sabato 30 maggio 2009

Pane e pizza a quattro mani

Se c'è una cosa che mi piace, è andare al paese del mio amato bene.
Primo, perché mi ricorda molto il mio. Mi si dirà che i paesini si somigliano tutti. Sarà vero, ma il mio e il suo si somigliano più degli altri. Entrambi si trovano in mezzo a colline di querce, verdi in estate e di tutte le sfumature dal rosso al bruno in autunno. Da lui come da me, quando è stagione nei boschi crescono violette e ciclamini. Tutti e due hanno un impianto medioevale, con viuzze e vicoletti che si snodano fra case di pietra e sbucano sulle valli. E il cocuzzolo del campanile della chiesa madre pare il gemello di quello della chiesa madre che sta da me. Uno vanta una balaustra opera del Bernini e un condottiero medioevale a cavallo (noto anche per aver dato una bella saccagnata ai francesi in quel di Barletta), l'altro un bellissimo Cristo di scuola napoletana e un martire della rivoluzione partenopea che, preso prigioniero dai mercenari del duca cui si opponeva, venne fatto trascinare a morte da un cavallo sulla spiaggia di quello che all'epoca era un villaggio di pescatori e adesso è una orribile colata di cemento dove in estate si riversa tutta la regione. Insomma, a ciascuno il suo. Fatto sta che quando sono in questo paese che pare prenda il nome da un campo di ginestre, la nostalgia si fa meno acuta.
Secondo, perché quando c'è vacanza per due o tre giorni di fila, la famiglia si sposta in campagna. E in campagna entra in azione il Dream Team della panificazione.
Il Dream Team è composto dal papà e dalla mamma del mio compagno, e quando lavorano insieme è uno spettacolo. Sono precisi come un orologio svizzero, affinati da quintali e quintali di pane fatto assieme. Tutto è calcolato con precisione ingegneristica. Più che un'operazione di cucina, è un rito. Non mi stanco mai di guardarli.
Per prima cosa, il papà va a prendere la madia per impastare, che ha fatto costruire lui stesso quarant'anni fa. Poi pesa la farina. La mamma scioglie il lievito di birra in adeguata quantità di acqua. In un altro pentolino viene preparata una mistura di acqua e sale. Quindi inizia l'opera.
Lui impasta, lei versa il lievito. La massa inizia a gonfiarsi. Man mano si aggiunge farina. Poi l'acqua salata. Lui solleva la massa di pasta e la sbatte per farle incorporare aria. Lei con il raschietto spinge verso l'impasto residui di pasta, acqua e farina.
Su un grande telo pulito e cosparso di farina di grano duro vengono quindi messe le pagnotte per la lievitazione, che vengono cosparse anch'esse con uno straterello di farina e poi coperte con i lembi del telo. Si mette da parte la pasta che serve a fare la "pizza per terra", una focaccia che somiglia molto alla shcanàta del mio paese. Nel frattempo lei mette in ordine, lui va a sorvegliare il forno, un bellissimo forno a legna costruito sotto la sua direzione.
Quando la temperatura è giusta, le pagnotte sono pronte e la pizza è stata stesa nelle teglie (una delle quali è una custodia per pizza, intesa come bobina di film), si procede con la cottura. Mamma e babbo portano il grande supporto in legno fino al forno. Con l'assistenza di lei, lui inforna pagnotte e teglie, e sorveglia il fuoco. Io e il mio compagno curiosiamo, facciamo due passi fra gli alberi da frutto, giochiamo con i gatti, e aspettiamo. Nell'aria c'è l'odore della legna arsa, cui man mano si aggiunge quello del pane che si cuoce.
Per me è l'odore più buono del mondo, e ha l'effetto della famosa madeleine: sento il profumo e ricordo il forno del mio paese, con le vecchiette assiepate in uno stanzone enorme a chiacchierare in attesa che la fornaia, unica autorizzata a compiere l'operazione, tirasse fuori le pagnotte e i dolci. Quando mia zia non guardava io uscivo nel cortile posteriore, pieno di macchine agricole e sacchi vuoti dove si rintanavano i gatti, che dava sulla campagna. Il forno della mia infanzia ha cessato l'attività da parecchi anni. Però grazie al mio compagno ce n'è un altro, e anche qui se alzo lo sguardo c'è campagna e colline e alberi a perdita d'occhio, e ci sono gatti con cui giocare.
Quando poi il romanticismo d'accatto diventa soverchiante, capisco che è arrivato il momento di dare un'azzannata a una fetta di pane appena sfornato.
Il pane del Dream Team è buono, ma buono davvero: crosta croccante, mollica morbida e compatta senza essere pesante, e si conserva benissimo per più giorni. A me piace moltissimo abbrusco, ovvero abbrustolito sul fuoco del camino e poi condito con un goccio d'olio. La pizza, se possibile, è ancora migliore: alta così, fragrante, saporita sia semplice sia che nella versione al pomodoro. Se ne può mangiare tranquillamente una decina di pezzi di fila, per poi accorgersi che si è pieni da scoppiare quando oramai è troppo tardi. Ma l'indigestione vale la pena.
Per quanto riguarda la ricetta precisa ho indagato un sacco di volte, ma le risposte sono state discordanti. A quanto ho capito osservando ci vuole un cubetto di lievito per ogni chilo di farina, acqua e sale quanto bastano, impastare finché non ti fanno male le braccia, molta pazienza e una collaborazione perfetta con il partner.
Un po' di questi ingredienti danno eccellenti risultati anche per cose diverse dal pane.
Ma sto divagando di nuovo.
Buon weekend.

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