mercoledì 30 dicembre 2009

Lasagne in brodo

Quello che vedete qui sopra è un semplice rimasuglio: le lasagne in brodo si presentano assai meglio. Ma la misera porzione qui ritratta era il poco che era rimasto dopo che la famiglia intera al pranzo di Natale ha dato assalto alla teglia, e a malapena sono riuscita a scattare la foto sotto lo sguardo impaziente di mia sorella, con cui mi sono equamente spartita il succitato rimasuglio. Suscitando certamente l'invidia degli altri commensali, giacché le lasagne in brodo sono buone, ma buone davvero.
Al paesello è il piatto per eccellenza del 25 dicembre, e la ricetta si tramanda di generazione in generazione. La zia Maria e la zia Lella lo preparano seguendo rigorosamente i dettami della tradizione familiare, il che include ovviamente non impiegare le banalissime lasagne che si acquistano già pronte al supermercato ma farle da sé. E' ovvio che chi vuole può risparmiarsi almeno una parte della fatica (perché, mettetevi l'anima in pace, per preparare le lasagne in brodo ci vogliono due giorni), ma chiunque abbia provato le sfogliavelo Maria Iannucci vi dirà che non c'è paragone. Pertanto posto la ricetta punto per punto come la fanno ora le zie e prima di loro la nonna e la nonna della nonna, con l'unica differenza che oggi 'u callare lo si può mettere sul fornello anziché affumicarsi nel camino e si può impiegare la macchinetta per la pasta. Il che già fa la sua brava differenza.
La quantità è per dieci commensali, e se gli ingredienti vi paiono eccessivi sappiate che il bis sarà di rigore per qualunque buongustaio. Va da sé che, se anziché prepararle per il pranzo di Natale ammannirete le lasagne in brodo per quello di Capodanno, non si offende nessuno e anzi vi saranno tutti grati.

Ingredienti:
- per le lasagne
nove uova
circa un chilo di farina
un goccio d'acqua
- per il brodo
una gallina rigorosamente ruspante, privata della testa, delle zampe e delle interiora
prezzemolo
una carota
una cipolla
un pomodorino
sale quanto basta
- per le polpettine
due etti macinato di vitello
un pugno di parmigiano
un pugno di mollica di pane
un uovo
- per condire
tre etti abbondanti di scamorza passita morbida
un etto e mezzo di parmigiano

Preparazione:
anzitutto il giorno prima fate il brodo, che va preparato con calma e a ritmo lento come si confà a un brodo che voglia meritare questo nome.
Mettete la gallina in una pentola grande a sufficienza da contenerla comodamente, aggiungete acqua in modo che sia completamente ricoperta e fate bollire a fuoco medio-basso. Nel mentre che cuoce vedrete che sulla superficie si forma della schiuma: con santa pazienza toglietela con la schiumarola, sennò nel brodo resterà un orrido fondo scuro e assai poco appetitoso che lo intorbida. Una volta tolta tutta la schiuma aggiungete prezzemolo, carota, cipolla e pomodoro e attendete fino a cottura completa. Lasciate raffreddare qualche ora, quindi filtrate il brodo con un colino a maglie molto strette e tenete da parte sia lui che la gallina.
Nel frattempo che il brodo sta bollendo per fatti suoi oppure il giorno dopo vi potete dedicare alle polpettine. Impastate a lungo gli ingredienti fino a quando non avrete un bell'impasto morbido e liscio, ungetevi le mani e fate delle polpette ben rotonde grandi al massimo quanto una biglia, se vi riesce anche meno. Dette polpette vanno poi lessate in acqua o meglio ancora nel brodo, quindi messe da parte anche loro.
La mattina successiva è arrivato il momento di darsi del tu con le lasagne. Farina, uova e quel poco d'acqua vanno impastate con gagliardìa e quindi ridotte in sfoglia impiegando la macchinetta per la pasta, procedendo man mano fino all'ultimo buco per farle il più possibile sottili (va da sé che se siete rezdore da premio potete impiegare il mattarello, ma ci metterete più tempo per una ricetta che di tempo ne richiede già parecchio). Le lasagne vanno quindi lasciate asciugare, lessate in acqua bollente - toglietele dalla pentola non appena salgono alla superficie - e lasciate riposare ben stese su un telo pulito.
Fatto ciò, si può procedere con la costruzione della lasagna in teglia, ovvero nel ruoto, che come dice il suo nome ha forma circolare e deve essere di dimensioni congrue (se non proprio la proverbiale ruota di bicicletta, poco più piccolo).
Mettete sul fondo un doppio strato di pasta e conditelo con parmigiano, polpettine e mozzarella passita morbida, e continuate quindi con uno strato singolo di pasta fino a esaurimento degli ingredienti. L'ultimo strato sarà ovviamente di pasta e andrà spruzzato di parmigiano e condito con un par di polpettine e due pezzetti di scamorza.
In ultimo, si versa nella teglia il brodo in modo che le lasagne siano ben ricoperte dallo stesso, sennò in cottura ci patiscono.
Mettete quindi a cuocere le lasagne sul fornello a fuoco basso per almeno venti minuti, avendo cura di pungere ogni tanto la superficie con i rebbi della forchetta perché ha la tendenza a sollevarsi.
Fate quindi le porzioni ben lontano dalla tovaglia (ciò vi eviterà schizzi di brodo sulla stessa, il che dopo ore passate a spignattare può causare crisi di isteria anche nella cuoca più flemmatica) e portate i piatti in tavola con l'aiuto del commensale volenteroso che grazie al cielo non manca mai.
Se tutto è andato come deve andare il brodo sarà dorato e trasparente, la lasagna compatta e gustosa, la mozzarella passita filerà che è una bellezza e tutti gli invitati spazzoleranno il loro piatto con somma soddisfazione. E, ça va sans dire, vi chiederanno il bis, per cui non sperate che avanzi qualcosa da riproporre la sera all'orda famelica.
C'è chi farcisce le lasagne con pezzi di gallina lessata anziché con le polpettine. Si può fare, ma io vi suggerisco il modus operandi che si segue a casa mia: la gallina serbatela e servitela dopo le lasagne ben accompagnata da salsa verde casalinga (altro cavallo di battaglia delle zie), così fornirete ai commensali un secondo coi fiocchi e senza nessuna ulteriore fatica.

martedì 29 dicembre 2009

Capitone arrosto di zia Maria

Anzitutto mi scuso per non aver fatto gli auguri. Non era mia intenzione comportarmi da bifolca, ma il lavoro è stato parecchio e la mattina del 24 sono uscita dall'ufficio per correre in stazione a prendere il treno per il paesello manco mi inseguisse un drago armato di forcone. Giacché nello heimat si sa di Internet giusto per sentito dire (ho provato l'emozione di ascoltare nuovamente il brusio del modem a 56k nel tentativo vano di connettermi), postare era al di là delle mie possibilità. Rimedio adesso proponendovi uno dei piatti che la sera della Vigilia non manca mai sulla nostra tavola, come su tante altre: il capitone arrosto, fatto da zia Maria seguendo i dettami di mia nonna. Le foto sono scarse perché zia Maria è una di quelle signore di antico stampo per le quali è stato coniato il motto "Chi si ferma è perduto", e pertanto non ama avere intorno nipoti che fanno un sacco di domande e come se non bastasse pretendono pure di ritrarre la pietanza di turno dall'angolazione migliore. Sono riuscita a carpirle la ricetta fra uno sprint e l'altro inseguendola per tutta la cucina, e la posto con qualche integrazione poiché la zia è alquanto telegrafica.
Va fatta una necessaria premessa: la cosa migliore è farsi procurare il capitone da Fernando Monteferrante, che essendo degno erede di una famiglia di pesciaioli da più generazioni è capace di scegliere il capitone migliore a occhi chiusi. Se non avete la fortuna di disporre di un equivalente di Fernando Monteferrante, arrangiatevi presso il vostro pescivendolo di fiducia ma sappiate che non è la stessa cosa. Se poi per caso il capitone si muove scappando per tutta la cucina nonostante sia già regolarmente defunto, Fernando consiglia di metterlo per una mezz'oretta nel congelatore, così non sguiscia più e ci si può mettere all'opera senza dover imitare Mennea.

Ingredienti:
un bel capitone grassoccio
poco olio
farina di mais macinata non troppo sottile
rametti di prezzemolo e alloro

Preparazione:
per prima cosa ovviamente pulire il capitone come segue: fatelo a pezzetti lunghi più o meno mezzo palmo, lavatelo e strofinatelo bene con la farina di granturco per togliere l'appiccicaticcio dalla pelle, quindi rilavatelo e asciugatelo.
Preparate a parte una ciotolina con acqua e olio e immergetevi un paio di gambi di prezzemolo e un rametto di alloro.
Mettete i pezzi di capitone in una teglia antiaderente sul cui fondo avrete già messo un filo scarso d'olio e qualche foglia d'alloro, cospargeteli con un po' di sale e fateli cuocere in forno a 150°, avendo cura di spennellare di tanto in tanto il capitone con olio della ciotolina impiegando i rametti di prezzemolo e di alloro.
Punzecchiate con i rebbi della forchetta per controllare la cottura. Quando la carne è morbida tirate fuori dal forno e servire con contorno di insalatina, che ci sta assai bene perché il capitone è bello grassoccio. Secondo me, però, la cosa ideale è un bel cavolfiore lessato al dente e condito con una goccia di aceto.

martedì 15 dicembre 2009

Strudel di Santa Lucia

Driiiiinnnn.
"Pronto?"
"Bella, scusa se ti disturbo. Puoi scendere un attimo?"
"Zia, non mi dire che sei venuta fin qui con questo tempaccio."
"No, è che ho fatto una cosetta, se puoi venire a prenderla..."
La cosetta è una delle istituzioni gastronomiche della mia famiglia. Si è sempre fatta in occasione di Santa Lucia, onomastico di mia sorella. Per gli amici è nota come "strudel al metro", per via della quantità: in una delle ultime occasioni la zia e io ne abbiamo preparati un totale di sette metri e mezzo.
Quest'anno non avevamo molta voglia di festeggiare, e la tradizione è stata interrotta.
Ma solo per poco.
Ieri la zia ha provveduto a farlo da sé, per una volta senza il mio aiuto, per portarlo a mia sorella e a me, visto che il 13 dicembre cadeva l'onomastico anche del mio compagno.
Il tutto a ottantatre anni, e sotto la pioggia battente.
La zia Lella è tosta.
Dovrei prendere esempio.
Lo strudel è stato recapitato ben avvolto in carta da regalo. Anche l'occhio vuole la sua parte, e la forma spesse volte è contenuto quanto il contenuto stesso. Un atto di grande tenerezza, un invito a ricordare che la vita continua.
Stamattina le ho chiesto la ricetta. Nonostante l'abbia fatto con lei diverse volte, non mi ricordo mai le dosi. Non so neppure come lo strudel sia entrato a far parte del patrimonio cucinario di famiglia. Le principali indiziate sono zia Cecilia, una vivace signora tedesca che nonostante decenni di permanenza nello Stivale parlava come il sergente delle Sturmtruppen (la sua pronuncia di Borgo Pio come "Porco Pio" è una delle pietre miliari nel lessico familiare), o la raffinatissima zia Nora, ebrea polacca sposatasi con un cugino della mia nonna paterna poco prima che il pelato di Predappio avesse la geniale pensata di promulgare le leggi razziali, cosa che ebbe le sue amene conseguenze ma che non impedì alla zia Nora e al marito di condividere affettuosamente decenni di vita e di arrivare a tardissima età. Ma può ben essere che sia frutto della curiosità della zia Lella stessa, inesauribile nel cercare nuove cose in cucina e non solo. Come che sia, lo strudel è squisito.
La ricetta mi è arrivata in una busta, e la trascrivo tale e quale è stata scritta dalla zia.
"Per la pasta:
farina gr 250
1 uovo intero
2 cucchiai di latte
una noce di burro fuso
una presa di sale e una di zucchero

Lavorare la pasta a lungo e lasciarla riposare coperta con un tegame caldo.

Ripieno:
4 mele renette tagliate a fette sottili
5 cucchiai di mollica di pane imbiondita in padella con una noce di burro
50 gr di uvetta sulatina ammorbidita nella marsala
pinoli o noci tritate
100 gr di zucchero per insaporire le mele e l'uvetta
100 gr di burro
buccia grattugiata di un'arancia

Preparazione:
Tirare le sfoglie di pasta molto sottili (si può usare allo scopo la macchinetta della pasta).
Mettere sul tagliere tre strisce di pasta per il lungo l'una accanto all'altra e unirle fra loro passandoci su il matterello.
Mescolare gli ingredienti del ripieno, versarli sulla pasta e arrotolare la sfoglia con attenzione, in modo che non si fori nel processo. Su ogni giro spargere un cucchiaio di zucchero e un po' di burro fuso. Chiudere bene le estremità in modo che il ripieno non esca.
Sistemare sulla teglia un foglio di carta da forno e con delicatezza poggiarvi il rotolo, che deve essere schiacchiato (tipo soppressata).
Spennellare la superficie con burro fuso (un cucchiaino) e un po' di zucchero dopo averla bucherellata con i rebbi di una forchetta.
Cuocere in forno caldo per circa 20-25 minuti.
Quando si è raffreddato, tagliare le estremità con un coltello ben affilato in modo che sui lati si veda il ripieno.
Spolverare con lo zucchero vanigliato."

Il pacchettino della zia ha profumato la casa, e l'odore è rimasto ad aleggiare anche dopo che lo strudel era finito.
Mi ha lasciato una sensazione indefinibile di dolcezza e di nostalgia.
Ma anche voglia di pensare al futuro, con determinazione.
Quella di fare l'anno prossimo lo strudel di Santa Lucia insieme a lei, di nuovo assieme nella sua cucina.

sabato 12 dicembre 2009

La voce di Dio


Chi di voi conosce Elizabeth Fraser?
Credo in maggior numero di quanti la conoscevano quando io l'ho ascoltata per la prima volta nel 1984.
Allora era la voce di un gruppo che all'epoca era considerato dalla stampa con malcelato sospetto o con adorazione (la definizione "the voice of God" per definire la loro musica venne coniata da Paul Morley, giornalista noto per i suoi articoli così linguisticamente cesellati che talvolta sfioravano il ridicolo), senza che vi fossero, almeno a quanto ricordi, vie di mezzo.
Del resto, non che fosse musica da vie di mezzo.
La sua voce, men che meno.
Adesso i Cocteau Twins, insieme ai New Order e agli Smiths, sono considerati parte della trimurti che ha segnato la new wave negli anni Ottanta. E lei è riconosciuta, per quanto non la conoscano in molti (i più la ricordano per aver cantato, splendidamente, Teardrop dei Massive Attack; altri l'hanno sentita in una pubblicità della Honda, in cui un creativo dai gusti singolari scelse di impiegare come colonna sonora un pezzo dei Cocteau Twins di dieci anni prima, a dimostrazione che per accorgersi dell'esistenza di un cosiddetto gruppo di culto ci vuole il tempo che ci vuole), come una delle migliori cantanti al mondo.
Il paradosso è che non canta. O per meglio dire, non pubblica dischi da oltre dieci anni.
A interrompere il silenzio un singolo uscito da un paio di settimane, che Elizabeth Fraser si è persuasa a pubblicare in omaggio a un amico morto di recente.
Si chiama Moses, ed è di stile alquanto diverso rispetto a ciò che ha fatto in passato. Il che non è un problema.
Il problema semmai è che la sua voce si sente assai poco.
Fa niente. Come dice il mio amato bene, potrebbe sempre essere peggio. E' già bello che abbia fatto questo piccolo passo, e che abbia potuto ascoltarla di nuovo.
Non che abbia mai smesso di farlo. E' esattamente un quarto di secolo che la sua voce mi accompagna.
I Cocteau Twins li scoprii per caso un pomeriggio, su una rete privata che non era la defunta VideoMusic, l'unica emittente all'epoca che trasmettesse video musicali. Non ricordo quale fosse, ma ricordo perfettamente l'emozione che mi trasmise l'ascolto, e il video in sé.
La canzone era uno dei classici del gruppo, Pearly-dewdrops' drops. Per accompagnarla, fecero delle riprese nella cappella dello Holloway Sanatorium, un ex manicomio di epoca vittoriana in stile neogotico, cosa che scoprii molti anni più tardi. All'epoca non ne sapevo nulla. Mi colpì la bellezza delle immagini, ipnotiche quanto la musica, in uno stile che non avevo mai visto o sentito prima. Soprattutto mi colpì la voce della cantante, una creatura dalla pelle incredibilmente bianca con enormi occhi blu: quella voce era qualcosa di incredibile. Sembrava venire da un altro mondo, a metà fra il canto di un angelo e un urlo. Mi vennero le lacrime agli occhi.

Passai i giorni successivi in uno stato di ossessione, cercando di scoprire chi fosse quel gruppo, e di che canzone si trattasse: nessuno dei due era segnalato nel video. Mi ci vollero settimane per saperlo, e per trovare il disco, in un negozietto minuscolo di musica cosiddetta alternativa che, per un colpo di fortuna, scovai proprio sotto casa di mio zio Antonio. Fu il primo vinile che acquistai. Non avevo un giradischi, oggetto troppo costoso per una ragazzina di undici anni. Lo ascoltavo di nascosto sul lussuoso impianto stereo di mia sorella, sdegnando fra me e me il fatto che lei impiegasse quel beldidio per appestare la casa con Phil Collins e Madonna.
Da quel momento mi procurai ogni loro disco e feci impazzire i miei recandomi tutte le settimane nell'unica edicola sufficientemente vicino casa (il che sottointendeva comunque diverse fermate di autobus) per spulciare le copie del Melody Maker o del New Musical Express alla ricerca di articoli su di loro. Il materiale era molto scarso: all'epoca non lo sapevo, ma i Cocteau Twins detestavano rilasciare interviste. Ogni tanto, per miracolo, usciva un articolo sull'italiana Rockerilla, sorta di Bibbia dell'epoca per tutto quanto riguardava la musica new wave, e una volta con mio sommo stupore persino un'intervista su Rockstar, mensile patinato di musica mainstream. Se ne ricavava comunque ben poco: il gruppo, e soprattutto la cantante, odiava parlare di sé. Non che il giornalista di turno aiutasse granché, con alcune lodevoli eccezioni (fra cui un italiano, il compianto Alessandro Calovolo, un Paul Morley nostrano nello stile ma dalla sensibilità completamente personale): le domande vertevano nove volte su dieci sul fatto che i titoli delle canzoni fossero incomprensibili, ricavando risposte corrucciate e laconiche, e sull'indecifrabile significato dei testi in una lingua che tutto era fuorché inglese, e su cui Elizabeth Fraser si rifiutava di fornire spiegazioni.
Credo si rifiutasse per un motivo molto semplice: la spiegazione, qualunque essa fosse, la forniva la fusione fra parole e canto. Non erano scindibili le une dall'altro. E l'emozione che trasmettevano, e trasmettono, era potente e sfaccettata. Si potrebbe tentare di definirla come un misto di malinconia, gioia, disperazione, spinta verso l'alto, ma suona risibile. Mancano le parole.
Forse se gli intervistatori avessero avuto dimestichezza con Wittgenstein non avrebbero avuto bisogno di fare domande. Molti anni più tardi di quel primo ascolto, mi trovai a studiare il Tractatus per via di un esame universitario di filosofia del linguaggio. Il Tractatus discetta di infinite cose, ma ciò su cui verteva l'esame era ovviamente un argomento attinente la materia, ovvero la relazione fra "significante" (ovvero la "forma" di una qualsiasi parola, ad esempio "mela") e "significato" (il "contenuto" della stessa). Non sto a tediarvi con le disquisizioni tramite le quali Wittgenstein partì da Aristotele e, portandolo alle estreme conseguenze, arrivò alla conclusione che, giacché il significato di ogni parola non può essere univoco (banalizzando: per Tizio la mela è un frutto commestibile di colore variabile dal giallo chiaro al rosso acceso, per Caio è uno strumento di corruzione dell'innocenza primigenia, per Sempronio il mezzo scelto da Alan Turing per mandare definitivamente a quel paese l'Inghilterra bigotta) il risultato è l'incomunicabilità, perché non vi è una lingua ma tante lingue, e ciascuno ha la sua.
Ciò che mi colpì, e che mi fece pensare a Elizabeth Fraser mentre ero china sul libro, fu il concetto della pluralità delle lingue all'interno della lingua.
A chiunque sarà capitato di dover descrivere una cosa, o una sensazione, e di non trovare parole adeguate per farlo, perché si avvicinano a ciò che si vuol dire, ma non sono esattamente ciò che si vuol dire. Si può supplire con le parole di un'altra lingua (se una situazione è particolarmente difficile da sbrogliare, ad esempio, a me verrà da dire 'mbecciuse anziché "complicata", perché esprime assai meglio la pazienza e la dedizione necessarie a dipanarla), ma alle volte non basta.
Per cui, per esprimere ciò che si sente, può essere necessario creare una lingua che sia esclusivamente propria.
Conseguenza di una lingua che sia legata all'individuo, Wittgenstein docet, è l'incomunicabilità.
Wittgenstein risolse il problema con un'intuizione logica di semplicità disarmante: il significato di una parola è il suo uso nella lingua. Ovvero, a seconda del contesto la mela sarà di volta in volta e inequivocabilmente un frutto, uno strumento di corruzione, o il modo in cui Turing fece il gesto del dito medio a una società bizzoca.
Dubito fortemente che Elizabeth Fraser si sia mai interessata a problemi di linguistica. Ma anche lei ha trovato il modo di doppiare il problema.
Il suo modo, intuitivo ma altrettanto logico, è stato di rendere "significato" la sua voce.
I testi delle sue canzoni sono imprescindibili dal suo cantare.
Non c'è bisogno di spiegazioni. Men che meno di quelle che ho trovato quel giorno mentre mi rompevo la testa sul Tractatus, e che ho riportato qui sopra. Me le sarei potute risparmiare, e godermi il fatto che il suo modo di cantare è fra le cose che, a mia esperienza, si avvicinano maggiormente a una forma espressiva purissima di emozione.
Ma è fra i miei numerosi difetti il desiderio di capire perché qualsivoglia cosa si presenti proprio in quel modo e non in un altro.
Se cercassi una spiegazione razionale al motivo, potrei trovarlo nelle interviste che Elizabeth Fraser ha rilasciato diverso tempo dopo lo scioglimento dei Cocteau Twins e in cui, con fatica e reticenza, ha raccontato delle molestie subite dal patrigno, dello squallore terrificante della vita in una famiglia operaia di una orrenda cittadina della provincia scozzese la cui economia era basata sulla raffinazione del petrolio, del suo sentirsi inadeguata per la sua incapacità di stare alla catena di montaggio in fabbrica, del rapporto con Robin Guthrie, suo partner nel gruppo e nella vita (un'alchimia di sentimenti e creazione musicale che si sente al meglio forse in Victorialand, l'unico album che realizzarono assieme senza il contributo del terzo elemento del gruppo, Simon Raymonde) e dipendente da alcool ed eroina.
Raccontò che ci era voluta la separazione da Guthrie e un esaurimento per darle la forza di affrontare il passato e il presente, il che si era tradotto, fra le altre cose, nella decisione di scrivere testi per la prima volta comprensibili per gli ultimi album del gruppo: album in cui si era trovata coinvolta a forza per motivi personali e contrattuali, cosa che si sente perché sono i meno belli della loro produzione. Ricordo che alcuni critici attribuirono la qualità minore al fatto che la comprensibilità delle parole sminuiva l'atmosfera di mistero che aveva sempre circondato i Cocteau Twins. Penso che, assai più banalmente, la creatività di Guthrie fosse andata a farsi benedire (cosa che lui ha recentemente attribuito al fatto di aver smesso di bere e drogarsi: ipotesi che accetterò come realistica solo quando mi sarà provato che Bach, lungi dal comporre come si credeva attorniato da figli scorrazzanti nella cucina di casa sua, creava le sue opere dopo essersi bucato con misture di formaldeide e Weizenbier), e che la Fraser avesse comprensibili difficoltà a lavorare con un partner con cui avevo condiviso anni di vita e che le era divenuto estraneo.
Alcuni si sono chiesti quale sarebbe stato il risultato di testi comprensibili su una musica quale era quella dei Cocteau Twins di un tempo. Io non me lo sono chiesto. La risposta viene da diverse canzoni interpretate da Elizabeth Fraser dopo lo scioglimento, su testi da lei stessa composti, su musiche composte da gruppi o musicisti eterogenei: ad esempio la già citata Teardrop, in cui parla del suo rapporto con Jeff Buckley, e la struggente This love di Craig Armstrong, pezzo portante della colonna sonora del film furbetto Cruel intentions. La sua capacità di trasmettere emozione è immutata. Le parole posso anche essere quelle di uso comune, ma al pari di quelle della "lingua perduta" che impiegava in passato, sono inequivocabilmente sue, e imprescindibili dal cantato.

Sono fra le poche occasioni in cui di recente si è potuta ascoltare la sua voce. E' comparsa nella colonna sonora de Il signore degli anelli, in Ovo di Peter Gabriel, in un paio di canzoni di Yann Tiersen. In Internet si può trovare un suo duetto con Jeff Buckley, da lei disconosciuto perché "unfinished". Ha realizzato un accompagnamento sonoro per un'esposizione d'arte, ma ha rifiutato che venisse commercializzato. Si è spesso parlato dell'uscita di un suo album solista, sempre rimandato. Dal 2006, anno in cui aveva accettato di partecipare ad alcuni concerti dei Massive Attack, se ne erano perse le tracce.
La recentissima pubblicazione di Moses è stata accompagnata, incredibilmente, da un'intervista al quotidiano The Guardian. La prima in oltre dieci anni.
Nell'intervista, una fotografia scattata in quell'occasione. Vedendola, sono rimasta colpita. Ritrae una donna di quarantasei anni con i capelli completamente grigi. Inusuale in genere, ancor più nel cosiddetto mondo dello spettacolo. Elizabeth Fraser è una donna che non ha paura di invecchiare.
L'intervista ha almeno parzialmente spiegato i motivi di un'attività musicale a dir poco centellinata. Ha da anni un nuovo compagno, da cui ha avuto una bambina, e ha scelto di occuparsi di entrambi, cosa che non era riuscita a fare causa gli impegni legati ai Cocteau Twins quando alla fine degli anni Ottanta era nata la sua prima figlia. Per questo ha rifiutato numerose proposte di collaborazione. Quanto all'album, è quasi pronto, ma non si sa quando uscirà.
Il suo compagno Damon Reece ha confessato che gli spiace davvero per il pubblico, perché la sente cantare dentro casa e "it's truly amazing", ma che non c'è verso di farle fare qualcosa che non senta di fare. "The world is a sadder place without Elizabeth singing", ha concluso.
Come altri, attenderò con pazienza che esca l'album.
E come altri, posso comunque ascoltare le canzoni incise anni fa.
E' un periodo che le ascolto molto spesso, forse perché per me sono legate al paese.
Sono legate alle passeggiate sulle strade circostanti l'abitato, in ogni stagione, ogni volta che andavo. Sono legate a fiori primaverili, campi di grano da mietere, querce dalle foglie ingiallite, odori di terra e di legna arsa, strade deserte il primo mattino o nel tardo pomeriggio. Non ho mai trovato strano un titolo come "How to bring a blush to the snow". Bastava trovarsi in inverno al tramonto sulla via che porta al cimitero, dove si stendono le campagne e intorno si vedono le colline e in lontananza le cime della Majella, e aspettare che il sole calante colorasse la neve di rosa. La musica e la voce esprimevano esattamente quella luce e quel colore.
La musica e la voce, adesso, mi parlano anche di mia zia.
Non ho le parole per esprimere ciò che questo mi fa provare. Dovrei crearle, ma non ne sono capace.
So solo che è un dono bellissimo.

giovedì 10 dicembre 2009

Culurgiones della Cancelliera

"Non mi sono venuti bene. I suoi erano tanto più buoni."
Non è vero Pi, ti sono venuti benissimo. E' semplicemente che la Cancelliera magari ha qualche decennio di esperienza in più, nel fare i culurgiones. Ma i tuoi sono buoni. E lo so perché io e il mio amato bene li abbiamo mangiati, condendoli con la conserva di pomodoro che zia Maria e zia Margherita hanno fatto questa estate, e di cui ho impiegato l'ultimo barattolino rimasto in dispensa. C'era l'etichetta che zia Margherita aveva incollato. "Salsa condita", a indicare che al sugo era stato aggiunto un pochino di sedano e una foglia di basilico. Ho conservato il barattolo.
La Cancelliera in realtà si chiama Lucia, ma in paese, dove è arrivata giovanissima dalla Sardegna, è nota così perché suo marito era il cancelliere del tribunale. E' una donna gentile, e aveva portato i suoi culurgiones alle zie a metà ottobre, perché li assaggiassero. Il giorno del funerale, un paio d'ore dopo la funzione, ha bussato alla porta recando un vassoio di dolci appena fatti, "così avete qualcosa da mangiare". Le abbiamo detto che zia Margherita ci aveva parlato al telefono dei suoi culurgiones, di quanto li aveva mangiati volentieri, e questo l'ha resa felice.
Le abbiamo chiesto la ricetta, e la riporto come lei l'ha riferita.

"Siete in due? Allora servono tre patate di grandezza media. Le fai bollire e le schiacci. Mentre cuociono, metti in una padella una bella cipolla fresca tritata con un bel po' d'olio, e la fai stufare con il coperchio. Quindi schiacci le patate e aggiungi la cipolla con l'olio, un po' di noce moscata, un uovo e un bel pugno di parmigiano. Mescoli tutto e fai riposare.
Quindi si fa la sfoglia, bella sottile. Le dosi? Tesoro, non le so... Fai a occhio! Calcoli un uovo per uno e vedi quanto prende di farina. Quando hai steso la sfoglia, metti i mucchietti di ripieno, e poi copri con altra sfoglia. No, io non chiudo con il classico sistema a pizzico, uso il tagliapasta facendoli come i ravioli, che è tanto più veloce e comodo. Poi li butti nell'acqua bollente, e quando vengono a galla li scoli con la schiumarola e li condisci con un sughetto di pomodoro e un po' di parmigiano."

Mia sorella li ha fatti il giorno dopo il nostro ritorno a Roma, e me li ha portati ancora da cuocere in un vassoio coperto da un panno. Un dettaglio, questo, che per qualche motivo mi ha fatto una gran tenerezza. Forse mi ricorda qualcosa dell'infanzia. Ma la memoria in quest'ultimo periodo mi fa scherzi strani e mi impedisce di situare le cose, per cui non lo so con certezza.
Sapevano di farina e di buono.
Si sono cotti in pochi minuti, e dopo averli conditi li ho mangiati assieme al mio compagno.
E' stato un modo per sentire la zia ancora vicino.
Piano piano, scopro che di modi ce ne sono diversi. Mi aggrappo a ciascuno di essi.
Non so se conoscete un bel film uscito qualche anno fa. Si chiama Daddy Nostalgie, lo ha diretto Bertrand Tavernier. E' la storia di una donna e del suo papà, che soffre di una malattia incurabile. Li interpretano rispettivamente Jane Birkin e Dirk Bogarde, e lo fanno in maniera splendida. Nonostante il tema, non è un film triste.
La voce narrante alla fine del film racconta che quando il padre scompare, la donna apre le finestre della casa. La madre le chiede che senso abbia aprire le finestre, a che cosa possa servire. Lei le dà un risposta che trovo bellissima.
"A far finta di vivere, in attesa che ce ne torni la voglia".

lunedì 9 novembre 2009

Zia Margherita

"Figlie de zìe", "Oh figlia mia", "Amore della zia sié tu".
***
Quando nacque mio padre zia Margherita si mise di guardia in fondo alle scale. Era il periodo del rapimento di baby Lindbergh, e a chi le chiedeva che ci facesse lì, rispondeva: "E se z'arrobbene 'u cìtele?"
***
"Studiare non m'è mai piaciuto", diceva. Si mise a lavorare nel negozio del padre a quattordici anni e mezzo. Se avesse studiato avrebbe dato le piste a chiunque, perché era la più intelligente della famiglia. Raccontava che la professoressa di latino, la Vitacolonna, si soffiava il naso e poi metteva ad asciugare i fazzoletti sulla cattedra. E' un motivo più che valido per decidere che la scuola non ti piace.
***
Era vivace e le piaceva ballare. A mio nonno non piaceva che uscisse, né lei né le sorelle. Una sera al circolo c'era un ballo. Lei e le sorelle si misero un bel vestito per andarci. Mentre erano a metà strada arrivò qualcuno per dire che mio nonno avrebbe messo il muso. Mia zia Lella era preoccupata. "Papà si dispiace". Zia Margherita mise in chiaro che nonno avrebbe fatto due fatiche, la prima arrabbiarsi, la seconda farsi passare l'arrabbiatura. E andò a ballare.
***
Aveva una gran memoria anche per i più piccoli dettagli. Durante la guerra il suo fratellino Antonio aveva pochi anni, e aveva una passione per il suo cappottino a quadretti. Ricordava che quando dovevano scappare dai bombardamenti, lui strillava "Il cappottino mio, il cappottino mio!" e si calmava solo quando lo prendevano.
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Durante la ritirata delle armate tedesche la casa dei miei nonni venne occupata dagli ufficiali della Wehrmacht. I nonni nascosero le figlie in soffitta. Il bagno era al piano di sotto e una volta lei, che ci teneva alla pulizia, ci andò per lavarsi perché in soffitta era finita l'acqua. Mentre era in bagno sentì i passi di un soldato, con gli stivali pesanti. Era spaventatissima. Il soldato tentò la maniglia, e si accorse che la porta era chiusa a chiave. Era educato, e se ne andò via. Ricordava sempre i passi sulle scale mentre il soldato scendeva: bam, bam, bam.
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Dopo i tedeschi arrivarono gli inglesi. Presero possesso della casa di suo nonno Pino. Il nonno era indignato perché gli ufficiali inglesi osavano mettere i piedi sul divano del suo studio. "Santo Dio benedetto!", diceva, perché in quello studio non ci faceva entrare manco la moglie e i figli. Zia Margherita gli disse qualcosa come, nonno, e che vuoi fare. E' stato sempre il suo atteggiamento, dare importanza solo alle cose che sono importanti.
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Gli inglesi facevano delle feste durante la guerra, nel salotto della casa dei suoi nonni, e si ballava. Zia ricordava che durante un ballo, non so quale, veniva dato il comando "Changé!" per cambiare il partner di danza. Sentendola parlare si vedeva la gente che ballava in quel salotto.
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Mia nonna era bravissima come donna di casa, ma non aveva pazienza di fare le cose con cura. Una volta fece una camicia da notte a mio nonno, lunga lunga da inciamparci, e con gli spacchetti laterali. Mio nonno restò molto perplesso. Zia Margherita guardò la camicia e commentò: "Papà, sié all'avanguardia, eh!".
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Un giorno doveva andare presso una famiglia per fare l'apprèzze, cioè la valutazione del corredo di una ragazza che si doveva sposare. La portò mio padre sulla lambretta, ed entrò anche lui nella casa. Zia Margherita si mise con la madre della ragazza a valutare coperte, lenzuola, asciugamani, tante cose che erano state comperate al negozio. All'epoca non esistevano gli assorbenti, si usavano dei pannolini di stoffa, cosa che adesso sta tornando di moda nella società eco-friendly. Si creò un grande imbarazzo quando si arrivò a valutarli. La madre della ragazza disse, riferendosi a mio padre: "Beh, mo' chiste giòvene può ascì", ma mio padre non capiva e rimase lì come un baccalà. E zia Margherita, con il suo consueto savoir faire, procedette tranquilla contando i pannolini e disse: "Venti, uhm, fazzoletti".
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Nell'immediato dopoguerra in casa girava a malapena una bottiglia di liquore. Venne 'u parzenale (mezzadro) a trovare i miei e zia Margherita accolse lui e il figlio piccolo in salotto. C'era rimasto un fondo di bottiglia di liquore che manco bastava per un bicchierino, e mia nonna pur di offrire qualcosa lo allungò sotto il rubinetto. Zia Margherita raccontava che nonna diede il bicchierino all'ospite e chiese se lo voleva anche il bambino. Mia zia disse "mammà, ma come te ne esci di dare il liquore a nu cìtele!", al che il contadino osservò "commà, nun te preoccupà, è acqua..."
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Una volta quando era molto giovane una cliente entrò in negozio e pretendeva di essere servita immediatamente passando davanti agli altri. Zia Margherita le chiese di aspettare perché stava servendo un altro cliente, e lei fece: "Eh, ze vede che te devi ancora 'mbarà 'o mestiere". Mia zia uscì da dietro al bancone e aprì la porta del negozio, senza dire nulla. La cliente uscì in silenzio. Zia Margherita si fece un gran pianto, la sola volta in cui mi abbia raccontato di aver pianto. La cliente poi le chiese scusa.
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Il paese era pieno di famiglie povere. Una ragazza che adesso ha cinquant'anni andava, come tutti, a confidarsi con lei. Le disse che i suoi figli piangevano perché volevano la ricotta, e lei non aveva i soldi per comprarla. Zia Margherita le diede i soldi per la ricotta, e glieli diede molte altre volte.
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Tutti la chiamavano, per chiederle consiglio su che camicie o maglie o coperte o vestiti acquistare o semplicemente per parlare. Una volta che non rientrava mio nonno la fece chiamare dal banditore. Lei ricordava: "Quando ho sentito 'La signorina Margherita è richiesta a casa' m'è venute 'u tòcco". Si affrettò a casa, scoprì che non era successo niente, e disse: "Papà, sì esaggeràte, eh".
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Una volta in negozio venne un professore di Montecilfone, e rimase così incantato dalla sveltezza e intelligenza di mia zia che voleva sposarla. Mio nonno si oppose. Lo raccontai a Lena, amica carissima che mia zia Margherita chiamava 'a regina per il suo portamento, così come 'a regina era chiamata sua nonna. Lei mi disse che di pretendenti ce ne erano stati tanti e poi tanti.
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Quando era più giovane andò nelle Marche con zia Maria per vedere la produzione di abiti di un fornitore. Andarono insieme al ristorante, e lei incuriosita ordinò il consommè, non sapendo cosa fosse. "Quando me portene quell'acquatòria", ricordava. E si mangiò con sofferenza il brodino, mentre zia Maria si spazzolava i maccheroni che aveva ordinato.
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Mia cugina Anna Rita da piccola era spessissimo a casa nostra. Una volta mia nonna e zia Gemma, la sua sorella nubile, stavano facendo le ostie. Impiegavano il ferro della nonna di Anna Rita, sorella di mia nonna. Vedi, le dissero, questo era il ferro di tua nonna, infatti c'è inciso il suo monogramma. Anna Rita disse, se era di nonna, allora vuol dire che è mio, e io me lo porto a casa. Nonna e zia per impedirglielo arrivarono a mettere 'u sferràzze (la sbarra di ferro) per bloccare la porta d'ingresso. Zia Margherita era uscita per una commissione e causa sferràzze non riuscì a entrare a casa e si attaccò al campanello. Quando riuscì a entrare e le raccontarono cosa era successo, disse a mia nonna: "Mammà, zia Gemma si può pure capire perché non ha figli, ma tu che de figlie n'è avute cinque!"
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La accompagnai al funerale di Marietta, una signora che aveva avuto una vita tristissima ("U pate le dave mazze", raccontava mia zia) fino a quando non era stata presa a servizio dagli zii di mia nonna. Negli ultimi anni aveva trovato accoglienza al Santuario della Madonna della Difesa, dove curava l'orto e le galline. Mentre accompagnavamo Marietta al cimitero, zia Margherita ricordava con che amore Marietta curasse 'i gallenèlle, e anche quel suo ricordo era una dimostrazione di amore.
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Anni fa una ragazza del paese ebbe una bambina con un uomo già impegnato. Nessuno si era accorto della gravidanza. La famiglia la voleva cacciare di casa. Mia zia che l'aveva battezzata le chiese perché non si fosse confidata con lei. La ragazza disse: "Patì, non te l'ho detto perché pure tu mi avresti consigliato di abortire". Mia zia rispose: "Figlia mia, ma quando mai". Parlò con i genitori della ragazza e li calmò. Adesso la bambina è sposata.
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Quando ancora aveva il negozio la aiutavo con il registratore di cassa. Mi aveva insegnato i comandi per fare il sunto della giornata: operatore, 1, operatore.
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Da piccola mi piaceva far funzionare la macchina per gli scontrini. Era grigia con i tasti neri e aveva una manovella per mandare avanti il nastro di carta. Mi piaceva particolarmente il rumore che faceva quando si azionava la manovella: truuuck, truuuck. Lei mi lasciava giocare, e mi lasciava giocare con gli scatoloni di cartone in cui arrivavano i vestiti. Con mia sorella ci nascondevamo negli scatoloni o li rovesciavamo e facevamo finta che fossero grotte o capanne.
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Aveva mani bellissime con le dita sottili, e ci teneva, e io ero contenta che ci tenesse. Con la zia Lella le comperavamo lo smalto per le unghie, di un rosa pallidissimo. Mi ricordo quando faceva il manicure vicino alla finestra, per poterlo fare con attenzione alla luce del sole.
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Le piaceva mangiare quelle che chiamava "i percarìe", le porcherie: i tramezzini, la maionese, i rustici. Quando andavo a trovarla le portavo sempre da Roma i supplì, che le piacevano tanto anche se detestava il riso. Quando era stagione le portavo i marron glacé e la confettura di castagne. Mangiava a piccoli bocconi, ricordo la delicatezza delle sue mani quando sbocconcellava le cose. Non aveva paura di sperimentare cose nuove, come mostra la storia del consommè. Quest'estate assaggiò il kebab, arrivato in paese per la prima volta.
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Era ironica, fin da quando era piccola. Non aveva smesso di esserlo. Quando la caldaia una volta fece le bizze, il tecnico venne e chiese una cifra piuttosto alta. Lei pagando gli chiese: "Siente, ma per calcolare il prezzo hai contato pure i gradini che hai fatto per arrivare fin qui?". La volta successiva lui fece l'intervento gratis. E ora volta che si vedevano, ricorda, zia si divertiva a prenderlo bonariamente in giro e si facevano delle gran risate.
***
Quando le ho portato a conoscere Lucio per lei è stata una gioia.
Lucio le piaceva. Le piaceva la frase che lui ha preso come motto: "Potrebbe sempre essere peggio". Quando ci sentivamo al telefono lei voleva sempre parlare con lui, e raccontava: "Quando Maria si arrabbia, io le dico sempre: 'Come dice Lucio?', e lei si calma". Il fatto che le piacesse così tanto quella frase credo dica molto di lei.
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Le sue espressioni che sento ancora nelle orecchie: "Cchiù brutte d'u débbete", "na pecura veshtùta", "nu tùrze", "nu taralle 'mbusse c'u méle". Erano il massimo dell'insulto cui potesse arrivare.
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Non si è sposata e non ha avuto figli. Zia Emma ha detto che siamo tutti figli suoi, ed è vero.
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Il mio amico Pasquale: "Margherita Iannucci è stata, è e sarà la storia di Casacalenda".
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Don Gabriele, il parroco del paese, ha ricordato come la biancheria per andare in seminario la sua mamma l'avesse comprata da don Gennaro e dalle signorine Iannucci, e si è emozionato.
***
Lena: "Tua zia non aveva età, anche se era vissuta sempre in paese. Con lei potevi parlare di tutto, di politica, di società, delle tue cose. Aveva sempre un consiglio ma non giudicava mai".
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Lucio: "Ciò che ricordo di più di tua zia è che magari stava rifacendo i letti o qualsiasi cosa, tu arrivavi, lei si voltava, e ogni volta che ti vedeva sorrideva". Sorrideva sempre.
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Mia sorella ha detto in chiesa: "Ci ha insegnato tante cose, ma la più importante è stata l'amore".
***
Aveva una passione per i fazzoletti, ce li regalava sempre. Ho i suoi fazzoletti in tasca.
***
Ho chiesto al mio amico Agostino dove vanno le persone quando non sono più qui. Lui mi ha risposto: "Non vanno, sono".
Zia Margherita è ancora qui.

domenica 25 ottobre 2009

Dolcetto? No, scherzetto

Halloween quest'anno è arrivato in anticipo, almeno per me.
Sarà che è un po' che non faccio dolcetti.
Pertanto, quale scherzetto non poteva che arrivare un ameno colpo della strega.
Almeno per solidarietà femminile poteva essere più clemente.
Temo che resterò lontana dai fornelli e dal pc per un po'.
Spero di tornare in piedi per il 31 ottobre.
Così investo la strega con una scarica di pepatelli al miele caldi caldi di forno, e a dolcetti e scherzetti siamo pari e patta. Tiè.

venerdì 23 ottobre 2009

Riso e fagioli neri della zia messicana

L'amato bene ha la pazienza, se impegni e studi permettono, di seguirmi nelle mie scorribande gastronomiche che generalmente prevedono tour de force in tutti i mercati della Capitale alla ricerca di ingredienti improbabili quali cavolo nero, cicerchie, mele limoncelle, curcuma in polvere e altre amenità da acquistare previa contrattazione con il venditore in dialetto stretto oppure in urdu. Va detto che la pazienza non gli difetta e che spesso è lui a fornirmi utili suggerimenti: uno degli ultimi utili suggerimenti ha fatto sì che siamo usciti da un negozietto nei dintorni di Piazza Vittorio, la chinatown dell'Urbe, carichi di granaglie, spezie e prelibatezze varie.
Fra gli acquisti c'erano mezzo chilo di fagioli neri, che sono rimasti a ronfare in dispensa per un bel po' finché non ho avuto la mala pensata di cucinarli secondo i consigli datimi da Elsa, la zia messicana che risiede per un terzo dell'anno a Mazatlàn, per un altro terzo a Los Angeles dove si spupazza il nipotame e per un altro terzo al paesello.
La pensata in realtà sarebbe stata ottima, se non fosse stato per l'entusiasmo eccessivo che caratterizza la sottoscritta. La quale, tutta allegra alla vista dei legumi, ha ben pensato: massì, mettiamoli a bagno tutti. E il giorno dopo, ovviamente, si è trovata con una quantità di materia prima più che doppia rispetto a quella di partenza.
Le dosi, di conseguenza, sono per così dire massicce. Ma il risultato è assai appetitoso, e vi offrirà il vantaggio di poter sfamare con poca fatica una pletora di invitati.

Ingredienti:
mezzo chilo di fagioli neri
350 grammi di riso a chicco lungo o parboiled
un piccolo peperone rosso
un peperoncino verde dolce, di quelli che al paese mio son detti friarielli
qualche rondella di sedano
due grosse cipolle bianche
tre spicchi d'aglio
un peperoncino piccante secco
una manciata di origano
una punta di cucchiaio di cumino
due cucchiai d'olio

Preparazione:
lasciate a bagno i fagioli neri per cinque o sei ore, poidiché scolateli e metteteli a cuocere a fuoco lento con il sedano e i peperoni tagliati a pezzi in una pentola antiaderente e munita di coperchio di vetro (vi basterà un bicchiere d'acqua scarso, badando di tener coperto il tegame).
Quando i fagioli sono a metà cottura, in una capace padella antiaderente mettete a stufare la cipolla tagliata, l'aglio privato del germoglio e tritato, il peperoncino in pezzi, l'origano e il cumino con i due cucchiai d'olio.Quando la cipolla si è appena imbiondita, con abile mossa rovesciate il contenuto della padella dentro la pignatta dei fagioli. Voilà!
Date quindi una bella mescolata, rimettete il coperchio e fate cuocere finché i fagioli sono morbidi.
Nel frattempo cuocete il riso con il solito sistema: pentola antiaderente, doppia quantità d'acqua rispetto al peso del riso, coperchio di vetro e fuoco lento finché i chicchi non hanno assorbito tutta l'acqua.
Poidiché, in un bel piatto di portata mettete da un lato il riso, dall'altro i fagioli, e ammannite agli invitati affamati, badando a conservarne una porzione per voi e l'amato bene giacché, il giorno dopo, sono ancora più buoni.
Se le cose sono andate come si confà, i fagioli saranno piccanti quanto l'inferno e i commensali sbaferanno tutto con goduria, innaffiando con vino rosso. E difficilmente vi chiederanno da mangiare altro che non sia un dolce, magari quei biscotti con le mandorle che sono uno dei vostri cavalli di battaglia e che sono tanto buoni da pucciare nel passito.
Il che vi darà il sommo piacere, a fine pasto, di rigovernare piatti e pentole con un allegro sottofondo di avvinazzati che sciorinano tutto il repertorio latinoamericano da La cucaracha a Tres delinquentes.
Se poi i vicini tozzolano alla porta per protestare, scatenategli addosso i suddetti avvinazzati al grido di "Viva Zapata".
E godetevi lo spettacolo, prima di tornare all'acquaio.

mercoledì 21 ottobre 2009

Scarola 'mbuttunata

Questo piatto è uno dei cavalli di battaglia di mia nonna paterna, che ne ha trasmesso la ricetta alla oramai leggendaria zia Lella. La quale zia, ogni tanto, me ne omaggia in modo che la sottoscritta, a suo dire, non perda tempo ai fornelli.
Ma io amo perdere tempo ai fornelli. Pertanto ne ho chiesto la ricetta, e non appena ho trovato due scarole comme il faut al mercatino dietro caso ho provveduto ad approntarla.
Ho avuto conferma che è squisita, e che la sua preparazione è alla portata anche di chi, come me, con pentole e padelle si da a malapena del tu. Purché abbia a disposizione un collaboratore che presti il suo aiuto in un determinato passaggio, altrimenti si rischia di far volare il cespo di scarola per aria con tutto il suo ameno ripieno.
La versione che propongo non è quella campana, ben più ricca, bensì quella sannita, che denota la cronica difficoltà che i miei conterranei pativano in passato per mettere insieme il pranzo con la cena. Però, anche se meno lussuosa, è buona lo stesso, e per chi si guarda in cagnesco con la bilancia ha pure il vantaggio di scarse calorie.

Ingredienti:
due belle scarole (sceglietele il più possibile piccole)
tre spicchi d'aglio
una bella manciata di capperi sotto sale (non sotto aceto, vi prego)
una manciatina di olive nere
due cucchiai d'olio
spago da cucina

Preparazione:
tagliate la cima delle scarole e togliete le foglie esterne più durette, quindi passate i cespi sotto l'acqua corrente onde eliminare residui di terra, polvere & quant'altro e mettetele a scolare.
Tagliuzzate gli spicchi l'aglio dopo averne rimosso il germoglio, i capperi che avrete già sciacquato ben bene onde rimuoverne il sale in eccesso, e le olive nere. Mescolate il tutto in una ciotolina e lasciate insaporire un paio di minuti.
Acchiappate un cespo di scarola alla volta, apritelo con garbo in modo da accedere al centro e farcitelo con il trito.
Quindi chiamate l'aiutante: ne avrete bisogno.
Tagliate per ciascun cespo due pezzi di spago di lunghezza adeguata (ho calcolato una trentina di centimetri) e poggiateli su un piano, in modo che corrispondano più o meno all'altezza del centro e poco meno della cima del cespo. Con presa ferma prendete una scarola imbottita, poggiatela sugli spaghi, e tenendola chiusa fare annodare all'altezza prescritta i succitati spaghi all'assistente; ripetete quindi l'operazione con l'altra scarola, e mettete entrambe in una pentola antiaderente dove aspettano in paziente attesa i due cucchiai d'olio e il terzo spicchio d'aglio affettato in quattro.
Se non avete l'assistente, preparatevi a litigare un bel po' con le scarole che sgusciano da tutte le parti mentre tentate pietosamente di legarle e con il ripieno che vola per aria. Se non volete litigare, mettetele in pentola così come sono, ma sappiate che in cottura si sbracano (fa lo stesso: l'estetica, quando si sta lottando con i secondi per preparare la cena, è un optional).
Accendete la fiamma avendo cura di tenerla bassissima e mettete sulla pentola il fido coperchio di vetro. Quando l'olio comincia a sfrigolare, aspettate un po' e quindi con l'aiuto del cucchiaio di legno rigirate la scarola, che nel frattempo si sarà già stufata quel tanto che basta a farvi compiere l'operazione senza santioni.
Fate cuocere sempre a fuoco minimo finché le scarole non si sono appassite, avendo cura di rigirarle di tanto in tanto.
Eliminate gli spaghi che risulterebbero alquanto indigesti e servitele come contorno a un bel secondo semplice, ad esempio hamburger fatti in casa come ho fatto io l'altra sera.
Farete contento il commensale, e sarete contenti voi, che avrete preparato la cena in mezz'ora scarsa.

martedì 20 ottobre 2009

Freddo, pussa via: farro e melanzane

"Tesoro mio, che bell'arietta che c'è fuori..."
Quando l'amato bene con il suo consueto understatement si lagna della temperatura, è segno che non c'è scampo: è arrivato ufficialmente il gelo.
Il che vuol dire che, con somma soddisfazione di chi cucina, è arrivato il momento di approntare risottini e zuppe bollenti senza più correre il rischio che il poveretto sudi a fontana.
Ho pertanto colto l'occasione per liberarmi del paio d'etti di farro che stavano a immestirsi in dispensa per approntargli una pietanza che gli ho servito ben bollente. Giacché, oltre a sciogliergli la patina di ghiaccio che aveva accumulato addosso aspettando l'autobus, gli è pure piaciuta parecchio, ve la propongo.

Ingredienti:
due etti circa di farro intero
due belle melanzane scure
uno spicchio d'aglio
due cucchiai d'olio

Preparazione:
lavate le melanzane, togliete il picciolo e tagliatele a tocchetti, provvedendo poi a spruzzarle di sale e a metterle nel colapasta per una mezz'oretta onde togliergli l'eventuale amaro (procedete, insomma, come se steste preparando delle melanzane a funghetto).
Nell'attesa, sciacquate il farro sotto il rubinetto e lasciatelo da parte.
Quando è passata la mezz'ora, sciacquate pure le melanzane e tamponatele con un canovaccio, oppure scrollatele ben bene nel colapasta.
Togliete il germoglio all'aglio, tritatelo con la grattugia (se avete lo spremiaglio meglio ancora, ovviamente) e mettetelo a soffriggere con i due cucchiai d'olio in una pentola antiaderente a fuoco bassissimo: non appena si è un po' colorito, buttate le melanzane in pentola, coprite col coperchio di vetro e lasciate cuocere sempre a fuoco bassissimo per una decina di minuti. Grazie alla fiamma minima, non sarà necessario aggiungere acqua; nel caso funesto che non disponiate di coperchio di vetro, anziché impiegare quei dieci minuti per farvi i fatti vostri date una controllata ogni tot e aggiungete acqua (poca, mi raccomando) se necessario.
Passati i dieci minuti, fate la prova forchetta: se i rebbi entrano nelle melanzane senza difficoltà, è arrivato il momento di procedere.
Alzate la fiamma, aggiungete il farro e fatelo insaporire per un minuto mescolando con il cucchiaio di legno. Versate quindi in pentola il doppio della quantità d'acqua rispetto al peso del farro, in cui avrete sciolto una presa di sale. Riabbassate la fiamma al minimo, rimettete il coperchio di vetro e lasciate cuocere per una ventina di minuti rimescolando di tanto in tanto, finché il farro non ha assorbito tutta l'acqua o quasi. Quando è pronto, tenete pure in caldo impiegando il coperchio: fra le tante virtù di questo cereale, purché di buona qualità, c'è quella di non spappolarsi.
Quando il vostro amato bene arriva esibendo una bella barba di ghiaccioli sotto il mento, aggiungete alla pietanza una spruzzatina di peperoncino se garba e portate in tavola.
Mangiate insieme all'amato/a la zuppa e osservate con tenerezza il suo naso che da viola porporino torna di colore normale.
E poi date un bacio su quel naso.
Vi parrà strano, ma così la pietanza diventerà più buona.

domenica 18 ottobre 2009

E' fatto strano ascoltare le Lescano?

I miei gusti musicali sono oggetto a turno di sospettosa curiosità o aperto ludibrio da parte di chi mi conosce.
La sospettosa curiosità è dovuta al fatto che, a parte i consueti classici pop e rock, ascolto cose a loro dire quantomeno singolari come misconosciuti gruppi post punk e new wave (fino a Joy Division ci arrivano, ma quando si tratta dei Passage oppure degli Orbidoig scuotono la testa anche i più fini cultori) oppure, sempre a loro dire, coperte da strati e strati di muffa come il madrigale nelle sue diverse declinazioni o peggio ancora simpatici pazzerelloni come Arvo Pärt.
L'aperto ludibrio scatta quando mostro la mia predilezione per gente che era sulla cresta dell'onda in quel periodo in cui si marciava per non marcire: mi basta accennare la prima strofa di Ho un sassolino nella scarpa per suscitare risate manco fossi Gigi Proietti al top della condizione.
Pare infatti che per ascoltare Rabagliati, Natalino Otto o il Trio Lescano sia condizione ineludibile il veleggiare per la novantina.
Alle loro esplosioni di ilarità, ribatto sempre che se non ci fossero stati signori come i succitati, in grado di sdoganare in salsa italica lo swing, i nostri nonni e genitori sarebbero affogati nelle mestizie dell'autarchia culturale (mia zia ancora ricorda come si fosse costretti ad ascoltare i dischi jazz americani fortunosamente importati a bassissimo volume, pena occhiatacce dei vicini o peggio ancora), ma ciò non pare sortire effetto alcuno. Sicché loro continuano a sghignazzare e io a riascoltare a intervalli regolari Maramao perché sei morto o Camminando sotto la pioggia.
Insieme a Natalino Otto, le Lescano sono state le mie predilette fin da quando ero piccina. Sarà per il fascino che esercitavano le loro armonie vocali, che ancora adesso trovo di qualità sublime, o forse per l'accento. Solo quando sono cresciuta ho scoperto, e me lo avrebbe dovuto render chiaro il loro successo più famoso, che erano olandesi. Molto più tardi ho scoperto come tre signorine olandesi fossero andate a finire nell'Italietta dell'aratro che traccia il solco. E ancora più tardi sono venuta a sapere perché fossero letteralmente finite nel nulla.
Per la cronaca, il trio era composto da tre sorelle: Alexandrina, Judith e Katharina "Kitty" Leschan, cognome che ovviamente venne autarchizzato in Lescano così come i loro nomi: Sandra, Giuditta e Caterinetta. Erano figlie di un contorsionista ungherese e di una madre olandese cantante d'operetta, e come contorsioniste iniziarono a far carriera nel mondo dello spettacolo. Pare fossero parecchio brave: e se è vero, come sosteneva Louise Brooks, che la danza è l'allenamento migliore per recitare, il contorsionismo lo deve essere per cantare, se non altro perché il fiato impari a usarlo e risparmiarlo molto, ma molto bene.
Dopo una serie di peripezie e tournée massacranti in giro per l'Europa, a metà degli anni Trenta vennero notate in un minuscolo circo vicino Verona dal direttore artistico della sede torinese dell'Eiar (ovvero l'antenata dell'attuale Rai), che decise di impiegarle come trio specializzato nel vocalese, uno stile di cantato virtuosistico tipico della musica swing e jazz.
Il successo fu incredibile: centinaia di migliaia di dischi venduti (solo del loro hit più celebre, Tulitulipan, pare ne venissero acquistate oltre 350.000 copie), esaltazioni della stampa italiana e un'orda di fan entusiasti, fra i quali anche il pelato di Predappio che volle conoscerle. Con il successo vennero anche numerosi tentativi di imitazione, ma funzionarono fino a un certo punto. "Forse perché si somigliavano tanto, forse perché si vestivano in un certo modo, forse perché il loro cantato era simile a un miagolio - un piacevole miagolio, molto piacevole - loro vengono ancora ricordate", dice in un documentario Lidia Martorana, cantante che i cultori ricordano per la temibile Paquito lindo (sbertucciata in maniera sublime da Proietti e Arbore qualche anno fa) e che fu parte di uno di quei trio simil-Lescano.
Il piacevole miagolio assicurò alle sorelle Leschan una popolarità tale da portarle, oltre che sulla stampa, anche nel cinema (con numeri musicali nei famigerati film dei telefoni bianchi) e persino a casa Savoia. L'ascesa pareva irrefrenabile.
Lo sarebbe stata, se non fosse per un piccolo particolare.
Un particolare su cui, vista l'incredibile fama del Trio e gli incassi che portava, si glissò nel 1938, ma che nel 1943, con mezza Italia divenuta RSI, non si poteva ignorare.
La madre delle sorelle Leschan era ebrea.
Da un giorno all'altro scomparvero, letteralmente. La Eiar e la connessa casa discografica Cetra sciolsero qualunque contratto. Le canzoni già registrate uscirono a nome Trio Cetra. E nel novembre del 1943 vennero addirittura arrestate a Genova, perché accusate di mandare messaggi in codice al nemico con le loro canzoni. La detenzione durò poco, ma fino alla fine della guerra furono costrette a nascondersi sotto falso nome.
Nel dopoguerra, almeno in Italia, se ne perdono le tracce. Dopo qualche concerto, tenuto nemmeno con la formazione originaria, una lunga tournée in Sud America. Poi lo scioglimento. Una delle tre, Alexandra, torna in Italia. Lì la scoverà un settimanale, che la intervista poco prima della morte nel suo appartamentino di Salsomaggiore.
Dopo questo, il nulla.
E dire che l'interesse, da parte degli appassionati italiani, mi risulta sia notevole.
Lo prova fra l'altro un bel documentario, Tulip Time, realizzato nel 2008 da Tonino Boniotti e Marco De Stefanis.
Per una casa produttrice olandese, la Memphis Film.
In Olanda, dopo la presentazione in diversi concorsi, è stato proposto in televisione. Da noi no, nonostante sia stato coprodotto dalla Rai.
Si vede che nei palinsesti attuali non vi è posto.
O forse il motivo è un altro.
Agli italiani non piace che gli si ricordi che no, non siamo brava gente.

Post scriptum:
uno degli amici sbeffeggiatori mi comunica che la Rai non avrà trasmesso Tulip time, però ha in cantiere una di quelle belle fiction in due puntate in cui ripercorrerà la storia del trio.
Titolo, "Le ragazze dello swing". Cast ancora da definire, ma già si sa che a interpretare Alexandra Leschan sarà Andrea Osvart.
Sì, miss Scena Muta di uno degli ultimi festival di Sanscemo.
Non so il perché ma, come si suol dire nell'Urbe, me viè da piagne.

venerdì 16 ottobre 2009

Accade oggi

Scrivo due righe per invitarvi a fare, chiamiamolo così, un gioco.
Andate sulla pagina iniziale del vostro motore di ricerca preferito.
Nella stringa di ricerca digitate la data di oggi, con in aggiunta "1943" e "Roma".
Premete sul tasto "Cerca".
Poi vedete che succede.
E dopo aver visto, leggete.
Leggete cos'è successo a Roma il 16 ottobre 1943 a partire dalle 5.30 del mattino.
Potete anche dilettarvi con quesiti matematici.
Ad esempio quali sono le condizioni perché da un numero iniziale di 1.022 si arrivi a 15.
La Storia ha un modo tutto suo di fare i conti.
E poiché la Storia la fanno gli essere umani, i conti non tornano mai.
Anche per questo è importante non dimenticare.

mercoledì 14 ottobre 2009

Strascinati con pomodorini e salsa al basilico

Come la stragrande maggioranza degli esseri umani, io ho un sogno.
E' un sogno piccolo. Niente a che vedere con sogni grandi e importanti, ad esempio quello dell'associazione che porta il nome della celeberrima frase di Martin Luther King, e alla quale toccherà sognare ancora a lungo, visto che una certa legge proprio ieri è stata affossata in Parlamento con scuse a dir poco risibili.
Il mio sogno è avere un balcone ove batta il sole.
Perché grazie all'esposizione del palazzo dove abito, il quale palazzo è stato costruito in barba a qualunque buonsenso e a qualsivoglia piano regolatore come spesso accade nell'Urbe, il mio si becca un po' di luce a malapena un'ora al giorno. Questo in estate, perché per i restanti mesi dell'anno manco quello.
Conseguenza è che le uniche piante che vi possono prosperare sono muschi e licheni, e che qualunque altra specie appartenente al mondo vegetale sceglie di commettere suicidio.
Il basilico, ad esempio, che è una delle piante che più mi piacciono, anche per questioni affettive: al mio paese, dove ogni balcone ne reca minimo due o tre esemplari, si chiama vasenecole, che tradotto letteralmente significa "bacia Nicola". Ditemi voi se non è bellissima una pianta che ti invita a baciare qualcuno.
Fatto sta che il baciatore di Nicola sul mio balcone i baci del sole non se li prende mai. E nonostante tutte le cure, le povere piantine che mi ero ostinata a coltivare erano rimaste alte mezzo palmo scarso e avevano assunto il colore di un divo del muto.
Questo fino a quando il mio amico Mauro non mi ha proposto di fargli fare un po' di villeggiatura a casa sua.
Quando sono tornate, erano dei baobab che sfoggiavano foglie di un verde in technicolor quasi insultante.
Un invito irresistibile a mettersi ai fornelli.
Questo è il risultato dell'invito irresistibile, che è stato servito a Mauro qualche sera fa. La ricetta, ça va sans dire, è dedicata a lui con gratitudine.

Ingredienti:
mezzo chilo di strascinati (che per chi non lo sapesse è quella squisita pasta pugliese assai simile alle orecchiette)
un etto di pomodorini
mezz'etto circa di foglie di vasenecole, lavate e asciugate con un canovaccio (non con la carta, per cortesia: ci patiscono)
due cucchiai di formaggio grattugiato (grana o parmigiano vanno benissimo, ma se vi procurate del cacioricotta è il non plus ultra)
un paio di cucchiai d'olio
uno spicchio piccolo di aglio

Preparazione:
in un capace pentolone mettete a bollire adeguata quantità d'acqua con la regolare manciata di sale e con il regolare coperchio, così fate prima e risparmiate sulla bolletta del gas.
Nel frattempo togliete all'aglio il germoglio, fatelo a pezzetti e frullatelo insieme al cacioricotta e all'olio. Se non avete il frullatore, ritenetevi oggetto di un'occhiataccia ben assestata e procedete come segue: con la comune grattugia tritate lo spicchio facendo attenzione a non grattugiarvi anche le dita, e con santa pazienza mescolatelo agli altri ingredienti impiegando il cucchiaio di legno che riservate a salse e intingoli.
Nel mentre che voi siete in tal modo impegnati, l'acqua in pentola avrà iniziato a bollire gagliarda: buttateci gli strascinati e date una mescolata per far sì che non si appiccichino.
E' arrivato il momento di impiegare 'u vasenecole: con le manine sante spezzettate le foglie (perché non con il coltello che è tanto più comodo?, mi chiederete: perché al contatto con il metallo si sciupano, e già avranno quello poco gradito con le lame del tritatutto) e mettetele nel recipiente del frullatore. Poidiché azionate il marchingegno, e fatelo a intervalli brevissimi e solo quel tanto che basta a ottenere una crema liscia e verde. Non di più, altrimenti la cremina si riscalda e anziché verde brillante assume un poco ameno color marroncino: il sapore non ne risente molto, ma il naso e l'occhio sì, e pure loro voglion la loro parte.
Se non avete il frullatore per questa fase, sono veramente crauti (cavoli acidi, per coloro che avessero poco dimestichezza con la cucina teutonica). O vi procurate qualcosa di molto simile a un pestello e pestate il tutto con movimento circolare fino a ridurre in crema il basilico, rassegnandovi al fatto che ci metterete un tempo infinito, oppure tagliuzzate le foglie in pezzi il più possibile piccoli e rimestate il tutto energicamente con il cucchiaio di legno. L'effetto visivo sarà una ciufega, ma il sapore sarà buono comunque.
Travasate la salsa al basilico nella zuppiera che impiegherete per la pasta e aggiungeteci un cucchiaio o due dell'acqua di cottura in modo da renderla più fluida.
Tagliate i pomodorini in pezzi, eliminate l'acqua in eccesso e semi se ce ne sono, e lasciateli da parte.
Scolate gli strascinati non appena sono al dente, buttateli roventi come sono dentro la zuppiera e mescolate per bene aiutandovi con due cucchiai facendo movimenti dal basso verso l'alto.
Aggiungete quindi i pomodorini, date una mescolata veloce, prendete la zuppiera con un bel canovaccio spesso (accorgimento necessario perché scotta come l'inferno) e portate in tavola.
E mentre state mangiando, ripensate ai santioni che avete cacciato mentre litigavate con grattugia, pestello, cucchiaio di legno e quant'altro, e fatevi una nota mentale per comperare alla prossima occasione il benedetto frullatore.
Qualcuno mi chiederà: ma chi vuoi che non abbia un frullatore nella sua cucina?
Che domande: gli ingegneri.
E gli informatici.
E i grafici.
E i matematici.
E i programmatori.
E tutta una serie di altre categorie che, so da fonte sicura, leggono questo blog.
E che invito caldamente a dotarsi di attrezzi atti a spignattare, perché se continuo a dover aguzzare l'ingegno onde suggerire espedienti per supplire a codeste mancanze, diventerò Jessie MacGyver, e non ci tengo davvero.

martedì 13 ottobre 2009

La merenda del bebè: torta di gelato e frutta

Ogni tanto, un bel dolce è quel che ci vuole.
Soprattutto se ci sono cuccioli in casa.
E soprattutto se detto dolce è una scusa per pasticciare in cucina con i succitati cuccioli, nonché per fargli mangiare un po' di frutta, cosa che fa assumere a tutti i miei nipotini l'espressione di un capo sassone cui un emissario di Carlo Magno abbia appena annunciato che, causa atteggiamento rivoltoso, farà la fine di San Giovanni Battista. Ovvero, l'espressione di chi piuttosto che cambiare di una virgola il suo credo (nella fattispecie, che la frutta è roba da scimmie: quello dei capi sassoni era un filino diverso), la testa preferisce perderla, non senza opporre prima una fiera resistenza.
Questa torta incontra sempre grande successo anche se la temperatura esterna è più o meno quella della Groenlandia, o se per questo quella che caratterizza oggi l'Urbe, passata nello spazio di un pomeriggio da un teporino estivo a diciotto gradi secchi di massima: pertanto ve la propongo con la certezza che sarà gradita a grandi e piccini. E pazienza se, dopo averla preparata, vi toccherà passare un paio d'ore a staccare dal soffitto un terzo degli ingredienti che, per qualche misterioso motivo, hanno deciso che dovevano finire proprio lassù.

Ingredienti:
tre o quattro belle pesche, grandi e mature (da sostituire con mele o simili se non se ne trovano, a patto di superare lo sbarramento sospettoso della prole/nipotanza per la quale la mela è tabù)
una vaschetta di gelato di crema da mezzo chilo
un etto circa di biscotti tipo novellini, o qualunque biscotto da colazione
cannella (sempre se riuscite a vincere il citato sbarramento)

Preparazione:
spostate la vaschetta del gelato dal freezer al frigo, in modo che si ammorbidisca senza però sciogliersi.
Nel frattempo, mentre voi sbucciate e tagliate le pesche a fette (attività che è ovviamente riservata a mamma, babbo o zio/a in quanto prevede l'impiego di un coltello) affidate ai cuccioli i biscotti da triturare con le manine, cosa che procurerà a loro gran sollazzo e a voi un pavimento che alla fine dell'operazione sarà coperto da una sottile coltre di briciole. Fa niente: le ramazze sono state inventate proprio per motivi come questi.
Prendete quindi una tortiera con cerniera apribile, foderatene la base con della carta da forno e l'anello con pellicola per alimenti, e fatevi aiutare dai piccoli a coprirne il fondo con le fette di pesca in modo da non lasciare buchi.
Togliete dal frigo la vaschetta di gelato che oramai sarà ben ammorbidito, e sempre con l'aiuto della prole versateci dentro le briciole di biscotto. Ovviamente la cosa si svolgerà con una pioggia di schizzi, ma fa niente: le spugnette sono state inventate proprio per motivi come questi.
Impiegando un cucchiaio (che volerà per aria un tot di volte visto che le creaturelle se lo litigheranno con gagliardìa) travasate quindi il gelato biscottato nella tortiera, facendo in modo da pareggiarlo per bene.
Sulla superficie di gelato sbizzarritevi a fare le vostre belle decorazioni con la frutta rimasta: fiorellini, tondini, quadrucci, foglioline, autoambulanze, qualunque cosa insomma vi suggerisca la vostra fantasia (e soprattutto quella dei piccini, che non mancherà di stupirvi per i livelli cui giunge). Se avete vinto la resistenza, spruzzateci infine un po' di cannella.
Ponete la tortiera nel congelatore per un quarto d'ora circa, ovvero quanto basta perché il gelato si ricompatti quel che è necessario.
Poidiché toglietela, poggiatela su un piatto di portata, sganciate la cerniera con somma cautela, con altrettanta cautela rimuovete la pellicola per alimenti. Non tentate, volendo sfogare il prestigiatore che è in voi, di rimuovere la carta da forno, pena uno smottamento a catena da rivaleggiare con quelli che le pioggerelline autunnali causano sulle superstrade del mio amato Sannio.
Godetevi la soddisfazione dei piccirilli, e portate trionfalmente il dolce in tavola per la merenda.
Guardate le creature con occhio amoroso mentre sbafano la torta, e portate pazienza se il cucciolo di turno con la precisione di un cesellatore si mangia tutto il gelato e, uno per uno, rimette i pezzi di frutta nel suo piatto dopo averli ciucciati.
Portate pazienza pure quando, lasciati i piccoli a giocare come si confà ai piccoli, vi toccherà pulire la cucina.
Siete mamme, babbi, zii, quant'altro. Portare pazienza è il vostro lavoro.
E ne vale la pena.

domenica 11 ottobre 2009

Com'è lontano il mio vicino Totoro

"Tanto è garantito come l'oro che qualche boiata la fanno. Mettiti il cuore in pace, e goditi il film. Semmai, vai di mannaia dopo."
Il mio amato bene aveva, come spesso gli succede, ragione. Si sbaglia solo sulla scelta dello strumento. Che, nella fattispecie, è un mazzuolo di legno. Vi spiego dopo il motivo della scelta. Per adesso, basti dire che sono uscita dal cinema dove proiettavano Il mio vicino Totoro in modalità Okiku.
Di questo bellissimo film avevo già parlato altrove, per cui non dico nulla della trama o delle caratteristiche che lo rendono un capolavoro. E, a scanso di equivoci, sono tanto, tanto grata alla Lucky Red che, bontà sua, ha deciso di doppiare e proporre sul mercato italiano i film di Miyazaki che il pubblico non aveva avuto modo di vedere al cinema per via di una certa faccenduola: goderselo sul grande schermo è ben diverso che sguerciarsi sul televisore casalingo. Però, giacché c'era, poteva fare un lavoro comme il faut. Ci è andata vicina. Il problema è che, per certi versi, ci è andata pure troppo.
Mi spiego.
Chi ha avuto modo di leggere le mie bagattelle sull'animazione giapponese già sa che ho il dente avvelenato causa adattamenti da vergogna, in cui il traduttore tenta pietosamente di strizzare l'occhio al pubblico occidentale con battute che con l'originale non c'entrano un bel nulla o aggiungendo dialogo a man bassa. Non è questo il caso. Il rispetto per l'originale è evidente, molto evidente. Lo è fin dalla sigla iniziale: azzeccatissimo il cantato, tant'è che per i primi secondi ho pensato che avessero lasciato quello nipponico, centrato il significato della traduzione. Io e l'amato bene ci siamo guardati in faccia (un po' difficile nel buio della sala, ne convengo), e abbiamo detto, cosa che non ci succede spesso: "Però, comincia bene".
Il problema è come continua.
Perché il rispetto per l'originale è cosa santa. Quando è eccessivo, no.
Chi ha un minimo di dimestichezza con la lingua del Sol Levante sa quanto i giapponesi siano formali nel parlare. Lo sono in maniera terrificante. Per un povero gaijin, non c'è modo di evitare figuracce spaventose manco se studia indefessamente per anni. Hanno delle costruzioni che grondano cortesia, in cui il tapino occidentale si ritrova stravolto già a metà del "prego umilmente l'eccellenza vostra" (espressioni che, più o meno, si usano anche quando stai chiedendo a un commensale di versarti un bicchier d'acqua). Il punto è che, tradotte letteralmente in italiano, danno la sensazione polverosa di un drammone ambientato a metà Ottocento in qualche casata del Regno delle Due Sicilie. Il che non è gradevole se si sta vedendo una storia che, nella fattispecie, è ambientata nel Giappone degli anni Cinquanta. Men che meno se a espressioni della nobiltà gattopardesca si alternano altre del linguaggio colloquiale. E men che meno ancora se si fanno dire a una creatura di dieci anni costrutti quali "avevi forse l'intenzione". Ha dieci anni, per la miseria. Vabbè che è figlia di un archeologo, ma se a quell'età parla a quel modo chiunque abbia un po' di sale un zucca le fa fare una settimana di cura a base di coda alla vaccinara e film di Tomas Milian.
Chi ha la succitata dimestichezza sa pure che in certi contesti abbondano vezzeggiativi e nomignoli, questi ultimi perlopiù segno di rispetto. Per carità, li abbiamo anche noi. Che si definisca una persona anziana "nonnina" va pertanto benissimo. Se però si mettono in bocca ai personaggi espressioni quali "Da mammina per nonnina!" (lo pronuncia un fanciulletto decenne che ha il livello di civetteria di uno scaricatore di porto) oppure "Avverti papino!" (detto dalla nonnina al succitato fanciulletto), lo spettatore aggriccia. Idem dicasi per la tendenza di Mei, la più piccola delle due protagoniste, a chiamare la sorella maggiore Satsuki sempre e comunque "sorellona": non c'è bimbo o bimba giapponese che non chiami "oneechan" la sorella più grande, se però lo metti in bocca ogni due per tre a una creatura parlante italiano, alla quarta volta scatta il birignao.
I nipponici hanno inoltre il vizio di parlare di sé o dell'interlocutore in terza persona. Il che è spesso strumento chiave per equivoci che in manga e anime si trovano a bizzeffe (esempio classico, la ragazzina che chiede a un ragazzo "Scusa, ma è vero che Tizio frequenta il liceo Taldeitali?", e lui le risponde "E' vero, Tizio frequenta quel liceo": va da sé che il ragazzo è Tizio in persona). Da noi non è particolarmente usato: lo impiegano soprattutto i bambini. E va benissimo che nel film la piccola Mei dichiari fieramente "Mei non ha paura!". Va meno bene che parli di sé in terza persona sempre, e della mamma in terza persona pure quando la citata mamma è presente. Il birignao scatta subito, e nella assoluta spontaneità suggerita dal contesto e dalle immagini è a dir poco micidiale.
Mei, per inciso, è proprio quella che se la passa peggio. Nella versione originale è una deliziosa creaturella sui tre anni, e come tutti i piccini di quell'età ogni tanto intruppa sulle parole o le dice a modo suo. E' proprio lei a battezzare lo spirito della foresta con il nome Totoro, storpiatura dell'inglese "troll" (reso in giapponese con tororu) che non riesce a pronunciare. Nel doppiaggio, parla con la nitidezza di una signorina buonasera vecchio stampo. Per cui, quando la traduzione le mette in bocca "girelli" anziché girini, vien voglia di dare il girello in testa all'adattatore fino ad esaurimento dello stesso.
Tutto ciò fa dar di matto a uno spettatore che, come la sottoscritta, abbia già visto più volte Totoro in versione originale, e lo consideri uno dei più bei film che l'animazione giapponese e non solo ci abbia mai regalato.
Fa dare ancor più di matto considerando che alcune cose della traduzione sono assolutamente sublimi.
Prendiamo un caso eclatante: i Makkurokurosuke, ovvero gli spiritelli fuligginosi che all'inizio del film infestano la casa dove le piccole protagoniste e il loro papà vanno ad abitare. Letteralmente, sono i "cosi nerissimi". Vengono resi con "nerini del buio". Che è pressocché perfetto, sia per significato, sia per la metrica. Oppure la scena in cui la nonnina, terrorizzata perché Mei non si trova, prega febbrilmente: "Namu amida butsu, namu amida butsu", tradotto con "nel nome di Buddha, nel nome di Buddha" e reso ancora più emozionante dalla somma Liù Bosisio. Mi si dirà che sono piccolezze: non lo sono. Sono le cose che mi fanno alzare e togliere il cappello.
Peccato che poi chi ha tradotto e adattato incorra in perle come Totoro definito "fantasma" da Satsuki (nell'originale è "spirito", cosa ben diversa) o che il mitico Gattobus, in originale Nekobasu, venga reso letteralmente con "autobus gatto".
Autobus gatto? Quando Gattobus metricamente era perfetto, e perfettamente comprensibile anche per uno spettatore che vada all'asilo?
Si vede che lo sforzo dedicato ai Makkurokuroske aveva esaurito in chi ha tradotto e adattato qualunque riserva di creatività.
Vi consiglio comunque di andare a vedere Totoro al cinema. Non c'è adattamento malfatto o legnoso che possa scalfire il senso di meraviglia che trasmette. Vederlo sul grande schermo e poterne apprezzare tutti i magnifici dettagli del disegno e dell'animazione è emozionante. Fa quasi passare sopra al fatto che la versione italiana sia un'occasione davvero sprecata.
Quasi, per l'appunto.
Ed è per quello che mi armo di mazzuolo.
Perché se putacaso mi trovo davanti traduttore & adattatore, visto che hanno mostrato un rispetto tanto pedissequo quanto pigro nei confronti dell'originale giapponese, sarà mio piacere ridurli in mochi.
Che per coloro che non lo sapessero è il dolce tradizionale nipponico per eccellenza, fatto con riso glutinoso che viene pestato, pestato e ancora pestato fino a quando non è diventato una collosa poltiglia.
La prossima proposta in italiano della Lucky Red dovrebbe essere Porco Rosso.
La attendo con entusiasmo e con fiducia.
Che spero sia ben riposta.
Perché in caso contrario sostituisco il mazzuolo di legno con un Savoia Marchetti S.21 e, vi assicuro, sarà di gran lunga peggio.
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