sabato 30 maggio 2009

Pane e pizza a quattro mani

Se c'è una cosa che mi piace, è andare al paese del mio amato bene.
Primo, perché mi ricorda molto il mio. Mi si dirà che i paesini si somigliano tutti. Sarà vero, ma il mio e il suo si somigliano più degli altri. Entrambi si trovano in mezzo a colline di querce, verdi in estate e di tutte le sfumature dal rosso al bruno in autunno. Da lui come da me, quando è stagione nei boschi crescono violette e ciclamini. Tutti e due hanno un impianto medioevale, con viuzze e vicoletti che si snodano fra case di pietra e sbucano sulle valli. E il cocuzzolo del campanile della chiesa madre pare il gemello di quello della chiesa madre che sta da me. Uno vanta una balaustra opera del Bernini e un condottiero medioevale a cavallo (noto anche per aver dato una bella saccagnata ai francesi in quel di Barletta), l'altro un bellissimo Cristo di scuola napoletana e un martire della rivoluzione partenopea che, preso prigioniero dai mercenari del duca cui si opponeva, venne fatto trascinare a morte da un cavallo sulla spiaggia di quello che all'epoca era un villaggio di pescatori e adesso è una orribile colata di cemento dove in estate si riversa tutta la regione. Insomma, a ciascuno il suo. Fatto sta che quando sono in questo paese che pare prenda il nome da un campo di ginestre, la nostalgia si fa meno acuta.
Secondo, perché quando c'è vacanza per due o tre giorni di fila, la famiglia si sposta in campagna. E in campagna entra in azione il Dream Team della panificazione.
Il Dream Team è composto dal papà e dalla mamma del mio compagno, e quando lavorano insieme è uno spettacolo. Sono precisi come un orologio svizzero, affinati da quintali e quintali di pane fatto assieme. Tutto è calcolato con precisione ingegneristica. Più che un'operazione di cucina, è un rito. Non mi stanco mai di guardarli.
Per prima cosa, il papà va a prendere la madia per impastare, che ha fatto costruire lui stesso quarant'anni fa. Poi pesa la farina. La mamma scioglie il lievito di birra in adeguata quantità di acqua. In un altro pentolino viene preparata una mistura di acqua e sale. Quindi inizia l'opera.
Lui impasta, lei versa il lievito. La massa inizia a gonfiarsi. Man mano si aggiunge farina. Poi l'acqua salata. Lui solleva la massa di pasta e la sbatte per farle incorporare aria. Lei con il raschietto spinge verso l'impasto residui di pasta, acqua e farina.
Su un grande telo pulito e cosparso di farina di grano duro vengono quindi messe le pagnotte per la lievitazione, che vengono cosparse anch'esse con uno straterello di farina e poi coperte con i lembi del telo. Si mette da parte la pasta che serve a fare la "pizza per terra", una focaccia che somiglia molto alla shcanàta del mio paese. Nel frattempo lei mette in ordine, lui va a sorvegliare il forno, un bellissimo forno a legna costruito sotto la sua direzione.
Quando la temperatura è giusta, le pagnotte sono pronte e la pizza è stata stesa nelle teglie (una delle quali è una custodia per pizza, intesa come bobina di film), si procede con la cottura. Mamma e babbo portano il grande supporto in legno fino al forno. Con l'assistenza di lei, lui inforna pagnotte e teglie, e sorveglia il fuoco. Io e il mio compagno curiosiamo, facciamo due passi fra gli alberi da frutto, giochiamo con i gatti, e aspettiamo. Nell'aria c'è l'odore della legna arsa, cui man mano si aggiunge quello del pane che si cuoce.
Per me è l'odore più buono del mondo, e ha l'effetto della famosa madeleine: sento il profumo e ricordo il forno del mio paese, con le vecchiette assiepate in uno stanzone enorme a chiacchierare in attesa che la fornaia, unica autorizzata a compiere l'operazione, tirasse fuori le pagnotte e i dolci. Quando mia zia non guardava io uscivo nel cortile posteriore, pieno di macchine agricole e sacchi vuoti dove si rintanavano i gatti, che dava sulla campagna. Il forno della mia infanzia ha cessato l'attività da parecchi anni. Però grazie al mio compagno ce n'è un altro, e anche qui se alzo lo sguardo c'è campagna e colline e alberi a perdita d'occhio, e ci sono gatti con cui giocare.
Quando poi il romanticismo d'accatto diventa soverchiante, capisco che è arrivato il momento di dare un'azzannata a una fetta di pane appena sfornato.
Il pane del Dream Team è buono, ma buono davvero: crosta croccante, mollica morbida e compatta senza essere pesante, e si conserva benissimo per più giorni. A me piace moltissimo abbrusco, ovvero abbrustolito sul fuoco del camino e poi condito con un goccio d'olio. La pizza, se possibile, è ancora migliore: alta così, fragrante, saporita sia semplice sia che nella versione al pomodoro. Se ne può mangiare tranquillamente una decina di pezzi di fila, per poi accorgersi che si è pieni da scoppiare quando oramai è troppo tardi. Ma l'indigestione vale la pena.
Per quanto riguarda la ricetta precisa ho indagato un sacco di volte, ma le risposte sono state discordanti. A quanto ho capito osservando ci vuole un cubetto di lievito per ogni chilo di farina, acqua e sale quanto bastano, impastare finché non ti fanno male le braccia, molta pazienza e una collaborazione perfetta con il partner.
Un po' di questi ingredienti danno eccellenti risultati anche per cose diverse dal pane.
Ma sto divagando di nuovo.
Buon weekend.

venerdì 29 maggio 2009

Dolmadakia a ciambella

Per questa ricetta devo ringraziare il mio collega Paolo per il suo fondamentale contributo: è stato lui infatti a portarmi le foglie di vite fresche della sua vigna, e questo nonostante mi fossi completamente dimenticata di ricordarglielo.
Fra le sue molte qualità, Paolo ha quella di essere un ottimo cuoco (un'altra non da poco è una voce di tenore coi controfiocchi, e infatti ogni tanto ci dilettiamo in duetti di musica rinascimentale attirandoci gli accidenti di tutto l'ufficio; ma sto divagando), e lo scorso finesettimana si è cimentato nella preparazione dei dolmadakia, ovvero gli involtini di riso alla greca in foglie di vite. Spinta da cotanto zelo gastronomico, ho messo da parte la consueta pigrizia e ho deciso di imitarlo: ma la succitata pigrizia mi faceva piangere come un gatto al pensiero di fare decine di involtini. Per cui ho ben pensato, anziché farne tanti, di realizzarne uno solo formato gigante: so che qualunque casalinga ellenica mi inseguirebbe brandendo una scopa, però nonostante non sia la ricetta originale è buonino e si presenta pure bene.

Ingredienti:
una quarantina di foglie di vite fresche, rigorosamente non trattate
300 grammi di riso a chicco lungo
una decina di pomodori secchi sott'olio
150 grammi di feta
un limone
una tazzina da caffè d'olio
mezza cipolla media
una bella manciata di erbe aromatiche miste: aneto fresco (altresì noto come finocchietto), basilico, menta, prezzemolo
una spruzzata di peperoncino

Preparazione:
prendete una pentola bella grande (ottimo il paiolo per cuocere la pasta), riempitelo d'acqua, salate e mettete a fuoco vivace. Quando bolle, buttateci le foglie di vite dopo averle lavate ben bene in acqua corrente e aver tolto il picciolo. Fatele cuocere per una mezz'ora, finché le nervature son diventate morbide (e non tiratele fuori prima, altrimenti vi sembrerà di masticare dell'erba di prato).
Quando sono cotte passatele sotto l'acqua fredda e tamponatele con uno strofinaccio pulito. Quindi prendetele una ad una, allargatele con somma cura in modo da non sbrindellarle e sistematele in più strati all'interno di una ciotola capiente, irrorando ogni strato con una salsina fatta mescolando il succo di un limone, una tazzina d'olio (che va aggiunta al succo piano piano e battendo con la frusta, o con una forchetta se non l'avete) e qualche fogliolina d'aneto. Fatto ciò, lasciate riposare (più le foglie si impregnano di salsetta, meno sapranno di prato) e passate alla fase successiva.
Detta fase è la preparazione del ripieno. In una pentola antiaderente fate appassire la mezza cipolla tritata con un cucchiaio d'olio: una volta che è diventata trasparente buttateci dentro in sequenza metà delle erbe aromatiche tritate, il peperoncino, il riso e fate tostare per un minutino come fareste per un risotto. Aggiungete quindi poco sale (non tanto, perché il condimento che metterete poi ne ha in abbondanza) e il doppio della quantità d'acqua rispetto al riso, mettete il coperchio di vetro e lasciate cuocere finché il riso è al dente. Spegnete il fuoco, versate il tutto in una ciotola e lasciate raffreddare un quarto d'ora.
Una volta che il riso è a temperatura ambiente si può procedere all'aggiunta del condimento: l'altra metà delle erbe aromatiche tritate, i pomodori secchi tagliati a pezzetti, la feta sbriciolata, e man mano che mescolate aggiungete la metà della salsina di limone e olio che vi era avanzata.
A questo punto è arrivato il momento di procedere alla messa in forma del tutto.
Prendete lo stampo con cui fate il ciambellone e foderatelo con molta cura di foglie di vite, badando di tappare tutti i buchi: per ottenere ciò, il sistema più indicato è mettere un primo strato di foglie in modo che debordi un po' all'esterno, un altro che copra la parte rialzata centrale, e quindi procedere con quello che ricoprirà il fondo.
Procedete quindi a mettere il ripieno a cucchiaiate, in modo da non lasciare vuoti su tutta la circonferenza della ciambella.
Da ultimo, ripiegate verso l'interno le foglie in modo da coprire completamente il ripieno. Et voilà!
Fatto ciò, si procede a compattare il tutto in modo che, al momento di sformare la ciambella, questa non assuma le sembianze di un campo da golf.
Prendete un bel pezzo di pellicola per alimenti e coprite tutta la superficie della pietanza, quindi metteteci su dei pesi (va benissimo della frutta dal discreto peso specifico, come le arance che avevo in frigo io).
Mettete lo stampo in frigo e lasciatecelo per qualche ora.
Al momento di servire tiratelo fuori e lasciatelo a temperatura ambiente una decina di minuti, quindi capovolgetelo summa cum cautela su un piatto di adeguata circonferenza, mettete nel buco della ciambella dei pomodori in pezzi, qualche fogliolina di insalata o quel che maggiormente vi ispira, e portate in tavola.
Ribadisco: non è la ricetta originale, e qualunque cuoca dell'Ellade alzerebbe gli occhi al cielo. Però, con l'amato bene e gli amici ci ho fatto un figurone. E ciò mi basta.

giovedì 28 maggio 2009

Torta di compleanno per donne che hanno troppo da fare

Questa è una torta da mezz'ora scarsa. Per cui è adattissima nel caso malaugurato che vogliate festeggiare adeguatamente chi vi vuol bene ma il tempo tiranno, gli impegni, un tornado e un'invasione di cavallette vi abbiano impedito di dare libero estro alle vostre capacità. A me è successo al compleanno del mio compagno di casa e di vita. Con somma vergogna e correndo come inseguita dal drago ho approntato questa, che è stata parecchio apprezzata.

Ingredienti:
6 sfoglie dolci già pronte rettangolari o quadrate (ottimo se ve le fa quella pasticceria tanto buona, ma vanno bene pure quelle del supermercato)
crema pasticcera (dose tripla rispetto a quella riportata nella ricetta)
250 centilitri di panna fresca da montare
100 grammi di mandorle a lamelle
matita del pasticcere al cioccolato (la trovate ormai anche negli hard discount)
roselline di ostia, fiorellini di zucchero, o qualunque cosa vi garbi

Preparazione:
fate la crema pasticcera e mettetela a raffreddare, immergendo la pentola in acqua con qualche cubetto di ghiaccio per accelerare i tempi. Prendetene circa la metà e mettetela in una ciotola abbastanza capiente.
Montate metà della panna, e incorporatela alla metà della crema nella ciotola facendo così una crema chantilly.
Prendete una base per torta in plastica o cartone e copritela con un foglio di carta da forno.
Poggiateci su la prima sfoglia (avendo cura di mettere la parte più piatta sul fondo) e cospargetela senza eccedere di crema pasticcera semplice. Poggiate la sfoglia successiva e spalmatela di crema chantilly, e proseguite alternando fino a quando non sono finite le sfoglie, l'ultima delle quali andrà poggiata in modo che la facciata più liscia sia quella da decorare.
Con la crema chantilly avanzata coprite bene i bordi della torta, facendo attenzione a non lasciare buchi.
Montate la panna rimanente con un cucchiaio scarso di zucchero, e coprite con essa la superficie della torta.
Applicate le mandorle a lamelle lanciandole (non sto scherzando: è il metodo più comodo ed efficace) a manciate sui bordi della torta in modo che si attacchino alla crema chantilly.
Con la matita del pasticcere fate una bella scritta d'augurio sulla superficie della torta (magari in maniera meno goffa della mia; a parziale discolpa, va detto che per qualche mistero della fisica il cioccolato della matita si era solidificato in un blocco unico, e per farlo uscire dalla bocchetta erano necessari sforzi inauditi).
Completate la decorazione con roselline, fiorellini o quel che avete sottomano (fragole, rondelle di kiwi, cioccolatini, mezze noci, e la lista può continuare all'infinito).
Con somma cautela sfilate la carta da forno da sotto la torta, che così si troverà già bella e pronta sul suo vassoio.
Piazzateci su una candelina.
Quando chi vi vuol bene sta per varcare la porta, alla velocità del suono accendete la candelina e fatevi trovare con la torta in mano e un bel sorriso in faccia.
Per l'amor del cielo: evitate di cantare "Happy birthday Mr. president". Basta il sorriso. Davvero.

mercoledì 27 maggio 2009

Riso al curry

Questa ricetta è buona per tutte le stagioni: che la si serva quando si crepa di caldo o quando si hanno i ghiaccioli sotto il mento, è sempre un degno modo per far contenti se stessi e i commensali. La si può trovare in tutte le declinazioni possibili a seconda che il cuoco sia indiano, giapponese, pakistano o di Betelgeuse, e per quanto mi riguarda dà sempre soddisfazione: la versione che propongo qui è quella basic, con cui approntare in pochi minuti un primo piatto, oppure accompagnare carne, verdure e quant'altro si sia deciso di preparare. E' ottima anche per ripresentare a tavola in maniera acconcia eventuali contorni che siano rimasti sul groppone da un pasto precedente: ad esempio, come nel mio caso, quelle carote al curry e quei piselli con cipolle che, a rivederli la sera dopo, veniva da intonare le Lamentazioni di Thomas Tallis.
(Mai sentito Tallis? Vi siete persi qualcosa, lasciatevelo dire. Se poi lo conoscete tramite quell'abominio che è la serie televisiva sui Tudors siete pregati di interrompere la lettura, e di riprenderla solo dopo aver fatto penitenza ascoltando polifonia rinascimentale per una settimana di fila).

Ingredienti:
250 grammi di riso (se possibile basmati, ma va bene anche il parboiled e qualunque riso a chicco lungo)
una cipolla media
una carota media
una manciata di sedano a rondelle
un cucchiaio d'olio
un cucchiaio di curry mild (ma se abbondate, non fate un soldo di danno)

Preparazione:
in una pentola antiaderente mettete la cipolla tritata a imbiondire nel cucchiaio d'olio. Aggiungete quindi il sedano, la carota a pezzetti e il curry e mescolate per qualche secondo a fuoco vivace. Mantenendo alta la fiamma aggiungete il riso e sempre mescolando fatelo tostare per qualche secondo, perché si insaporisca ben bene con spezie e verdure.

Abbassate la fiamma e versate man mano una quantità d'acqua equivalente al doppio del peso del riso, attendendo che questo assorba il liquido prima di aggiungerne altro, sempre girando con il cucchiaio di legno. Salate, mettete sulla pentola il fido coperchio di vetro e lasciate lentamente cuocere per una quindicina di minuti.

Assaggiato il riso e constatato che è cotto (lasciatelo sempre un po' al dente, soprattutto se non dovete servirlo subito), spegnete il fuoco e versatelo in una scodella capace, oppure portate la pentola direttamente in tavola se i vostri commensali non fanno smancerie.
Tenete a portata di mano la bottiglia dell'acqua nel caso vi capitasse il solito ospite rompiscatole per il quale tutto è piccante, e che si lamenta che volete avvelenarlo con questa robaccia forestiera.
Se poi l'ospite rompiscatole è pure l'unico commensale, diminuite la dose di curry a un cucchiaino. Oppure cambiate menù e fategli due spaghetti. Scotti, ovviamente. Chi rompe le scatole a tavola, deve soffrire.

martedì 26 maggio 2009

Cucina di guerra: passato di bucce

Lo dico subito: questa è una ricetta che sconsiglio vivamente. La preparazione è lunga una quaresima, ci vuole una pazienza infinita e un'altrettanto infinita perizia (che io non ho), e il sapore non è manco sto granché.
Mi chiederete: perché la proponi, allora?
Perché è (letteralmente) un residuato bellico, o per meglio dire autarchico. La si può trovare nelle Altre ricette di Petronilla edito nel 1937 (XV anno E.F., of course), uno dei testi che nella biblioteca della casalinga dell'epoca non mancavano mai. La copia in mio possesso, sbrindellata da decenni di uso, apparteneva a mia nonna, che la teneva accanto all'Artusi e al Talismano della Felicità. Mi è capitata in mano in quell'età cruciale in cui si sta decidendo cosa si è, non si è e non si vuole essere, ed è stata una lettura altamente istruttiva.
Primo, perché restituisce uno spaccato senza eguali della media e piccola borghesia dell'epoca, e degli sforzi erculei necessari a mantenere una risibile facciata di decoro pur senza avere una lira che avanzasse (l'introduzione, in cui Petronilla insegna alla casalinga dell'epoca - ché solo casalinghe si poteva essere, fosse mai che si scippasse il lavoro agli uomini - come ben figurare senza molto spendacchiare in caso di pranzi e colazioni con ospiti "di riguardo", è un vero gioiello).
Secondo, perché bastano poche pagine per far nascere una sana indignazione anche alla più ottusa delle aspiranti veline, letterine e letteronze, tramutandole d'incanto in agguerrite emule di Adele Faccio (è sufficiente la chiosa alla ricetta delle bistecche miste, da portare in tavola con contorno di "ciò che più piace al marito, dato che il padrone, quello che lavora e che guadagna per tutti, è… lui; e soltanto lui!").
Terzo, perché riempie di doveroso rispetto nei confronti delle nostre nonne e prozie, costrette a fare i salti mortali per portare in tavola un pasto decente usando ingredienti come, ad esempio, le bucce di piselli.
Visto che avevo un po' di tempo libero, l'ho impegnato nel tentativo malriuscito di realizzare il temibile passato con questa verdura che "costa un bel niente!", per citare l'autrice. In effetti non costa nulla in denaro; ma costa, e tanto, la preparazione. Personalmente, sarà l'imperizia, ci ho messo più di un'ora, ma non credo che la casalinga media dell'epoca ci mettesse meno. Pertanto dedico il tempo impiegato a spignattare alle mute eroine che, per far quadrare il bilancio familiare, trascorrevano i migliori anni della loro vita davanti ai fornelli.

Ingredienti:
mezzo chilo circa di bucce di piselli
20 grammi di burro
due cucchiai di farina
un bicchiere di latte
due o tre cucchiai di parmigiano
un pizzico di noce moscata
un uovo
svariati quintali di pazienza

Preparazione:
lavate ben bene le bucce, mettetele a lessare in una pentola capace e, quando si sono cotte (voi mi direte: e chi le ha mai viste cotte, le bucce di piselli? Sono cotte quando sono diventate parecchio morbide, e le si può infilzare con la forchetta), scolatele e fatele raffreddare.
Quindi prendete un setaccio o un colino di acciaio a trama fitta, poggiatelo su una scodella, metteteci un po' alla volta le bucce cotte e premendole con il fondo di un bicchiere raccogliete la polpa delle stesse (vi ritroverete, vi avverto, con una quantità di scarto impressionante).
In un pentolino fate una besciamella mescolando su fuoco basso il pezzo di burro e i due cucchiai di farina: quando si sono incorporati e hanno assunto un colore dorato, aggiungete man mano il bicchiere di latte. Quando la besciamella si è addensata, versateci la polpa delle bucce e mescolate.Alla crema aggiungete un tuorlo d'uovo in precedenza sbattuto, il parmigiano grattugiato, il pizzico di noce moscata e da ultimo l'albume che avrete montato a neve con un pizzico di sale.
Traferite infine il composto in un piccolo stampo da budino imburrato e infarinato, e mettetelo in una pentola a cuocere a bagnomaria, curando di mettere nella pentola tanta acqua quanto ne occorre per arrivare quasi al livello del passato.
La ricetta originale recita a questo punto di far "bollire l'acqua fino a che nel passato... Fino a che, come per ogni altro passato, immergendo in esso uno stecco, questo ne uscirà pulito, cioè senza traccia di pasta ad esso appiccicata", a quel punto di versare il passato in un piatto capovolgendovi lo stampo, e assicura: "sentirai i commenti familiari!"
Ora, io di passati non ho molta esperienza, ma è trascorso un tempo che mi è parso infinito e la massa non accennava a solidificarsi comme il faut neanche a invocare lo spirito di Escoffier. Pertanto, dopo tre quarti d'ora ho spento il fuoco, ho versato alla benemeglio l'abortita pietanza in una scodellona e ci ho messo sopra, a lenire la tristezza del tutto, due foglioline di basilico.
Il compagno di casa e di vita, rientrato alla consueta ora tarda, si è fatto un sacco di risate a vedermi guatare con occhio truce il passato che non si consolidava e, al momento dell'assaggio, mi ha assicurato che "non era niente male"; confermo il giudizio, ma il "niente male" è dovuto al fatto che nel piatto esecrando c'erano comunque besciamella, formaggio e quant'altro che gli hanno dato sapore. Le bucce di piselli tuttora non so di che sappiano; se hanno una qualche personalità di gusto, nella preparazione la perdono. Oppure quel sentore di erba di prato che ho avvertito era dovuto a loro.
L'esperienza, che non ripeterò più neanche sotto la minaccia di tortura, è stata comunque assai formativa: la prossima volta che torno a casa e mi verrà da sbuffare al pensiero di mettermi ai fornelli, andrò con la mente alle poverette impegnate a pressare bucce e benedirò di essere nel secolo ventunesimo.
Un piccola nota per finire: Petronilla si chiamava in realtà Amalia Moretti Foggia, è stata una delle prime laureate in medicina d'Italia, lavorava come pediatra presso l'ospedale milanese di Porta Venezia, e oltre alla rubrica di cucina tenuta come Petronilla sulla Domenica del Corriere, sullo stesso settimanale forniva consigli di igiene e risposte sui più diversi problemi di salute con il nome di dottor Amal. Uno pseudonimo maschile, ovviamente, nonostante fosse una professionista di fama: figurarsi se all'epoca una donna poteva occuparsi di scienza e medicina venendo presa sul serio. Adesso stiamo decisamente meglio: abbiamo addirittura donne che fanno i ministri, e vengono prese molto sul serio.

lunedì 25 maggio 2009

Viva San Pardo!

Oggi è uno di quei momenti in cui mi ruga di abitare nella Grande Città. Mi ruga perché a pochi chilometri dal mio paese è festa grande, e durerà per tre giorni, come succede da secoli. La festa in questione è quella con cui Larino celebra il suo patrono San Pardo, e lo fa in grande stile: una processione di centoquaranta carri trainati da buoi e coperti di fiori di carta fatti a mano. Lo spettacolo è incredibile: dalle foto che posto potete averne solo un'idea.
Larino è un paesone a tradizione agricola, e da sempre è in accesa rivalità con il mio: da me i rinìsh sono considerati dei rozzoni, tirchi come Scrooge per soprammercato (tale opinione è ben espressa da questo scambio fittizio in cui uno domanda a un larinese "Fratè, qual è a casa tìa?", e riceve come risposta "Quella addò esce 'u fum' 'a matìna": della serie, ospitalità questa sconosciuta). I rinìsh non hanno di noi miglior considerazione, e qui gli aneddoti e gli sfottò si sprecano, ma non li cito per campanilismo. Nella rivalità vengono ovviamente coinvolti anche i rispettivi patroni: se un larinese dovrà tirar moccoli citerà il nostro Sant'Onofrio, se lo fa un compaesano sarà vittima San Pardo.
Campanilismo a parte, Pardo è un gran santo, e i suoi protetti ci tengono. Ci tengono da sempre, e così tanto che, dice la leggenda, le sue spoglie furono oggetto di quella che con un bell'eufemismo viene definita "sacra rapina". In sintesi: senza patrono, si sa, non si può stare; ogni luogo ha bisogno di un protettore munito di aureola. Pertanto si adocchia un santo che può fare al caso proprio, e se ne rubano le reliquie alla comunità di appartenenza con un'azione stile commando. E' quello che accadde nel X secolo con San Pardo, le cui venerate ossa vennero portate a Larino su un carro trainato da buoi (e le povere bestie, ci si può giurare, vennero fatte correre all'impazzata): proprio da questo pare derivi la modalità dei festeggiamenti, che è quella della carrese e, in forme diverse, è diffusa più o meno in tutta la mia regione.
Come detto, lo spettacolo è grandioso. Immaginatevi centinaia di carri, tutti uguali - la forma è quella degli antichi carri coperti romani, che ricordano molto anche quelli dei pioneri; alcuni, più moderni e in numero ristretto, hanno la forma a baldacchino - e però tutti diversi: ciascuno è infatti decorato a seconda del gusto e della perizia della famiglia proprietaria. E la perizia è tanta: su uno si vedrà un'esplosione di margherite gialle e rosse, un altro sarà coperto di sterlizie arancioni, altri ancora di convolvoli blu, di calle bianche, di rose di ogni sfumatura, ciascun fiore approntato con mesi di paziente lavoro dalle donne del paese (e non crediate che, per risparmiare tempo, le sfiori il pensiero di contentarsi di fiori già pronti e disponibili in commercio: se vi fate un giro per il paese nelle settimane precedenti la festa, troverete sulla vetrina di ogni cartoleria la scritta "si vende carta per i fiori di San Pardo").
Non ci sono solo i fiori: la fantasia femminile si esprime anche in altri elementi decorativi, pure questi sempre uguali e sempre diversi. Le tendine che chiudono i carri sono di volta in volta fatte di lino, di tulle, di pizzo realizzato a mano, mentre le bandierine ai lati della cassetta recano la scritta "Viva S. Pardo" a stampa, in ricamo, dipinta oppure all'uncinetto. E sempre fatte a mano sono le fasce candide che adornano le corna dei buoi, su cui viene appuntato un fiore dello stesso colore di quelli che adornano il carro.
Le fasce dei buoi sono uno degli elementi che denotano l'antichissima origine propiziatoria della festa (ricordate le strisce di stoffa bianca con cui i greci andavano a invocare clemenza dal dio di turno?). Un altro è il considdetto "albero del maggio", che viene innalzato sul timone del carro la mattina del 26, il giorno in cui ricade la ricorrenza: un ramo di ulivo che viene decorato con fiori di carta e scamorzine, per augurare l'abbondanza dei raccolti.
La festa segue da sempre lo stesso rituale. La sera del 25 maggio, all'imbrunire i carri partono in fila dalla cattedrale romanica per recarsi al cimitero dove, in una piccola cappella, si trova la statua del copatrono San Primiano: al calar del buio i carri vengono illuminati, e sul percorso si snoda lentissimo un fiume di luce, lungo centinaia di metri, che accompagna San Primiano fino in cattedrale.
Il giorno dopo i carri si assiepano davanti alla chiesa, e attendono che esca il busto d'argento di San Pardo: quando la statua viene portata sul sagrato per iniziare la processione, i campanacci di tutti i buoi vengono fatti squillare simultaneamente. Al passaggio del santo, i buoi vengono fatti inginocchiare. Lentamente, quindi, ciascun carro segue i portatori di San Pardo in fila, dal primo all'ultimo: i grandi carri a botte infiorati, quelli a baldacchino, i minicarri condotti da ragazzi e trainati da pecorelle, e quelli minuscoli portati a mano dai bambini o muniti di piccoli buoi di legno a rotelle.
La festa continua fino a sera con i modi che contraddistinguono le feste di paese: gente in strada, chiacchiere, luci, fuochi d'artificio, bancarelle, e nell'aria aroma di noccioline, zucchero filato e salsicce, cui si unisce quello più insolito dei tercine, involtini fatti con carne e spezie avvolti in budella di agnello.
Il 27 maggio arriva il momento di riportare San Primiano nella sua cappellina: questa volta lo accompagna San Pardo, seguito da tutti i carri grandi e piccoli. Il rito conclusivo è il rientro di San Pardo in cattedrale: e dai carri, assiepati davanti al sagrato, si leva l'ultimo scampanio che saluta il patrono e segna la fine della festa.
Di tutto questo io quest'anno non vedrò un bel niente.
Beh, l'ho già visto due volte, che è più di quanto possa dire molta gente. Mia zia Maria ha partecipato alla festa per la prima volta a ottant'anni nonostante abiti da sempre a dodici chilometri da Larino, e se non l'avessi trascinata manco saprebbe com'è fatta. Per cui fa lo stesso.
Come no.
Vado a farmi un caffè, tanto più nervosa di così non credo di diventarci.
Viva San Pardo.

domenica 24 maggio 2009

Marmellata di fragole

Ieri sera sono andata a cena dalla mia vecchina, e come sempre è stato un gran piacere. Abbiamo mangiato un po' di pizza e dell'insalata, inutile pensare a qualcos'altro con l'afa che c'era. Poi, visto che c'era l'afa, abbiamo deciso di fare un po' di marmellata, tanto per rinfrescare l'aria. La scusa ce l'hanno data un po' di fragole malconce che avevo portato con me, incerta sulla destinazione d'uso. Quello che vedete in primo piano è il risultato: solo parziale, perché un altro barattolo l'ho lasciato per i miei. Ciò che spicca in secondo piano è invece regalo della zia: salsa fatta in casa, semplice e aromatizzata con aromi e peperoni, che non vedo l'ora di testare la prossima volta che farò le polpette. Ma procediamo con ordine.

Ingredienti (per un barattolo medio):
700 grammi circa di fragole già pulite
100 grammi di zucchero
scorza di limone in pezzi (solo la parte gialla)

Preparazione:
tagliate le fragole a pezzi e mettetele in una pentola antiaderente a cuocere con un cucchiaio d'acqua a fuoco basso. Butteranno fuori un bel po' di sugo: lasciate che si cuociano nel loro brodo, curando di mescolare ogni tanto con il cucchiaio di legno.

Fate attenzione a quando il liquido inizierà ad asciugarsi: da quel momento in poi la marmellata va attentamente sorvegliata, se non volete trovarvi una poltiglia che sa di bruciaticcio. Mescolate sempre a fuoco basso per evitare che il composto si attacchi e aggiungete qualche pezzo di scorza di limone, continuando a girare.

Quando la frutta ha assunto una consistenza quasi gelatinosa, è il momento di aggiungere lo zucchero (la percentuale è di 7 a 1, nella ricetta di famiglia; so che molti per un chilo di frutta ne mettono altrettanto di zucchero, ma se la frutta è buona, perché ucciderne il sapore con una valanga di semolato?). Mescolate molto bene finché non si è sciolto tutto, e continuate a girare finché non vedete che il composto si è ben addensato.

A questo punto, è arrivato il momento di fare la celebre "prova piattino": prendete un piattino da caffè, metteteci su un cucchiaino del composto, aspettate qualche secondo e inclinate. Se la marmellata non scivola, è pronta. Se scivola, è il caso di farla cuocere ancora un po', anche se dopo tanto mescolare vi sentirete come le streghe del Macbeth alle prese con il pentolone.
Quando è pronta spegnete il fuoco, fate raffreddare qualche minuto, quindi prendete il barattolo (per la quantità prescritta uno di media grandezza è sufficiente; ovviamente potete moltiplicare le dosi come e quanto più vi piace), riempitelo con un cucchiaio onde non scottarvi, mettetegli il tappo e capovolgetelo: in questo modo si sigillerà da solo, evitandovi la rottura di scatole del bagnomaria - metodo che comunque è necessario per una conservazione ottimale, soprattutto se volete conservare la marmellata per mesi.
Oppure assaggiate, convenite che tutto sommato la fatica dell'invasamento non vale proprio la pena per una quantità così piccola, versate la marmellata in una ciotola e portatevela sul balcone insieme a un mezzo chilo di gelato alla vaniglia: scoprirete che si sposano perfettamente, e che sono un fior di sistema per passare una piacevole serata.

sabato 23 maggio 2009

Kaze wo atsumete

Il mio collega e meteo-man Giuseppe mi ha comunicato che oggi è la giornata più calda di una settimana che ad afa già non scherzava. Per cui niente fornelli. Si va avanti a frutta e insalata. E visto che mi pare assurdo accendere il condizionatore prima che arrivi giugno (mi direte: perché? Non c'è un perché. Diciamo che è una questione di pudore nei confronti di madre natura. O a scelta, una dimostrazione di testardaggine che rasenta l'idiozia), si impiegano i più recenti ritrovati della tecnica moderna. Come quello della foto.
Mi pare giusto dedicargli un post giacché il mio compagno di casa e di vita per regalarmelo ha speso un patrimonio. La cifra non la riferisco, ma rapportata ai materiali impiegati, ovvero qualche pezzo di bambù e un po' di carta, è un vero scandalo. Però è di autentica fabbricazione giapponese, e questo spiega tutto, o quantomeno spiega tutto agli otaku che hanno la pessima abitudine (per il portafoglio lo è, quantomeno) di acquistare oggettistica del Sol Levante. E poi, sul ventaglio c'è Totoro.
Non conoscete Totoro?
Vergogna.
Tonari no Tororo ("Il Totoro del vicinato" o "Il mio vicino Totoro") è uno dei più bei film nella storia dell'animazione giapponese, e non solo. Ed è uno di quei film che gli occidentali sembra proprio non riescano a fare.
La storia è semplicissima. Due bambine e il loro papà, per stare vicini alla rispettiva mamma e moglie che si sta curando in un sanatorio (ma si badi bene: la malattia viene trattata non come una tragedia, ma come una cosa normale, che può succedere faccia parte della vita, e dalla quale si può uscire sani e salvi), vanno ad abitare in una vecchia casa in campagna ai margini di una foresta. Nella foresta, all'interno di un enorme albero di canfora, abita Totoro. E' un buffo incrocio fra un gatto, una talpa e qualche altra bestiola pelosa, però in versione gigante. Non parla, in compenso fa crescere le piante, è capace di volare su una trottola e si sposta a bordo di un Gattobus. Le due bambine fanno amicizia con lui, e il padre non si stupisce né le deride quando le sente parlare dei loro incontri con questa singolare creatura metà animale e metà spirito protettore. Non ci sono conflitti, non ci sono incomprensioni, non ci sono tutti quei trucchi stantii che si ritrovano nei film occidentali ogni tre per due. In sostanza, Tonari no Tororo dice che la natura è una sorpresa, che la vita è un'avventura da vivere ogni giorno nei suoi aspetti anche minuscoli, e che le cose, pare strano, possono anche finire bene. E lo dice trasmettendo un senso di meraviglia a ogni fotogramma.
Non mi credete? Do yourself a favor: vedetelo. In Italia ancora non è disponibile e sui vari Amazon e ebay si trovano solo la versione originale e quella in inglese (a cura di mamma Disney, che grazie a John Lasseter ha fatto buon lavoro). Se non conoscete queste lingue, comunque, non credo si offenda nessuno se in un modo o nell'altro vi procurerete momentaneamente il film con i sottotitoli pazientemente tradotti e sincronizzati dai sempre lodevoli fansubber. Dopo averlo visto, sappiatemi dire. E preparatevi, con un po' di fortuna, a vederlo al cinema, l'unico luogo dove l'animazione di Hayao Miyazaki si può apprezzare come dio comanda: da mesi si mormora che tutti i film del Maestro mai arrivati in Italia per una serie di faccenduole (ma a questo dedicherò magari un altro post in futuro) saranno doppiati e proposti su grande schermo a cura di un'importante casa di produzione italiana. Io, personalmente, non vedo l'ora.
Come dite? La ricetta?
Fa caldo.
Cucinate voi. Suggerite voi.
Io al massimo posso arrivare a questo.
Prenderò il mezzo chilo di fragole di Terracina che, beate loro, si stanno godendo il fresco del frigo.
Le laverò, toglierò il picciolo, le taglierò a metà. Non di più, perché sono piccole, cosa che contraddistingue la fragola veramente buona.
Caracollando, mi recherò quindi sul balcone, e coglierò qualche fogliolina di menta dalla mia piantina.
Triterò grossolanamente le foglioline.
Prenderò quindi un vasetto di yogurt greco compatto, e lo metterò a cucchiaiate in due distinte coppette.
Accanto allo yogurt, metterò le fragole.
Sul tutto, le foglioline di menta tritate.
Darò una coppetta al generoso compagno di casa e di vita, e l'altra la scucchiaierò io. Poidiché, con il ventaglio, cercherò di fare ciò che viene descritto nel titolo di questo post.
Non sapete il giapponese? Nemmeno io, ma il mio compagno sì.
"Kaze wo atsumete" vuol dire "raccogliere il vento". E' il titolo di una bellissima canzone degli Happy End, che alcuni ricorderanno perché Sofia Coppola l'ha impiegata come sottofondo per i titoli di coda del suo film Lost in Translation.
Come dite? Chi sono gli Happy End?
Un'altra volta. Oppure cercate su wikipedia.
Buon sabato.

venerdì 22 maggio 2009

Una cucuzza, due cucuzze, tutto il cucuzzaro...

Ieri sera volevo liberarmi delle tristissime zucchine che erano rimaste in frigo ma non avevo proprio voglia di farle stufate in padella come al solito. Pertanto, ho telefonato alla zia Lella e mi son fatta dare qualche prezioso suggerimento per farle ripiene. Ovviamente avevo un terzo degli ingredienti prescritti, e mi sono arrangiata: ma devo dire che son venute decenti ugualmente, pertanto le propongo così come le ho fatte.

Ingredienti (per due persone):
quattro zucchine romanesche - o scure, fa l'istèss - che abbiano una discreta circonferenza (le mie da questo punto di vista lasciavano a desiderare, ma l'arte d'arrangiarsi è prerogativa della cuoca anche pasticciona)
un paio d'etti di formaggio che fonda in forno (scamorza, emmentaler, eccetera: vale quanto già detto per la pizza del pastore)
una manciata di mollica di pane, o una fetta piccola di pane raffermo
tre foglie di basilico
tre foglie di menta
un cucchiaio d'olio
un po' di latte

Preparazione:
tagliate le estremità delle zucchine e mettetele intere a sbollentare in una pentola con acqua sufficiente allo scopo (non devono annegare, basta che siano coperte). Quindi mettetele sotto l'acqua fredda, tagliatele a metà nel senso della lunghezza e ancora nel senso della larghezza.
Armatevi di santa pazienza e con un coltello (sarebbe meglio uno scavino, ma ci si può arrangiare anche con strumenti meno raffinati) togliete la polpa delle zucchine badando a lasciare intatto l'involucro verde.

Mettete la polpa a pezzetti in un padellino, aggiungete il pane, quel tanto di latte che basta ad ammorbidirlo, le foglie di menta e basilico tritate, il cucchiaio d'olio e mettete il tutto a scaldare sul fuoco rimestando con il cucchiaio di legno.

Quando la polpa inizia a sfaldarsi spegnete il fuoco, prendete il frullatore a immersione e riducete il tutto in crema. Se non lo avete, riarmatevi di pazienza e fate con il cucchiaio di legno (e alla prossima occasione comperatelo, sto benedetto frullatore).
Prendete quindi una teglia, foderatela di carta da forno e mettetevi man mano i gusci di zucchina dopo averli riempiti con un cucchiaino della crema di cucuzza, pane e aromi.

Su ciascun mezzo guscio mettete quindi una fetta di formaggio, e su di essa una listerella di zucchina sbollentata (se vi è avanzata come è successo a me) oppure, se piace, una spruzzata di origano.
Mettete la teglia in forno già caldo a 200° e aspettate che il formaggio si fonda: basteranno una decina di minuti, pertanto mettete il timer e godetevi un po' di relax leggendo qualche pagina di quel libro che vi sta piacendo tanto.
Quando il formaggio si è sciolto e ha fatto pure un po' di crosticina dorata, spegnete il forno e portate in tavola.
Oppure, spegnete il forno e attendete continuando a leggere il bel libro il vostro amato commensale che alle 20.15, proprio mentre il timer del forno faceva "drrriiinnn!", vi ha chiamato per dirvi che non è ancora uscito dall'ufficio. Quando il poveretto apre la porta, accoglietelo con una pacca sulla spalla, prendete la teglia e portate in tavola. Quindi sedetevi a mangiare con lui e osservatelo con soddisfazione mentre si spazzola le zucchine ripiene, fa la scarpetta e vi dice che la cena stasera era davvero tanto, tanto buona. E mentalmente ringraziate la zia Lella: il merito è suo.
(Il mio amato bene dice che se continuo a sostenere che cucino male mi prende a scapaccioni. Ik hou van hem).

giovedì 21 maggio 2009

Frittata di fiori di zucca

Questo è un piatto tipico del paese del mio amato bene, il quale piatto ha numerosi vantaggi: è semplicissimo e veloce da fare, riesce sempre ed è buono anche freddo (particolari che contano non poco quando entrambe le metà della coppia tornano tardi, e l'altra metà della coppia fa di media almeno due ore di straordinario al giorno - non pagate, ça va sans dire).
In sostanza è un gigantesco fiore di zucca fritto, ma senza la pesantezza della frittura. Va pertanto benissimo anche per il pasto serale, e vi eviterà di avere un partner che durante la notte balla nel letto la rumba delle noccioline causa digestione laboriosa come il calcolo di un'equazione differenziale.

Ingredienti (per 2 persone):
una ventina di fiori di zucca (o una trentina di fiori di zucchina romanesca)
due etti di fiordilatte (non mozzarella: sono due cose diverse)
un cucchiaio d'olio
un pugno di farina
due acciughette sotto sale (per chi gradisce: io non gradisco)

Preparazione:
prendete una padella antiaderente di circa 20 centimetri di diametro, versateci il cucchiaio d'olio e spargetelo per benino sul fondo roteando la padella stessa. Lavate bene i fiori di zucca e togliete il picciolo e il pistillo; man mano che lo fate, rotolate i fiori umidi in una manciata di farina - che avrete messo in un piatto vicino all'acquaio per fare le cose in tutta comodità - e metteteli quindi nella padella in quantità sufficiente a coprirne bene il fondo senza lasciare buchi, e avendo cura di lasciarne da parte altrettanti che vi serviranno a completare l'opera.
Fatto lo strato di fiori prendete il fiordilatte, tagliatelo "in feteline, a boconi quadri o sicut te piace" (chi riconosce questa citazione senza guardare su google vincerà un dolce a sua scelta) e mettetelo sui fiori, avendo cura di lasciare circa un dito tutt'intorno.

Si mette quindi a chiudere un altro strato di fiori di zucca infarinati, avendo cura anche in questo caso di non lasciare buchi (se ce n'è qualcuno, per inciso, niente di grave, almeno per quanto riguarda lo strato superiore: semmai al momento di voltare la frittata scapperà un po' di ripieno, ma senza il rischio che si attacchi al fondo della padella visto che la cottura è già avanzata).

Si pone quindi la padella sul fuoco tenendo la fiamma ben vivace e mettendo sul tegame (eventuali lettori livornesi sono pregati di non sghignazzare, grazie) un bel coperchio di vetro che avrà il compito di distribuire il calore, cuocendo almeno parzialmente anche lo strato non a contatto diretto con il fornello.
Quando sentite sfrigolare il formaggio saggiate delicatamente con il cucchiaio di legno il fondo della frittata per vedere se si è compattato formando una crosticina bruno-dorata: se è così, è arrivato il momento di rigirare la frittata, al volo se siete bravi, aiutandovi con un piatto o con il coperchio se, come la sottoscritta, non siete bravi.
Fate cuocere per un paio di minuti scarsi finché anche l'altro lato non ha formato la crosticina, quindi spegnete il gas, prendete un piatto piano, fate scivolare con destrezza la vostra frittata sullo stesso e portate in tavola. Oppure non portate in tavola e attendete con pazienza il ritorno del vostro amato commensale: tanto, come già detto, è buona pure fredda.
Moltiplicando adeguatamente le dosi potrete servire senza fatica anche a una nutrita tavolata di ospiti un degno antipasto o secondo piatto, che si rivela ottimo soprattutto se accompagnato da una bella insalata mista (scatenatevi pure con canasta, rucola, cetrioli, finocchi, germogli d'aglio, pomodori e quant'altro: più è ricca, meglio farà apprezzare la frittata). Io ovviamente mi ero dimenticata di acquistare l'insalata, pertanto ho ammannito la pietanza al mio amato bene come da foto, circondata da carciofini ripassati in padella, melanzane stufate, funghi trifolati e due pomodorini di collina: si è fatta apprezzare comunque, al punto tale che la fettina promessa al mio collega Giuseppe è stata sacrificata all'appetito. Ma adesso che Giuseppe ha la ricetta potrà certamente provvedere da sé.

mercoledì 20 maggio 2009

Linzertorte con le fragole

Con questa torta ho avuto un successo clamoroso qualche giorno fa: a parte il piacere di vederla spazzolata alla velocità del suono, i giudizi sono stati tanti e lusinghieri, dal "raffinatissima!" del babbo allo "spaziale!!!" di un collega buongustaio. Questi complimenti non vanno a me, bensì a una di quelle cuoche d'eccezione che, per fortuna delle apprendiste dei fornelli come me, condividono su Internet la loro sapienza e passione per la cucina: nello specifico, una signora emiliana che tiene il Cucinario di nonna Ivana, un vero e proprio equivalente digitale del Talismano della Felicità.
In diverse occasioni ho attinto dal blog di nonna Ivana materiale gastronomico con cui ho fatto la gioia del fidanzato e degli amici (c'è veramente di tutto, dai tradizionali passatelli alle più diverse varianti dello gnocco, dalla zucca impiegata in infinite declinazioni alle sperimentazioni con il daikon, dai pani semplici o aromatizzati a ricette della tradizione ebraica come il leggendario pasticcio ferrarese): la Linzertorte, profumata delizia austriaca a base di nocciole, cacao e marmellata, è solo uno di questi casi.
Chi volesse cimentarsi nella preparazione può trovare tutti i dettagli qui, con dovizia di particolari e ampio corredo di fotografie. Io segnalo la mia piccola variante, la quale per inciso è dovuta al fatto che, da cuoca pasticciona quale sono, non avevo controllato la mia dispensa e pertanto non avevo notato che non si sarebbe trovato un vasetto di marmellata manco mandando in esplorazione un gruppo di speleologi. Me ne sono ovviamente accorta (legge di Murphy!) solo dopo che avevo preparato la pasta e l'avevo diligentemente stesa nella teglia.
Dopo un primo momento di panico, ho riflettuto che forse, essendo la marmellata fatta di frutta e zucchero, si potevano impiegare questi due ingredienti per la farcitura. Per mia fortuna c'erano nel frigo due vaschette di fragole da mezzo chilo ciascuna, acquistate per fare la solita macedonia: ne ho presa una e ho tagliuzzato i frutti in pezzi il più possibile piccoli.
Ho preso una fetta biscottata e l'ho sbriciolata sulla pasta già stesa nella tortiera (un trucco che mi ha insegnato la zia Lella e che serve ad assorbire l'umidità in eccesso della frutta); ho quindi versato sulla pasta le fragole in pezzi, cosparso le stesse con tre cucchiai di zucchero e messo la teglia nel forno invocando santa Rita, patrona delle cause impossibili.
La torta è venuta perfetta, e il merito (giacché ho ragione di dubitare che i santi si disturbino per i pasticci delle cuoche impedite) è certamente della bontà della ricetta, che riesce anche se eseguita alla malepeggio da un'autentica "zappatrice con il mestolo" come la sottoscritta. Visto il successo che ho immeritatamente mietuto, vedrò di rifarla quanto prima: ma la prossima volta, avrò cura di ricontrollare prima il contenuto della dispensa.
(Il mio compagno di casa e di vita mi ha severamente rampognato per essermi autodefinita "zappatrice con il mestolo" e asserisce che io cucino benissimo. Se questo non è amore, non so cos'altro sia.)

martedì 19 maggio 2009

Zuppa di rimasugli

Ieri sera ho deciso di ripulire un po' la dispensa perché mi ero stufata di avere in giro buste, bustine e svariati barattoli che mi occupano qualunque spazio e rischiano di cadermi in testa ogni volta che apro i pensili (sarò pure fidanzata con un ingegnere, ma ancora non ho imparato l'arte di uno stoccaggio razionale. Che poi il suo sarà pure razionalmente disposto in modo da sfruttare ogni centimetro cubo, ma poi per trovare le cose tocca usare il pendolino e la sfera di cristallo).
Frugando in giro ho trovato dei rimasugli di cereali e legumi in quantità troppo scarsa anche solo per due persone; ho aggiunto una delle verdure che stavano a intristirsi in frigo e il risultato, devo dire, non è stato malvagio.

Ingredienti:
70 grammi di riso basmati
70 grammi di riso rosso a chicco lungo
100 grammi di lenticchie rosse
1 cipolla medio-piccola
2 zucchine romanesche con il fiore
1 cucchiaio d'olio
un cucchiaino di curry
due rametti piccoli di erba pepe

Preparazione:
tagliate le zucchine in piccoli pezzi e tagliate a striscioline i fiori di zucchina (ché con codesti chiari di luna non si butta via nulla) dopo aver tolto il pistillo.
In una pentola antiaderente mettete la cipolla tritata a stufare con il cucchiaio d'olio (fuoco bassissimo, coperchio di vetro), e una volta che è diventata trasparente buttate nella pentola il misto di riso e lenticchie e fate tostare per qualche secondo a fuoco vivace mescolando con il cucchiaio di legno. Aggiungete le zucchine e i fiori e date una rapida mescolata.

Versate quindi una quantità adeguata di acqua (calcolate il doppio rispetto al peso del riso e lenticchie, ovvero un paio di bicchieri), aggiungete il curry e un cucchiaino di sale, date un'ulteriore mescolata, mettete il coperchio di vetro e lasciate cuocere a fuoco basso per una ventina abbondante di minuti. In questo lasso di tempo fatevi pure i fatti vostri, avendo cura di controllare ogni cinque minuti per assicurarvi che il tutto non si bruci; aggiungete acqua se gli ingredienti hanno assorbito quella già versata e se, assaggiando, vi accorgerete che il riso è ancora duro. Se necessario, aggiungete anche un po' di sale.
Quando la pietanza ha assunto più o meno la consistenza di un risotto (il riso, soprattutto quello rosso, sarà al dente, le lenticchie invece saranno diventate una crema) spegnete il fuoco, versatela in una scodella, decorate con le foglioline di erba pepe e portate in tavola.
E' buona anche fredda, come ho potuto constatare avendola mangiata a un'ora e passa dalla preparazione causa ennesimo ritardo del fidanzato tapino: pertanto è consigliabile a tutte coloro che nella vita si accompagnano a ingegneri, informatici e altre categorie per le quali gli straordinari sono ordinari.

lunedì 18 maggio 2009

Pan di Spagna di Tania

In piedi vicino al frigo, con un'espressione a metà fra il divertimento e lo sconcerto, Tania mi guarda con benevolenza e fa: "Mia madre ti avrebbe già cacciato dalla cucina..."
Non posso darle torto: sul piano di lavoro dove sto faticosamente preparando un dolce ci sono impilati a totem vaschette vuote di plastica, vasi di olii aromatici che dovrebbero trovarsi altrove e contenitori di zucchero e farina che minacciano di precipitare sul pavimento da un momento all'altro, mentre nel lavello si accumulano pian piano gusci d'uovo e utensili vari che nemmeno una passata di napalm potrebbe pulire. Non ci faccio una gran figura in una situazione del genere, ma ci tengo alla presenza di Tania e ai consigli che mi può dare in corso d'opera: perché Tania è Tania, mica una qualsiasi.
Per descriverla, bastano due parole: cuoca sopraffina. E' una di quelle rarissime persone che sentono descrivere un piatto, decidono di cucinarlo e, sebbene non l'abbiamo mai fatto in vita loro, al primo colpo vien fuori un capolavoro gastronomico da premio. Le pietanze del suo vastissimo repertorio, poi, le fa fischiando e cantando, e mentre opera miracoli ai fornelli intrattiene gli ospiti, si prende cura del marito, risponde al telefono e zittisce il cane. C'è chi può e chi non può: lei può. Pertanto sono felice di postare la ricetta del pan di Spagna che mi ha inviato stamattina: una ricetta che da lungo tempo fa parte del patrimonio mangereccio della sua famiglia e che, mi assicura, è "molto affidabile e lungamente sperimentata".

Ingredienti:
4 uova intere fresche
200 grammi di zucchero semolato
200 grammi di farina 00
un pizzico di sale fino
una bustina di lievito per dolci

Preparazione:
"Con lo sbattitore elettrico in una ciotola capiente sbatto le uova con lo zucchero e il sale, per 3-4 minuti.
Aggiungo sempre continuando a sbattere la farina un cucchiaio alla volta, e solo in ultimo il lievito, continuando a sbattere per non più di due minuti.
Verso il tutto in una teglia imburrata e infarinata e cuocio nel forno già caldo per 30 minuti circa. La temperatura indicativa per il forno a gas è tra i 170° e 180°, per il forno elettrico e termoventilato è di circa 170° (il dolce si deve cuocere anche dentro e il forno ventilato tende a bruciare). Consiglio inoltre di riscaldare il forno per almeno 15 minuti alla gradazione indicata.
Una nostra amica separa l'albume dai tuorli, li sbatte a parte e li unisce al composto prima del lievito. Così è la procedura ottimale, ma è anche più lunga".
Così parlò Tania, così trascrivo io. Qualcosa mi dice che quando tenterò di preparare il suo pan di Spagna il risultato sarà un mattone invetriato della consistenza di una palla da tennis. Ma come detto, c'è chi può e chi non può. Io non può.

sabato 16 maggio 2009

Nihon-no doyoubi (sabato nipponico)


Come tutti coloro che per necessità e per passione si trovano a darsi del tu con i fornelli sette giorni alla settimana, anche a me ogni tanto piace astenermi da padelle e pentole: soprattutto se si tratta di mangiare qualcosa che prevede una scienza cucinaria per ottenere la quale sono necessari anni di apprendistato. Quello che potete ammirare nella foto (pessima, ma con il telefonino - semiscarico per giunta - era il massimo che si potesse ottenere) è il piccolo capolavoro che ci è stato servito oggi da Hamasei: un sushi lunch con nigiri e maki completo di insalata, zuppa di miso e frutta.
Hamasei è tuttora il ristorante giapponese della Capitale: aperto negli anni Settanta, è stato per diverso tempo l'unico luogo dove i nippofili romani potessero trovare un approdo gastronomico. Adesso sparsi in città se ne trovano diversi, alcuni di qualità tout court pestifera, altri che propongono cucina fusion ai fighetti dei Parioli con il portafogli ripieno, altri ancora discreti per quanto dal pedigree incerto (la maggior parte sono infatti gestiti da cuochi e personale cinese: un particolare che fa storcere il naso ai puristi, ma che suppongo non faccia fare gnanca un plissé ad altri miei conterranei che appellano abitanti del Celeste Impero e del Sol Levante indistintamente in questo modo). Per chi vuole assaggiare cucina nipponica tradizionale, e scoprire che non è fatta, come credono in tanti, esclusivamente di riso bianco e pesce crudo, Hamasei resta però un punto di riferimento: si troveranno ogni volta piatti preparati con sapienza, un servizio impeccabile e un ambiente discreto e tranquillo (l'atmosfera è infatti tale da zittire completamente anche una comitiva di gitanti di Modena).
Se poi si ha l'accortezza di andare a pranzo anziché a cena, con soli 15 euro si avrà la soddisfazione gustare un pasto completo come quello ritratto nella foto: un vantaggio non da poco, soprattutto se prima si è visitata la mostra di Hiroshige in programma al Museo del Corso, e la smania nippofila vi ha fatto svuotare il bookshop con acquisti di cataloghi, cartoline, magneti e altre amenità che hanno inferto un colpo mortale al bilancio familiare.

venerdì 15 maggio 2009

Purè di melanzane

Le melanzane sono per me un'autentica passione, fortunatamente condivisa dal mio compagno di casa e di vita: pertanto le impiego in cucina ogni volta che posso, sapendo di fare cosa gradita a lui e a me. Fra gli evergreen da proporgli a cena (a pranzo, da bravi impiegati che ci mettono a raggiungere il lavoro un tempo bastevole alla lettura del Mahabharata, non ci vediamo se non nel finesettimana) c'è questa ricettella di semplicità quasi vergognosa: sono sufficienti un paio di ingredienti base, una pentola munita di coperchio di vetro, e questo è quanto.

Ingredienti:
tre melanzane di media grandezza (da prediligere quelle del tipo lungo e stretto)
due spicchi d'aglio
un cucchiaio d'olio
mezzo cucchiaino di curry (o uno intero, se vi piace il piccante)
qualche fogliolina di erba pepe

Preparazione:
lavate le melanzane, eliminate il picciolo e tagliatele a cubetti. Togliete l'anima all'aglio (non vi sto suggerendo di compiere un rito voodoo, bensì di eliminare la parte interna dello spicchio: aiuterà l'alito e la digestione), mettetelo con il cucchiaio d'olio in una pentola antiaderente e fatelo imbiondire a fuoco basso.
Aggiungete le melanzane, un pizzico di sale e il curry, date una mescolata e mettete sulla pentola un coperchio di vetro: poidiché, avendo cura di mantenere il fuoco bassissimo e di dare una controllata alla cottura ogni 7-8 minuti, potete dedicarvi ad altro (scaricare la posta, annaffiare le piante, telefonare a quell'amico che minaccia di togliervi il saluto perché non vi vedete da lunga pezza, e così via).
Quando le melanzane si sono cotte - ve ne accorgete dall'aspetto appassito e dal fatto che riuscite a infilzarle con la forchetta manco foste Zatoichi - spegnete il fuoco e lasciate raffreddare per cinque minuti a pentola scoperta.
Prendete il frullatore a immersione e con esso tritate le melanzane direttamente nella pentola fino a ridurle in crema; nel caso non disponiate di questo utilissimo attrezzo, armatevi di santa pazienza e schiacciatele con il cucchiaio di legno (nota per Dario: non quello che si impiega per fare i dolci, quell'altro cucchiaio di legno).
Travasate il purè in una scodella, guarnite con l'erba pepe tritata, e portate in tavola. Servendolo insieme a bocconcini di petto di pollo cotti in padella con un filo d'olio e un rametto di rosmarino e accompagnandolo con fette di pane tostato o riso in bianco, avrete pure la soddisfazione di aver messo insieme in poco tempo un menù di discreta figura.

giovedì 14 maggio 2009

Riso con il latte (per Valentina)

Questa ricetta è dedicata a una futura bimamma, come lei stessa si definisce. Io posso dire che, oltre a essere tale, Valentina è anche una donna di fulminante sense of humour e notevole capacità di scrittura (per averne riprova leggete il suo blog Passodoppio, spassosissima cronaca quasi minuto per minuto della sua gravidanza). Per lei, più che un dolce sarebbe adeguato un piatto come la jambalaya, saporito e ricchissimo di spezie, ma temo che a proporlo a una donna in attesa mi attirerei le ire di parenti, dietisti e bempensanti: pertanto dedico a lei e alla sua pancia questo dessert che nel mio paese è legato alla festa dell'Ascensione, e nella mia memoria all'infanzia.
La versione che posto non è esattamente quella del ricettario sannita perché, tabelle alla mano, ho tenuto un conto il più possibile basso delle calorie: la dose è per due, ovvero la futura bimamma e il futuro bibabbo.

Ingredienti:
100 grammi di riso da minestra
1 litro di latte parzialmente scremato
una stecca di cannella
un cucchiaio di miele millefiori

Preparazione:
versare in latte in una pentola capiente a sufficienza e se possibile antiaderente, metterlo sul fuoco tenendo bassa la fiamma, aggiungere la stecca di cannella e, quando si alza il bollore, il riso; mescolare continuamente in modo che non si attacchi al fondo.

Quando il riso ha assorbito tutto il latte togliere la pentola dal fuoco, eliminare la cannella, incorporare il miele dando una breve mescolata energica e lasciar raffreddare.
Mettere il riso in due coppette e porle in frigo per una mezz'ora (accorgimento non necessario in inverno, a meno che non teniate i termosifoni a pieno regime): mangiare quindi il dolce rigorosamente in due, in posizione comoda e rilassata.
Per renderlo più buono condirlo con un pizzico di cacao o cannella in polvere sulla superficie, o scucchiaiarlo dandosi un bacetto ogni tanto.

mercoledì 13 maggio 2009

Tè chai - The empire strikes back

Mi è appena giunto un messaggio da parte di Mauro, dal cui ricettario avevo preso apportandovi alcune modifiche la ricetta del tè chai. Lo posto esattamente come l'ho ricevuto.

"Questa è la ricetta originale secondo Mauro, come tramandata da Alberto che l'apprese dai monaci in Tibet:
1 tazza di latte di yak appena munto,
1 tazza di acqua,
pezzi di radice di zenzero sbucciato,
un cucchiaio di tè nero,
un cucchiaio di zucchero di canna.
Portare ad ebollizione sino ad ottenere una crema molto fluida, scolare & trakannare :)"

Dedicata ad Alberto che non c'è più, eppure c'è ancora. Omnia vincit amor.

Pizza del pastore

Giacché da persona amica mi è arrivato un lisciebbusso riguardo le ricette postate ("Ma che fai, solo dolci proponi? E il girovita? E i trigliceridi?"), mi sembra opportuno presentare una pietanza non da dessert, ma che può eventualmente ben precedere il dessert come piatto unico.
La ricetta l'ho imparata un'era glaciale fa - era il 1994, e io una studentella che stava facendo l'Erasmus - da Annelies Egberink, mia coinquilina a Nijmegen, misconosciuta cittadina olandese: abitavamo in una casa che il Comune minacciava di buttar giù, unica soluzione abitativa trovata in loco che fosse a un prezzo decente (problema che gli studenti fuorisede affrontano anche nella libera Olanda), e tutte le sere ci si alternava ai fornelli. La pizza del pastore era uno dei cavalli di battaglia per risolvere la cena: estremamente duttile, ideale per ripulire eventuali rimasugli verdurizi rimasti nel frigo, e liberamente implementabile a seconda della fantasia.
Considerate pertanto la ricetta che segue come una base su cui dare libero sfogo al vostro ardore cucinario: le quantità non sono indicate, in quanto variano a seconda dei commensali e del loro appetito.

Ingredienti:
patate, che essendo elemento base della pizza non devono mai mancare;
verdure miste: carote, zucchine, peperoni e cipolle per realizzare una classica ciabbotta, ma vanno altrettanto bene foglie e fondi di carciofo, broccoli, scarola, spinaci, agretti, cavolo nero, olive nere e verdi, pomodori secchi tagliati a pezzi, e qualunque vegetale garbi al gusto;
formaggio atto a fondere in forno tagliato in fettine sottili: consiglio per il sapore l'emmentaler - l'ideale sarebbe il gouda, purtroppo da sconsigliare qui in Italia visto che si trova solo nell'orribile versione da export -, ma a seconda del gusto o dei rimasugli in frigo van benissimo scamorza passita (non mozzarella), pecorino sardo non stagionato e anche il temibile galbanino; da bandire le sottilette per questione ideologica e per il sapore e consistenza da brivido.

Preparazione:
si mettono a lessare le patate già sbucciate (per chi lo gradisce, suggerisco di mettere nell'acqua della lessatura una manciatona di curry o altra spezia gradita, che darà alle patate that special kick), poidiché le si riduce in purè;
nel frattempo si preparano le verdure, stufate e cotte come più piace, o si cavano dal frigo i temibili rimasugli di verdure cotte che stanno lì ad agonizzare;
si prende una bella teglia antiaderente (ma vanno benissimo pure quelle di alluminio usa e getta), la si unge d'olio o burro e la si fodera di pangrattato cui, se piace, si può mescolare dell'origano;
si fa uno strato di purè che copra il fondo e i bordi della succitata teglia;
sul fondo di patate si adagiano le fette di formaggio, a coprire tutto senza lasciare buchi;
sul formaggio si mettono le verdure;
sulle verdure, ulteriore strato di fettine di formaggio;
sulle fettine di formaggio, uno strato finale di purè;
se si vuole si cosparge quindi la superficie della pizza con spruzzata di pangrattato, due fiocchetti di burro e manciatina di origano o parmigiano grattugiato, altrimenti la si inforna così com'è in forno già caldo a 200° ;
si attende quel tanto che basta a far fondere il formaggio (in genere è sufficiente un quarto d'ora);
si porta in tavola tutta la teglia e si fanno le porzioni sul momento, avvertendo i commensali che la temperatura è più o meno quella del caffè della signora Pina ("TREMILA GRADI FAHRENHEIT!!!"), per cui facessero molta attenzione.
La pizza del pastore (per inciso, il nome pare sia dovuto alla vergognosa quantità di cacio prevista dalla ricetta) è un piatto unico completo e risolve pertanto la serata in caso di ampio numero di ospiti. Si può anche surgelare in comode monoporzioni e risolve pertanto la serata, e con grande soddisfazione gastronomica, pure al single (o alla coppia) che torna a casa a orari impossibili e al pensiero di mettersi ai fornelli medita il seppuku.

martedì 12 maggio 2009

Crema pasticcera di zia Lella

La crema pasticcera è una delle ricette che nell'armamentario di una cuoca, anche di quart'ordine, proprio non possono mancare. Per me, è indissolubilmente legata alla zia Lella.
La zia Lella ha ottantatre anni da poco compiuti e nonostante l'età e acciacchi vari è, come si dice al paese mio, "tòshte come na préte": fa la spesa da sola, lava e stira montagne di camicie (perché si sa, "la lavanderia non le fa bene") e, ça va sans dire, è tuttora perfettamente in grado di allestire un pranzo di sedici portate.
Non si è mai sposata malgrado avesse ecatombi di corteggiatori, nonostante ciò si è trovata ad accudire, come spesso succede, pargoli di tutte le età, dai fratelli ai nipoti. E visto che occuparsi di creature, far la spesa e stirar camicie impiega parecchio tempo, la sua cucina tende naturalmente a ottenere il massimo del risultato con il minimo sforzo: le sue ricette sono di esecuzione semplice e veloce, e quella della crema pasticcera non fa eccezione. Ne troverete sicuramente mille altre che suggeriscono l'impiego di fecola anziché farina, di un terzo di albume ogni tuorlo per garantire una maggior tenuta, di zucchero di canna anziché del volgare semolato, di rossi d'uovo alla temperatura di 7 gradi centigradi pena il fallimento e l'esilio da tutte le scuole di cucina del regno. Ma per me, la sua è la migliore.

Ingredienti:
un rosso d'uovo
un cucchiaio raso di farina
un cucchiaio di zucchero
un bicchiere di latte intero
un pezzo di buccia di limone (solo la parte gialla)

Preparazione:
in una pentola di media grandezza battete il rosso d'uovo con lo zucchero fin quando non diventa spumoso e aggiungete quindi la farina continuando a battere (i puristi suggeriscono la frusta a mano, la zia impiega il frullino elettrico e ne benedice l'inventore, essendo della generazione che si è fatta venire il gomito del tennista a furia di montare albumi impiegando la forchetta). Versate pian piano il latte mescolando in continuazione fin quando il composto di uovo, zucchero e farina non si è completamente sciolto e aggiungete la buccia di limone.
Mettete la pentola sul fuoco (che va rigorosamente tenuto basso) e mescolate con un cucchiaio di legno in senso circolare, sempre lo stesso, per evitare che la crema impazzisca: i patiti della tecnologia votano per il frullino elettrico anche in questa fase, io in questo caso mi attengo alla old school perché non voglio trovarmi una pioggia di schizzi sulle mattonelle della cucina e 'ngopp' 'u z'nàle (sul grembiule, per chi non è nato nel Sannio).
Non appena la crema accenna a bollire e inizia ad addensarsi ("vela il cucchiaio", dicono le cuoche comme il faut), va tolta dal fuoco. Aggiungete un pezzo di burro - non è necessario, ma la zia lo usa perché la crema assume un aspetto liscio e setoso, e anche l'occhio vuole la sua parte -, mescolate energicamente un paio di volte per farlo fondere a dovere e lasciate riposare, godendovi nell'attesa il piacere sublime di leccare la cucchiarella.
Una volta raffreddata, la crema è pronta per l'impiego: come dessert, è ottima servita in coppette con una spruzzata di cannella o un'amarena sotto spirito, oppure per accompagnare biscottini o il panettone di chiare d'uovo (altro cavallo di battaglia della zia, che merita un post a parte); se serve per farcire una torta, basta una dose doppia di ingredienti per un dolce di media grandezza.
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