato come una giornata estiva, è pronto per essere preso con la schiumarola (attenzione allo schizzo in agguato) e deposto su un bel letto di carta assorbente.
Con le dosi prescritte vi verranno una quarantina di caveciune, quantità che non basterebbe mai a sopperire alle esigenze di chi prepara la tavola di San Giuseppe ma che sarà più che sufficiente nel caso vogliate proporli come dessert a una bella tavolata di amici per coronare una cena tipica.

Avrete il duplice piacere di un applauso, e di una pletora di facce basite quando rivelerete l'ingrediente principale di quel dolce così gustoso.

giovedì 17 marzo 2011

Non è la storia, è colui che la racconta: Gran Torino di Clint Eastwood

"E' la storia, non colui che la racconta".

Chi ama Stephen King ha riconosciuto uno dei suoi aforismi più famosi. Sa anche che si trova in uno dei suoi racconti più belli, che è anche una delle più belle storie di coming of age (ovvero il momento che segna il passaggio dall'infanzia all'età adulta) che personalmente abbia letto.

E' un principio che può essere più o meno valido. Una buona storia può catturare l'interesse anche se chi la narra non vale granché. Ma va da sé che se il narratore sa il fatto suo, avrà la completa attenzione di chi lo ascolta. E se, dote rara, sa davvero il fatto suo, la avrà anche se la storia, benché buona, non dice nulla che l'uditore non sappia già.

Clint Eastwood è un narratore che sa davvero il fatto suo. Lo ha dimostrato infinite volte. Chi volesse averne la riprova, la avrà con Gran Torino. Che considerando il ritmo con cui film, libri e quant'altro vengo prodotti e digeriti dal mercato, è ormai vetusto: è uscito nel 2008. Ma l'anno di produzione non conta, perché si tratta di un classico nel più puro senso della parola. Un classico che ha il contempo il pregio di essere atipico: è un film che racconta una storia, e la racconta dall'inizio alla fine.

La storia in sé è già nota. Il protagonista è un uomo anziano e burbero, afflitto da due figli della consistenza di un budino e da nipoti adolescenti che sono la quintessenza della stupidità più gretta e modaiola. Morta la moglie, si ritrova unico bianco o giù di lì in un quartiere che pullula di immigrati. Immigrati che lui chiama con garbo swamp rats (letteralmente "pantegane di palude", ma si potrebbe rendere in maniera assai meno gentile), visto che, oltre a essere anziano e burbero, Walt Kowalski è anche la quintessenza del più retrivo americano medio: praticello di un metro quadro perfettamente rasato, fucile di precisione in casa, ghiacciaia colma di lattine di birra sulla veranda che è, ça va sans dire, adorna di una bandiera a stelle e strisce formato lenzuolo.
Il fatto che sia un reduce della guerra di Corea non contribuisce a renderlo ben disposto nei confronti dei vicini, musi gialli di provenienza ignota che hanno pure il cattivo gusto di celebrare con gran dispendio di festa e folla un battesimo nel mentre che a casa sua si sta tenendo il rinfresco dopo il funerale dell'amata consorte. E che uno dei musi gialli, un ragazzo adolescente scarso a spina dorsale e fin troppo prono a farsi sviare da un cugino gangster d'accatto, tenti di rubargli la sua Ford Gran Torino, lo rende ancor meno ben disposto.

Con questi presupposti, lo spettatore smaliziato fa presto a fare due più due: scommette, e sa di vincere in partenza, che fra il vecchio americano flessibile quanto il marmo e i suoi vicini asiatici si instaurerà una relazione. Sa pure che nel percorso non mancheranno intoppi di vario genere. E sa che alla fine il tutto sarà di beneficio e crescita per entrambe le parti. Ma nonostante sappia, quella storia la vuole sentire e vedere: perché chi la racconta è un narratore eccezionale. E come tutti i narratori eccezionali, sa sorprendere.

Fra i pregi di Eastwood c'è il sapersi affidare a compagni di viaggio sperimentati, saper riconoscere del materiale valido, saperlo trattare. La sceneggiatura lo aiuta: i dialoghi non hanno un momento di stanca. Non c'è bisogno di saltare avanti e indietro a suon di flashback, né di indulgere in colpi di scena: una comunissima fetta di vita è sufficiente a sostenere il tutto, e lo è anche perché, essendo comunissima, è paradigmatica. Gli attori sono solidi. La fotografia ha un nitore documentaristico, la musica c'è quando ci vuole. Ogni dettaglio ha il suo peso, e contribuisce a dar peso alla storia. E nonostante ormai anche un bimbo si ritrovi ingozzato di postmodernismo da ogni parte con il risultato di trovare tutto già visto, trito e per questo persino ridicolo ("Si può dire 'Era una bella mattina di fine novembre' senza sentirsi Snoopy?", osservò una volta qualcuno), Eastwood ha pure il coraggio di impiegare i cliché. E li impiega così bene che non sono più cliché: tornano ad essere archetipi.

Altrettanto archetipica è la funzione dei valori all'interno della trama (di cui non dirò niente, perché va bene che la storia è intuibile, ma rivelarla sarebbe pura cattiveria). Credo che ci siano poche cose più soggette a sfottò dei valori: non a torto, visto che è da quando è nato il mondo che se ne parla giusto per dare una risibile patina di decoro a una realtà lercia quanto una sentina. Ma come disse un regista che non potrei immaginare più lontano da Eastwood, "fare i cinici è molto facile". La vera scommessa per un narratore è evitare il cinismo senza cadere nella stucchevolezza. Eastwood ha un equilibrio invidiabile, tanto più evidente quanto meno si vedono sullo schermo i modi con cui lo raggiunge. E riesce a trasmettere senza alcuna sdolcinatezza il valore di una famiglia i cui membri si vogliono bene, dei risultati ottenuti attraverso il duro lavoro, del rispetto di sé e degli altri, di un amore così forte da durare anche dopo che morte separa.

Sono cose che al naso di qualcuno puzzano di conservatorismo. Il conservatorismo è stato spesso rimproverato a Clint Eastwood, e per i personaggi interpretati e per alcuni film che ha diretto. Personalmente, la ritengo una fesseria. Basta vedere il ruolo che nelle sue opere da regista hanno le donne. Gran Torino non fa eccezione, se si escludono la nipote avida e imbecille e la sua altrettanto avida e imbecille madre: la giovane Sue, vera coprotagonista del film e la sola capace di tener testa a Kowalski grazie a una lingua tagliente e a un cervello che lo è ancora di più, la sua rocciosa nonna che scambia con il rigido vicino eloquenti dialoghi a suon di occhiate, le numerose comprimarie che crescono piccoli delle più varie età e imbandiscono al protagonista manicaretti meravigliosi sono tutti tasselli di un'unica immagine di donna come individuo capace di pensare, decidere, procreare, nutrire, potente e ricco di significato a qualunque età.
Individui a confronto dei quali i maschi fanno una figura ben meschina: a parte casi rarissimi sono o amebe di aspetto e di fatto, o amebe truccate da delinquenti dotati di pistole ma privi di palle, in grado di imporsi solo con la violenza. Considerato attore e regista virile per eccellenza, Eastwood dedica all'universo femminile gran parte dell'attenzione: lo fa con prospettiva da uomo, ma è capace di cogliere aspetti che non tutti gli uomini sanno cogliere. E a volte, manco le donne.

In tutto questo, l'attore e regista è l'anima del film: espressione abusata, ma mai vera come in questo caso. Clint Eastwood è da tempo un'icona, ma nonostante ciò è capace di dare corpo in maniera credibile al protagonista e alla sua interazione con gli altri personaggi (delle donne ho già detto, degli uomini non dico perché se c'è un simbolo per eccellenza del buddy movie è lui). Si sa che è noto per avere due espressioni, ovvero una quando gli manca il cappello: e nessuno come lui riesce a trasmettere le emozioni più diverse con un battito di palpebra, un cenno della testa o semplicemente fissando lo sguardo. Tanto più esprime il movimento del corpo, la postura delle spalle, la camminata decisa e appena sbilenca da vecchio solido. Esatto opposto di un istrione, Eastwood è uno di quei rari attori che nel tempo hanno raffinato l'arte di ottenere il massimo risultato con la massima economia. E' banale osservare che è un piacere guardarlo, ma è vero: è un piacere guardarlo.

E' un piacere anche vedere il film, in tutto il suo dipanarsi verso una fine che è nota. E che però stupisce, e stupirà tanto più chi ha in mente Eastwood nel suo ruolo primigenio di giustiziere. Il finale vi allude, e allo stesso tempo lo risolve. Non vi dico come. Perché lo ripeto, se non avete visto Gran Torino, lo dovete vedere. E' uno di quei film che fanno bene al cuore.

Fa bene al cuore perché, oltre al piacere di guardare un'opera fatta con maestria e cognizione di causa, restituisce il piacere del coinvolgimento senza distanza, e senza sentirsi stupidi perché si è coinvolti.

Forse anche per il momento in cui l'ho visto, Gran Torino mi ha fatto pensare al mio paese. Non solo perché Eastwood è il simbolo per eccellenza di uno dei filoni più riusciti del cinema italiano, e non solo perché l'auto che dà il titolo al film è fin dal nome un omaggio alla città che, oltre ad essere il cuore dell'industria, fu la prima capitale.

Mi ci ha fatto pensare, magari confusamente, per diversi motivi, e per mero paragone. Forse perché Walt Kowalski, maschio bianco americano medio con la bandiera fuori di casa e le armi dentro e perfettamente conscio di chi e cosa è, riesce comunque a entrare in contatto con ciò che è diverso e per certi versi opposto (l'altro da sé, direbbero i miei amici più colti), che si tratti di stranieri o di giovani. Nel farlo, è capace di individuarne i punti comuni e quelli non comuni, ma che sono validi, e quindi da far propri. Riesce quindi a ridefinire il sé senza perdere identità, anzi arricchendola.

La capacità di entrare in contatto con l'altro da sé non sembra una delle caratteristiche del mio paese.
Da quel poco che ho studiato, la capacità di farlo deriva dal fatto di avere un'identità solida e definita.
Chissà perché, mi viene in mente quella famosa frase attribuita a Metternich.

Buon centocinquantenario.

martedì 8 marzo 2011

Martedì Grasso: migliaccio di Carnevale

Questo dolce carnevalesco è parecchio antico: il nome deriva infatti da miliaceus, una torta a base di farina di miglio parte dello sparuto ricettario dolciario dei Romani. Ma la mia patria di adozione non c'entra nulla con la scelta di prepararlo. Men che meno c'entra il mio paese di origine: il migliaccio è sì sannita, ma del Beneventano. E' entrato però nel patrimonio familiare da qualche anno a questa parte. O farei meglio a dire rientrato, dopo un'assenza durata più o meno centotrent'anni. Tanti ce ne sono infatti voluti perché la parte di famiglia che risiede in quel borgo frentano di cui declamo le beltà ogni tre per due rientrasse in contatto con la parte originaria.

Del paese d'origine del mio trisavolo ho sentito parlare molte volte durante l'infanzia, e anche dopo. Appena diciottenne, il mio avo era partito col fratello sedicenne percorrendo in carretto la strada che dal Sannio profondo puntava verso il mare. In un baule c'erano ancora le pistole corrose dalla ruggine che si erano portati per difendersi dai malviventi. Per un certo periodo avevano conservato rapporti affettuosi con la famiglia d'origine, ma non erano più tornati indietro. E dopo la loro morte e la guerra, il legame si era interrotto. Mio nonno aveva detto più volte che sarebbe voluto andare sul posto e cercare eventuali familiari ancora vivi, ma non ci era riuscito.
Più passava il tempo, più il paese assumeva la sfumatura fantastica della Macondo di Marquez. E nessuno sembrava sapere dove fosse esattamente.

Una bella mattina d'estate mio padre smese di bere il caffè a metà tazzina e guardò mia zia Margherita.
"Per la miseria. So' iute a' Mereca, n'a Finlandia, me ce manghe sule 'a Cina e 'u Giappone. Ma ti pare possibile che non ho mai visto il paese di mio nonno? Sta pure sulla statale dove è il nostro. Mò mi organizzo."

Si organizzò con mia madre, mio cugino Antonio e lo zio Michelino, e si scoprì così che il paese c'era.
C'era pure la famiglia. Con un cognome diverso, perché l'unica a sposarsi era stata una sorella del trisnonno. Ma c'era. Telefonarono. Rispose Raffaellina. Nome di famiglia. E quando capì con chi stava parlando, per l'emozione le sparì la voce.
Non era la sola a essere emozionata.

Mi sono emozionata anche io quando sono andata al paese, qualche tempo dopo, a conoscere i parenti ritrovati. L'abitato così simile a quello del mio borgo, ma sovrastato dalla figura massiccia della montagna, che copriva tutto lo sguardo quando si usciva da quella porta che il mio trisavolo aveva varcato per non tornare. E il tremito a constatare le burle delle leggi genetiche, con Raffaellina identica nella figura a zia Margherita, ma con gli occhi e i tratti di zia Maria. E ben più di un tremito nel trovarsi di fronte gli stessi occhi celesti e gli stessi corposi, lunghissimi capelli biondi della sorella di mio nonno, morta a vent'anni prima della Grande Guerra e vista solo in fotografia, in una florida ragazzina novenne dallo sguardo serio.

A quella visita è collegato anche un ricordo gastronomico. Il migliaccio, per l'appunto. Preparato meravigliosamente dalla moglie del capofamiglia, Vittoria. La ricetta è sua, e l'ho seguita fedelmente. Il suo aveva una meravigliosa superficie bruna e compatta, e odorava di primavera. Il mio è venuto crepato come un campo riarso dalla più feroce calura estiva, ma la bontà era quasi pari a quella del capolavoro dolciario della zia. Nel caso vogliate festeggiare l'ultimo giorno di Carnevale all'insegna della tradizione sannita, ecco come approntarlo.

Ingredienti:
125 grammi di semolino
500 grammi di ricotta di mucca
tre quarti di litro di latte intero
250 grammi di zucchero
1 bustina di vaniglia
3 uova
un cucchiaio di liquore Strega

Preparazione:
in primis scaldate a fuoco lento il latte addizionato con un pizzico di sale. Prima che inizi a bollire versateci a pioggia il semolino (onde evitare i grumi io mi sono aiutata con un colino) e mescolate continuamente con la fedele cucchiara di legno per evitare che si attacchi. In capo a breve vi accorgerete che il semolino si è bevuto tutto il latte, diventanto bello cremoso e giungendo a cottura: spegnete il fuoco, mettete da parte e lasciate raffreddare.
Nel mentre che il semolino si fredda acchiappate una capace scodella (mi raccomando: capace) e mescolate con l'aiuto di uno sbattitore elettrico tenuto al minimo la ricotta, lo zucchero, il liquore Strega, la vaniglia in polvere e, una alla volta, le uova intere.
Provvedete quindi a incorporare il semolino mescolando accuratamente con lo sbattitore: il composto dovrà risultare liscio, cremoso e assolutamente privo di grumi. Se non avete il frullino elettrico armatevi di santa pazienza con la fedele cucchiara, o meglio ancora con una frusta di fil di ferro: fino a che l'ultimo grumo non si è suicidato di fronte alla vostra pervicacia, non smettete di mescolare.

Fatto ciò è arrivato il momento di darsi del tu con la cottura: preriscaldate il forno a 160°, imburrate per bene una teglia rotonda che abbia un diametro di 24 centimetri (se avete la fortuna sfacciata di avere quella da pastiera impiegatela allo scopo) e versateci l’impasto, facendo attenzione perché risulterà alquanto liquido. Quindi lasciate andare la cottura per un'oretta almeno.
Dopo la succitata oretta la superficie della torta dovrebbe avere un bel colore bruno dorato. La mia, causa forno birbante che di far colorire la superficie di qualsivoglia cosa non ne vuole sapere, era pallida come una patata in cantina. Se pure voi avete un elettrodomestico maramaldo chiudete il gas, accendete il grill e lasciate che sia lui a colorire la torta. Si creerà un'appetitosa crosticina dovuta al caramellarsi della superficie, e pazienza se non è uniforme.

Fate quindi raffreddare il dolce in santa pace a temperatura ambiente per almeno un'ora: non fatevi prendere dalla tentazione di sformarlo prima, pena lo sbragamento dello stesso.

Io ho atteso religiosamente il tempo prescritto, l'ho rovesciato su apposito piatto e prima di ribaltarlo onde presentarlo a faccia in su ho avuto modo di constatare che il fondo era ben cotto, compatto e la colorazione giallo-dorata lo faceva sembra un disco solare. Essendosi crepata sì malamente la superficie ho ben pensato di servirlo così. Ho comunque ragione di credere che delle mie considerazioni estetiche non importasse un bel nulla a nessuno: il migliaccio è stato grandemente apprezzato da amato bene, genitori, zia e, come potete vedere, anche dalla gatta Gelsomina.Cottura a parte, per la preparazione del tutto sono necessari non più di venti minuti. Se pertanto siete fra quei fortunati che riescono a tornare a casa a un'orario decente e persino a fare la spesa prima che i negozi chiudano, avrete bell'agio di fare stasera una piacevole sorpresa a chi vi è caro e festeggiare degnamente il Carnevale.
Oggi, per inciso, sarebbe anche la Festa della Donna.
Ma io non mi sento molto in vena di festeggiare.
In primis, perché le donne nell'ultimo periodo non sembrano passarsela molto bene.
E non da ultimo, perché se questa ricorrenza diventa occasione per rimpinguare le casse dei fiorai, o delle pizzerie e discoteche dove il solito manipolo di schiave del tacco a spillo va a godersi il giorno di libera uscita dal fidanzato/marito con le amiche, il tutto senza che nessuna sappia niente di quelle povere operaie arse vive, e peggio ancora senza che ne voglia sapere niente, è una festa che con le donne non ha nulla a che fare.

Però, per quello che vale, rivolgo un augurio a tutte le donne, me inclusa. Ricordatevi che siete importanti 365 giorni l'anno, e 366 nei bisestili.
Meritiamo molto di più.
E le mimose le portassero al cimitero.
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