mercoledì 31 marzo 2010

Baccalà arracanato

"Pronto zia?"
"Nipote! Come va?"
"Benone, ma vorrei sapere come va a te."
"Tutto a posto. Sto preparando tutto quanto."
"Zia, non ti stancare..."
"Uh, quante storie... E mica posso stare con le mani in mano. Ho già fatto il pane di Pasqua, le ciambelle con il naspro, i fiadoni..."
"E figurati... Qualcosa d'altro?"
"Ovvio. Quando arrivate è Venerdì Santo. Ho già preso il baccalà, così domani lo metto a bagno."
"Pure!"
"E certo. Che si fa il Venerdì Santo senza il baccalà?"
Per carità. Senza il baccalà, che Venerdì Santo sarebbe. A casa mia lo si mangia da generazioni. Ovvero lo mangiano i miei, ché io mi constringo ad assaggiarne una briciola dopo lunga meditazione e non senza sospettose annusate preventive, visto che il merluzzo e la sottoscritta da sempre si guardano reciprocamente in cagnesco. Ma giacché a detta dell'universo mondo come fa il baccalà mia zia Maria non lo fa nessuno, vi propongo la ricetta mutuata dalla tradizione familiare: in occasione della ricorrenza vi potrà essere ben utile un'incursione nella gastronomia sannita.
La preparazione è assai semplice ma tradisce la sua natura festiva grazie all'impiego di uva passa e sottaceti, necessari a ingentilire quello che un tempo al mio paese era l'unico prodotto ittico disponibile per la popolazione meno ricca: cosa che ben si desume dal detto popolare "u baccalà pure pesce è" (anche il baccalà è pesce), a significare che pure le cose di apparente poco pregio hanno il loro valore. Ma sto divagando come al solito: spostiamoci ai fornelli.

Ingredienti:
un mezzo chilo abbondante di filetti di merluzzo sotto sale (non quello già bagnato, per carità)
due belle manciate di mollica di pane raffermo
una manciata di uva passa
qualche peperone tondo sott'aceto (di quelli che al mio paese son detti peparuole: se non ne avete, andrà bene qualche pomodorino)
un po' di prezzemolo
olio extravergine di oliva

Preparazione:
per prima cosa bisogna approntare il malefico pesce per la cottura, il che comporta bagnarlo. Lo so che si può acquistare già bagnato presso il pescivendolo, ma giacché in molti hanno la pessima abitudine di metterlo per un'ora scarsa in acqua calda in modo da fargli assumere a tempo di record la giusta consistenza, c'è il rischio concreto che vi ritroviate in bocca una miniera di sale al momento di mangiarlo: pertanto fate da voi che è meglio.
Giusta i dettami della tradizione, mettete a bagno il pesce in acqua rigorosamente fredda, coprite con un bel coperchio e lasciatecelo per un cinque ore o più, avendo cura di mettere la bacinella sul balcone o in loco ben aerato perché il profumino che si sprigiona da essa è assai poco invitante. Passato il tempo prescritto, cambiate l'acqua e rimettete a bagno. Ripetete quindi l'operazione una terza volta: a quel punto, il baccalà sarà bagnato come si confà e al ritmo giusto, e avrà perduto il sale in eccesso.
Prendete una bella teglia antiaderente, bagnatene il fondo con una dose d'olio abbastanza generosa e quindi adagiateci con garbo i filetti di pesce che avrete preventivamente un po' strizzato con le mani. Aggiungete sulla loro superficie la mollica di pane, il prezzemolo tritato, l'uva passa fatta preventivamente ammorbidire in acqua tiepida e infine i peperoni sott'aceto che avrete già sciacquato, svuotato e farcito con mollica, un filo d'olio e qualche chicco di uva passa. Se non avete i peperoni, basterà aggiungere i pomodorini tagliati a metà.
Irrorate il tutto con altro olio e mettete in forno ben caldo per una mezz'ora, saggiando di tanto in tanto la consistenza del pesce con la forchetta: se vi pare che sia ancora poco cotto quando il tempo sta per scadere aggiungete un mezzo bicchiere d'acqua, ma non dovrebbe essere necessario giacché il baccalà di liquido ne caccia a volontà.
Se gradite approntare pure un contorno con poca fatica, prima di infilare la teglia in forno mettete al pesce una bella corona di patate a spicchi condite con una bella spruzzata di pepe, mollica e olio (evitate il sale, perché il baccalà al riguardo provvede pure troppo): grazie alla presenza di uvetta e peperoni assumeranno un caratteristico sapore agrodolce assai inusuale, che si sposerà degnamente con la pietanza.
Portate in tavola ben bollente e se i vostri commensali gradiscono il baccalà vi assicuro che farete un figurone. Che è quello che fa sempre la zia Maria quando lo serve sotto gli occhi affamati della mia famigliola.
Se poi volete fare una cosa all'insegna della sciccheria, potete anche servirlo in singole porzioni che metterete in tante terrine di maiolica quanti sono i vostri ospiti: sarà una degna rivincita per il povero baccalà, che un tempo era considerato cibo per indigenti e che adesso è diventato cardine per i menù festivi anche dei ristoranti più lussuosi del mio Sannio.

martedì 30 marzo 2010

Zuppa di lenticchie rosse e zenzero

Non so come sia il tempo da voi, ma qui manda ai matti. La sera si gela, il giorno in compenso si comincia a boccheggiare. Ciò ovviamente finché il sole non viene coperto a intervalli irregolari da neri nuvoloni a forma di incudine, perché in tal caso si batte i denti anche in diurna. E meno male che l'Urbe dovrebbe avere un clima invidiabile, ma questo tra parentesi.
In codesta incertezza meteorologica mi pare opportuno suggerire una zuppa che va bene per tutte le stagioni. E' ottima sia fredda che calda, e la presenza dello zenzero le conferisce il piglio adatto ad affrontare le follie semistagionali. In più ha il vantaggio di prepararsi senza manco dover sorvegliare i fornelli.
Chi è addentro alle prelibatezze della cucina indiana riconoscerà sicuramente la ricetta, cui io ho apportato qualche variante per renderla più leggera: se volete attenervi all'originale dovrete aggiungere un pizzico di coriandolo, uno di cumino e una bella spruzzata di peperoncino rosso, ma anche in versione semplificata ha decisamente il suo che.

Ingredienti:
250 grammi di lenticchie rosse
1 cipolla media
un pezzo di zenzero fresco grande quanto un pollice (ma nulla vieta di abbondare)
una punta di cucchiaio di brodo vegetale granulare, meglio se biologico

Preparazione:
lavate accuratamente le lenticchie sotto l'acqua corrente con l'aiuto di un capace colino a maglie strette, quindi con abile mossa rovesciatele nella pentola che impiegherete per cuocere la zuppa insieme alla cipolla pelata e tagliata in quarti e allo zenzero sbucciato e fatto in pezzi. Aggiungete quindi un paio di bicchieri d'acqua in cui avrete sciolto il brodo vegetale e lasciate sul fornello tenuto al minimo, badando di tenere more solito il tegame coperto. Fatevi quindi i fatti vostri per una ventina di minuti, il che basterà per portare il tutto a cottura completa.
Nel frattempo le lenticchie si saranno bevute tutta l'acqua e saranno triplicate di volume. A questo punto armatevi del fido frullatore a immersione (non sperate di cavarvela, come in altre occasioni, con l'impiego del cucchiaio di legno: lo zenzero ancorché cotto non perdona, quindi fate l'investimento) e riducete il tutto in crema.
Travasatela quindi in una bella coppa e portate in tavola con un bel tocco di pane se il clima è ancora freddino. Se invece la serata è contraddistinta da un piacevole teporino fate raffreddare a temperatura ambiente, aggiungete quattro o cinque cubetti di ghiaccio, provvedete a frullare con gagliardìa e proponetela con qualche fogliolina di menta fresca, che si assocerà allo zenzero nel conferire that special kick alla pietanza.
In una versione o nell'altra, vedrete che il commensale gradirà, e che gradirete anche voi.

lunedì 29 marzo 2010

Pane di Pasqua

Questo al mio paesello è il dolce irrinunciabile per festeggiare come si deve la Pasqua. Così irrinunciabile che è impensabile non farlo, nonostante la sua preparazione comporti un vero massacro. Del resto ne vale la pena, perché è veramente di bontà sublime. Non c'è colomba, panettone o quant'altro che gli possa stare anche solo lontanamente alla pari. Per cui, se volete festeggiare anche voi come si fa nel mio Sannio, mettetevi all'opera con la consapevolezza che le vostre fatiche saranno ampiamente ripagate, anche se ci vorranno due giorni di lavoro. Un solo consiglio: se vi accingete all'impresa, fate in modo di avere qualcuno che vi aiuti, perché da soli al primo tentativo rischiate una crisi di nervi. Oppure fate metà dose, che vi basterà per due bei dolci e vi eviterà di lottare con una quantità di ingredienti che spaventerebbe anche un cuoco casalingo rifinito. Ma procediamo con ordine.

Ingredienti:
1 chilo di farina
10 uova
350 grammi di zucchero
250 grammi di lievito di pane (più in basso troverete le istruzioni per prepararlo)
250 grammi di patate
150 grammi equamente suddivisi fra burro, strutto e olio
la buccia grattugiata di 2 limoni rigorosamente non trattati
un bicchierino di liquore gradito (limoncello, strega o analoghi)

Preparazione:
la prima cosa da approntare il giorno prima di darsi del tu con codesta bestia nera della gastronomia sannita è il lievito di pane, il quale si prepara in questo modo: in una capace terrina si mescolano con il cucchiaio 150 grammi di farina, una bustina di lievito di birra secco (non usate l'orrido panetto, ché lo sa il cielo quante può averne passate prima di arrivare al banco frigo del supermarket) e 100 grammi circa di acqua, quindi coprite con un tovagliolo spesso e lasciate lievitare in luogo riparato da correnti d'aria per una notte intera e anche più. Quando andrete a controllare la mattina dopo, deve avere più o meno l'aspetto che vedete in foto, il quale mostra che gli ingredienti hanno fermentato come si confà arrivando al risultato ottimale.
Se avete la madia per impastare, tirate fuori quella. Se siete degli sfigati come la sottoscritta, cacciate fuori quella bella e capace tinozza (e dico tinozza in senso stretto, ché non vi basterebbe per lo scopo manco la più gigante delle vostre terrine) che tenete da parte esclusivamente per usi di cucina. Metteteci quindi la farina, il lievito di pane, lo zucchero, i grassi, le patate (preventivamente lessate, sbucciate e passate), il liquore e le prime cinque uova, le quali vanno appena appena intiepidite in acqua calda e rotte rigorosamente fuori dalla tinozza per comprovare che siano fresche, ché basta un solo uovo partito per pregiudicare tutto.
Ora respirate profondamente e concentratevi, perché vi servirà massima dedizione per la prossima mezz'ora e anche oltre.
Immergete le vostre manine ben pulite e attaccate a impastare. Fatelo con forza non disgiunta da garbo, costantemente, senza fermarvi. La pasta deve diventare morbida, liscia ed elastica. Man mano che impastate, la persona di buon cuore che vi assiste deve aggiungere tre uova intere, aspettando che ciascuna si assorba prima di aggiungere l'altra, e poi due rossi. Voi intanto procedete a lavorare la pasta senza smettere. Se vi aiuta a dare il ritmo, cantate. Continuate finché l'impasto fa come si suol dire le bolle, ovvero inizia a mostrare dei piccoli rigonfiamenti colmi d'aria: a quel punto sarà pronto, sarà passata più di mezz'ora e voi avrete le braccia che se avessero il dono della parola strillerebbero come prefiche, ma potrete gioire perché avete superato la prova.
L'impasto va quindi messo a lievitare per almeno dodici ore: mettetelo in capaci recipienti (più d'uno, perché se lo lasciate nella tinozza c'è il rischio che trabocchi) i quali saranno stati preventivamente ben unti d'olio, copriteli con il solito panno spesso e lasciateli in santa pace.
Se tutto è andato come deve andare, al momento di controllare vedrete che la pasta è perlomeno raddoppiata di volume. Al che va sgonfiata e messa in appositi stampi alti una ventina di centimetri e della circonferenza di 25 centimetri circa, che saranno stati unti di strutto e spolverati con semola di grano duro, badando che l'impasto arrivi a un terzo dell'altezza del recipiente e non di più. Se non ne disponete potete impiegare le classiche pentole purché prive di manici di plastica come per secoli han fatto le donne del mio paese, ma in tal caso abbondate assai di strutto perché le malnate tendono a fare brutti scherzi al momento di sformare i dolci. Nulla osta ovviamente all'impiego di altri stampi più piccoli purché alti, ma la tradizione vuole che le forme siano di discreto volume, altrimenti che pane è.
Coprite quindi gli stampi e fate lievitare per altre sei ore: il risultato finale della lievitazione dovrebbe essere quello ritratto qui sotto, e scuserete la foto sfuocata ma oramai ero un po' stravolta dalla stanchezza.
Accendete il forno a 180°, fatelo riscaldare come si deve e man mano mettete a cuocere i dolci per una mezz'ora o poco più, prima ponendoli sulla parte bassa del forno e poi nella parte alta: quando la superficie ha assunto un bel colore bruno dorato, tirateli via aiutandovi con due belle mappine spesse e lasciateli riposare per una decina di minuti.
Una volta che son passati i suddetti minuti, è arrivato il momento di sformare: scuotendo dall'alto in basso lo stampo assicuratevi che il dolce si stacchi, capovolgetelo con l'aiuto di un piatto e mettetelo a raffreddare su una gratella da pasticcere o su una coppa che avrà bell'agio di raccogliere eventuale umidità in eccesso.
Tutto sarà andato sicuramente benissimo e, al taglio, il pane di Pasqua rivelerà una mollica dorata, fragrante, soffice e lievemente bucherellata, frutto della lunga lievitazione e del vostro lavoro.
Dolci analoghi vengono arricchiti in altre regioni con coperture di glassa di zucchero e confettini, ma i Sanniti essendo stati sempre poveri in canna non sono abituati a queste smancerie e lasciano nature il pane di Pasqua: io vi consiglio di seguire la tradizione. Servitelo il giorno della ricorrenza dopo il pranzo insieme agli ovetti, e scoprirete che il suo sapore dolce ma non troppo si sposerà perfettamente con il cioccolato.
Chi invece già conosce questo dolce perché come la sottoscritta è originario dell'antica Arx Calela o di paeselli vicini e ha la mia età non più verdissima, al primo morso avrà un proustiano "effetto madeleine" e ricorderà come fino a pochi anni fa le vecchierelle andavano ancora con file e file di pentole al forno comunale per cuocervi i pani, quelli di ciascuna famiglia distinti dagli altri tramite nastrini di diversi colori applicati sui manici dei tegami, e ingannavano l'attesa tutte assieme chiacchierando del più e del meno. Nel caso, come alla sottoscritta, al ricordo gli venisse una botta di magone, provveda a dare un altro morso seguito da numerosi altri, e con la scusa del suddetto magone provveda a tagliare per sé un altro paio di fette: la malinconia sarà scacciata da gaudiosa sazietà, e pazienza per le occhiatacce del consesso familiare.

venerdì 26 marzo 2010

Risotto con le cozze

Drrriiinnn.
"Pronto?"
"Pupi, sono io."
"Uh, ciao Pilù. Che accade?"
"Accade che sono in pescheria e non mi funziona il Bancomat. Non è che faresti un salto?"
"E i signori della pescheria che sono sempre così gentili non possono farti credito?"
"Sono già in credito. Non mi funzionava manco l'altra volta."
"E perché non hai provveduto a fartene dare uno nuovo?"
"Ovvio, perché non ho avuto tempo. Che c'è, hai problemi a venire qui?"
"Pi, io veramente starei lavorando, eh."
"Ecco, sono quasi le otto di sera, per cui direi che è il momento di spegnere quel pc e venire in soccorso della tua povera sorella. Non trovi?"
Di fronte a osservazione sì logica non potevo dire di no. Sicché a passo di carica e dopo aver ritirato i necessari contanti al Bancomat (giacché il mio, grazie al cielo, funge come si confà) mi sono recata in pescheria. Lì, in mezzo a tutto il bendidio marino che profumava come fosse stato allora allora gentilmente elargito da Nettuno - inteso come dio e non come località - ho visto delle belle cozze che mi facevano l'occhiolino. Ho pertanto impiegato gli ultimi quattro euro che mi erano rimasti dalla salassata del prestito a Pilù (la quale deve aver ammannito pesce a tutto il corpo dei Granatieri di Sardegna per arrivare alla cifra che ha speso, ma ciò fra parentesi) per portarmene a casa un chilo.
Con detto chilo ho ammannito un gagliardo e saporito risotto per due, il quale è stato assai apprezzato dall'amato bene. La ricetta, ça va sans dire, è della zia Lella, con preziosi consigli pure di Pilù mia che, come si sarà dedotto, è un'esperta coi controfiocchi di preparazioni marinare.

Ingredienti:
un chilo di cozze ancora in guscio
un paio d'etti scarsi di riso da risotti
due cucchiai d'olio
uno spicchio d'aglio
un po' di vino bianco
una manciatona di prezzemolo

Preparazione:
date una bella lavata alle cozze, che spero abbiate fatto già ripulire sommariamente dal vostro pescivendolo. Se così non è stato, acchiappate la paglietta di acciaio e provvedete a strofinare i gusci con gagliardìa onde ripulirli da tutte le robacce varie che vi sono attaccate, cosa che vi impiegherà discreto tempo e vi farà profferire un altrettanto discreto numero di santioni.
Fatto ciò, provvedete a eliminare quella che a Taranto si chiama 'a zoca, ovvero l'alghetta malefica con cui la cozza si abbarbica allo scoglio: per fare ciò acchiappate la succitata alghetta con mano ferma e tiratela verso l'apice della cozza stessa, in modo che si strappi anche il cosino bianco che si trova nella panza del mollusco (lo so, come spiegazione è scarsamente scientifica, ma spero sia perlomeno chiara). Se nell'operazione l'alga si strappa, poco male: provvederete a togliere 'a zoca dopo la cottura.
Prendete una capace padella antiaderente, metteteci l'olio, lo spicchio d'aglio pelato e schiacciato, un po' di prezzemolo e un mezzo bicchiere scarso d'acqua, quindi versateci le cozze e mettete tutto a fiamma vivacissima per un paio di minuti, ovvero quanto basta perché le valve si aprano: non aggiungete assolutamente sale, basterà e soperchierà quello dell'acqua marina contenuta nei molluschi.
Prendete quindi le cozze aperte (quelle rimaste chiuse vanno rigorosamente buttate), toglietele dai gusci badando a tenerne nella mezza valva qualcuna che vi servirà per decorazione, eliminate l'eventuale zoca che ancora vi si annidi e tenetele da parte. Il liquido di cottura dei molluschi va filtrato con un colino a maglie molto fitte (se non ne disponete impiegate un pezzullo di stoffa per usi di cucina, perché il risotto alla sabbia non è mai piaciuto a nessuno) e tenuto da parte pure lui: assaggiatelo e, se è troppo salato, provvedete ad allungarlo con un po' d'acqua.
Mettete sul fuoco basso una pentola antiaderente con i due cucchiai d'olio e fatelo scaldare ma non friggere, aromatizzandolo con qualche foglia di prezzemolo: gettateci quindi il riso e fatelo tostare fino a quando non è diventato trasparente, fatelo sfumare con un dito di vino e provvedete ad aggiungere mestolo per mestolo il liquido di cottura nella quantità sufficiente a cuocere il riso.
Quando il riso è al dente con un colpo solo gettateci le cozze, mescolate per bene perché arrivino alla giusta temperatura (per la qual cosa ci vorrà un minuto scarso: non tenetele in pentola di più altrimenti tendono a diventare dure e stoppacciose) e versate il tutto in un piatto di portata. Come tocco finale fateci cadere a pioggia del prezzemolo tritato, decorate con le cozze in mezzo guscio e portate in tavola.
Dopo aver spazzolato il risottino insieme al compagno di casa e di vita, il quale si è prodigato in complimenti perché mi era venuto a suo dire da visibilio, ho ritenuto opportuno telefonare a Pilù mia onde ringraziarla dei savi consigli. La quale Pilù ha colto l'occasione per dirmi che, se putacaso uno non avesse troppo tempo per spignattare, anziché il risotto può fare un bel sautè avendo l'accortezza di aggiungere alla padella un po' di peperoncino, e di servire il tutto con dei bei crostoni di pane ripassati al forno.
A voi la scelta della variante che più vi garba per un venerdì all'insegna del pesce come tradizione comanda.
Quanto a me, credo che la pescheria mi vedrà più spesso, con o senza Pilù, e che l'amato bene ne sarà felice.

giovedì 25 marzo 2010

Cucina espressa: tagliatelle con funghi freschi

Questo primo è ottimo nel caso vogliate viziare voi e i vostri cari con poca fatica e poca spesa di tempo: si prepara in un attimo e viene sempre accolto a tavola con grande soddisfazione di chi cucina e di chi mangia. Vi sarà pertanto assai utile in una di quelle belle sere in cui rimpiangete di non essere ancora a casa da mammà perché, piuttosto che affrontare i fornelli, preferireste avere Gigi Marzullo come partner di conversazione.

Ingredienti (per due persone, da moltiplicare a piacimento):
300 grammi abbondanti di funghi pleurotus
180 grammi di tagliatelle secche
un ciuffo di prezzemolo
uno spicchio d'aglio
due cucchiai d'olio
una manciatona di parmigiano

Preparazione:
sciacquate i funghi per togliere eventuale terriccio, tamponateli con della carta assorbente e fateli a tocchi alquanto grossetti, quindi metteteli in una capace padella con lo spicchio d'aglio pelato e schiacciato, l'olio, il prezzemolo tritato e un paio di cucchiai d'acqua (non di più, ché tanto di liquido già ne cacciano a sufficienza in cottura). Accedete il fornello a fuoco medio, coprite il tegame e fate andare per una decina di minuti.
Nnel frattempo avrete messo a scaldare adeguata quantità d'acqua con un cucchiaio raso di sale nel vostro paiolo da pasta: quando bolle, giù le tagliatelle, cui darete una mano a sciogliersi con la forchetta.
Scolatele mentre sono ancora al dente, quindi con abile mossa versatele nella padella con i funghi e fate saltare a fuoco vivace per un paio di minuti in modo che pasta e condimento si amalgamino come si confà. Quindi spolverate di parmigiano grattugiato, date un'ultima mescolata e portate in tavola direttamente la padella fumante.
Tempo netto per la preparazione, venticinque minuti scarsi pulitura inclusa. Soddisfazione, tanta.
E se servite come secondo una bella mozzarella a fette con contorno di insalata, ecco che la cena intera sarà stata approntata in meno di mezz'ora.
Se poi per qualche strana congiunzione astrale vi compare di fronte Marzullo e vi chiede se la vita è un piatto espresso o se i piatti espressi aiutano a vivere, mettetelo a lavare le stoviglie dietro minaccia di tagliargli la frangia e proseguite la serata nel modo che più vi aggrada.

mercoledì 24 marzo 2010

Torta di noci (con tanti auguri all'amato bene)

Oggi un dolce ci sta bene. Ci sta bene perché il compagno di casa e di vita compie gli anni. Pertanto vi propongo quello che proprio stamane, alle sei e trenta spaccate quando il tapino è costretto ad alzarsi onde correre in ufficio, gli ho recapitato a letto con tanto di candeline e canticchiando con voce di trombone "tanti auguri a te", in modo che comprendesse immediatamente che dette candeline non erano dovute ad apparizione spiritica e non gli venisse un colpo mentre ancora galleggiava nel dormiveglia.
La torta in questione, per inciso, è uno dei tanti cavalli di battaglia della zia Lella, e fa parte del patrimonio cucinario familiare da tempo immemorabile. Pedigree a parte, è buona da non dirsi, cosa che potrete comprovare voi stessi se la preparerete per il vostro amato bene o per chiunque vi sia caro. E' inoltre di semplicissima esecuzione e ha il vantaggio di potersi approntare volendo anche il giorno prima rimanendo ben fresca, nel caso come me vogliate fare una sorpresa al festeggiato o festeggiata quando i galli ancora ronfano.

Ingredienti:
250 grammi di farina
130 grammi di fecola
200 grammi di burro morbido
300 grammi di zucchero
4 uova
70 grammi di noci macinate più qualcuna intera per decorare
50 grammi di cacao amaro in polvere
un bicchiere scarso di latte
una bustina di lievito per dolci

Preparazione:
armatevi di frullino e in una ciotola assai capace battete il burro con i rossi delle uova (tenete da parte i bianchi, mi raccomando) e lo zucchero finché non avete ridotto il tutto in crema. Lavate quindi le fruste del frullino perché esso vi servirà di lì a poco e prendete la cucchiarella. Con l'aiuto della stessa fate incorporare la farina, la fecola, le noci tritate e il cacao mescolando per bene: non fatevi prendere dalla tentazione di assaggiare perché anche crudo questo è uno dei dolci più squisiti che si possano immaginare, pertanto c'è il rischio concreto che a furia di dar di cucchiaio vi ritroviate con un buon terzo in meno della materia prima (e probabilmente con un mal di pancia clamoroso dopo, ma ciò fra parentesi).
Accendete il forno a 180° e mentre si scalda provvedete ad aggiungere il lievito sciolto nel latte e da ultimo gli albumi montati con il frullino a neve fermissima, per ottenere la qual cosa vi consiglio di usare il vecchio trucco di aggiungere un pizzico di sale alle chiare, e curando di farli incorporare con movimento dal basso verso l'alto del cucchiaio di legno così non si smontano.
Versate il composto in una teglia preventivamente imburrata e infarinata, fateci su qualche taglio a losanga perché il dolce mentre cuoce tende a sollevarsi e creparsi in superficie, e mettete in forno per una quarantina di minuti. Visto che dei forni c'è spesso poco da fidarsi, vi suggerisco di fare la consueta prova stecchino: se esce asciutto dalla torta spegnete il forno, lasciate il dolce a riposare per un minutino ancora e poi tiratelo fuori facendo somma attenzione onde evitare scottature.
Lasciatelo raffreddare a temperatura ambiente e toglietelo dalla teglia con l'aiuto di un piatto, ponendolo infine su una gratella da pasticcere (o se non l'avete su una coppa che sia di circonferenza poco inferiore a quella del dolce stesso, fosse mai che il poveretto ci precipitasse dentro) per eliminare eventuale umidità in eccesso.
Fatto ciò, siete pronti per abbellire la torta come più vi garba. La decorazione classica prevede dei gherigli di noce artisticamente disposti su tutta la superficie e fissate alla stessa con del naspro (ovvero quel composto fatto con zucchero a velo, qualche goccia di succo di limone e quanto basta a trasformalo in un impasto denso e un po' appiccicaticcio), ma ovviamente nessuno vi proibisce di impiegare confettini di zucchero, pastiglie di cioccolato colorate, fiorellini di ostie da adagiare su un velo di zucchero impalpabile o ciò che vi sembra più adatto per dare un tocco di allegria al colore bruno e alquanto serioso del dolce.
E' sottinteso che sul citato bruno sì ben colorato le candeline accese ci faranno un figurone, e vi permetteranno di fare ingresso trionfale nella stanza dove l'amato bene sta dormendo il sonno del giusto.
Non dimenticate, ovviamente, di accompagnare detto ingresso cantando "tanti auguri a te": sia perché è quanto mai adatto all'occasione, sia perché non è il caso che l'amato bene, svegliato di soprassalto e trovandosi davanti una parata di luminarie, faccia uno zompo di tre metri per la paura finendo attaccato al lampadario.
Se poi insieme al dolce servirete una bella cuccuma di caffè forte fatto di fresco, ciò garantirà un piacevolissimo inizio di giornata a entrambi voi. E converrete che un piacevolissimo inizio di giornata è la cosa migliore per festeggiare un compleanno come si confà.

martedì 23 marzo 2010

Muni ai fornelli: cheesecake della comare

Quello che vedete è il risultato non della mia imperizia, ché mai sarei in grado di arrivare a cotanti risultati, bensì del talento della mia amica Muni: la quale Muni qualche giorno fa mi chiese cosa poteva farci con le briciole di biscotti che periodicamente si trovavano a invadere la sua dispensa. La mia risposta fu che le briciole si possono ottimamente impiegare per fare il cheesecake e con l'occasione le ho fornito la ricetta datami a suo tempo da una comare del paesello che, come tante comari del paesello, oramai ha tutto il parentame in America, intesa sia come Stati Uniti che America Latina, o a scelta in Canada. Nello specifico i figli, nipoti e pronipoti della signora in questione sono allegramente sparsi fra New York e Los Angeles più una manciatina in Massachussets, pertanto non so di dove sia esattamente originaria la preparazione: pertanto, mi par giusto definire la pietanza cheesecake della comare, perché l'affetto conta più delle indicazioni geografiche.
Ma tutto ciò fra parentesi. Su mio suggerimento, Muni si è messa all'opera con la figliolanza e ne è scaturita un'esperienza assai divertente e, come possono documentare le fotografie da lei stessa scattate, pure molto appetitosa: vi suggerisco quindi di seguire le sue orme, che vi forniranno occasione per passare qualche ora in grande allegria e di gustare e far gustare una merenda o un dessert davvero coi fiocchi.

Ingredienti:
briciole di biscotti e burro in rapporto di 3 a 1: se avete ad esempio 300 grammi di briciole (che vi basteranno e avanzeranno per una tortiera da 25 cm), calcolate un etto di burro
un paio di cucchiai di zucchero (facoltativi)
4 etti di formaggio tipo Philadelphia o simili
100 ml di panna fresca
2 uova medie
un cucchiaio abbondante di farina
la buccia grattugiata di un limone
frutta per decorare

Preparazione:
per iniziare foderate con carta da forno la tortiera, se provvista di cerniera apribile è meglio, in modo che detta carta formi il minor numero possibile di pieghe e pieghucce, quindi mettetevi all'opera.
Con il fedele cucchiaio di legno mescolate in una terrina le briciole di biscotti e il burro morbido finché si sono ben incorporati: se i biscotti son del tipo gallette vi suggeriscono di aggiungere i due cucchiai di zucchero, ma decidete in base al gusto personale.
Fatto ciò, versate il composto nella tortiera e con le manine ben pulite provvedete a coprire tutto il fondo realizzando uno strato piano e compatto.
E' il momento di passare al ripieno: in altra capace ciotola mettete il formaggio, la panna, la buccia di limone e il cucchiaione di farina e battete il tutto con gagliardìa per qualche minuto fino a che non avrete una crema liscia. Nel frattempo, accendete il forno a 150° e lasciate che si scaldi.
Versate quindi la crema nella tortiera e con il dorso della cucchiarella o meglio ancora una spatola cercate di pareggiare il più possibile la superficie: allo scopo vi sarà d'aiuto anche scuotere un po' la teglia prima di metterla in forno.
Fate cuocere per una ventina di minuti scarsi, quindi togliete la tortiera dal forno, fate raffreddare a temperatura ambiente e quindi mettetela in frigo almeno per un'oretta. Fatto ciò, la torta è pronta per essere sformata: aprite la cerniera, oppure con somma cautela e mani salde acchiappate i lembi di carta da forno e fate scivolare la torta sulla vostra superficie di lavoro (mi raccomando, massima attenzione pena lo sfascio della torta, cosa che in dirittura d'arrivo è roba da far piangere anche la cuoca più rude). Non togliete ancora la carta da forno, perché è utile a parare schizzi e altre amenità menre siete impegnati nel tocco finale.
Il quale tocco finale, ovviamente, è la decorazione: Muni ha impiegato delle pesche sciroppate con eccellenti risultati, ma ci si può sbizzarrire come meglio si crede a seconda della stagione e della disponibilità. Putacaso non aveste della frutta potrete provvedere alla bisogna con ghirigori di cioccolato fondente fuso al momento, granella di nocciole, qualche amaretto secco, un velo di cacao rigorosamente amaro (sennò si rischia la stucchevolezza), eccetera eccetera. Date libero sfogo alle vostra fantasia e ogni volta avrete un cheesecake sempre diverso.
A questo punto sempre con somma attenzione togliete la carta da forno e nell'operazione fate scivolare la torta su un bel piatto con cui la servirete. Tenetela quindi in frigo, tiratela fuori di lì una decina di minuti prima di portarla in tavola e quindi gustatevela in compagnia dei cuccioli e di chi vi è caro.
Muni ha realizzato il cheesecake lavorando di concerto con i suoi piccoli, ma tengo a sottolineare che esso si prepara agevolmente e in poco tempo pure da soli: purché non siate di quelle tapine come me che arrivano a casa sempre con i minuti contati, potreste quindi cogliere l'occasione per fare una sorpresa ai familiari stasera stessa senza che ciò vi impicci con la preparazione della cena. Sorpresa per la quale, vi assicuro, i familiari non mancheranno di essere contenti, e son cose che fan sempre piacere.

domenica 21 marzo 2010

Viva San Gesèppe

Festa grande al paesello: per due giorni si è celebrato San Giuseppe, e lo si è fatto come non lo si ricordava da anni. Credo sia anche merito dell'entusiasmo con cui i giovani hanno deciso di far rivivere la tradizione, con grande fatica e lavorando come matti per più di tre mesi: il loro impegno, che ha avuto l'appoggio fattivo del parroco del paese, ha fatto sì che l'entusiasmo si comunicasse a tutti, e nelle mie precedenti esperienze non ho mai visto tanta vivacità in giro. In breve, posso dire che è stata un'esperienza bellissima, e voglio condividerla con voi. Visto che ho un talento canino con la macchina fotografica le immagini fanno pena, ma spero possano restituirvi un po' dell'atmosfera.
La sera del 18 marzo è tradizionalmente dedicata alle litanie in onore del santo: dopo le prove, musicisti e cantori si avviano per compiere il giro degli spùleche, ovvero degli altari dedicati a San Giuseppe. I gruppi tradizionali prevedono la fisarmonica, ma ne ho visti altri armati di chitarre e persino di sassofoni: i tenìje si possono eseguire in tanti modi, quel che conta è lo spirito.
Prima tappa dopo la visita in chiesa per cantare le litanie al santo, 'u spùleche di Mariolina. I cantori dopo l'esecuzione vengono rifocillati con le pietanze tipiche della festa: nella foto qui sopra si possono vedere nel vassoio i tradizionali caveciùne, ravioli fritti di pasta leggerissima con un ripieno di ceci passati, cacao e miele. Credetemi, una vera bontà.
Agli ospiti viene servita a ritmo continuo anche 'a pezzente, una zuppa di cinque diversi legumi condita con olio d'oliva e accompagnata da pane fresco.
L'altarino dei giovani è stato allestito presso il Centro della Comunità con tutti gli elementi tradizionali: fiori di carta, decorazioni vegetali, le offerte poste ai piedi del santo.
Due elementi secolari decorano l'altare: i Giardini di Adone, vasi con grano fatto germogliare pazientemente al chiuso, e 'u lucìgne, il tradizionale lume a olio.
Grandi vassoi colmi di screppelle vengono offerti a chi visita l'altare della Comunità: nella foto i ragazzi pronti all'opera, fra cui il mio amico Nicola che ha gli occhi chiusi causa la faticata immane degli ultimi giorni. E non solo degli ultimi, a dire il vero.
Anche al Centro viene servita la pezzente, cotta nelle pignatte messe al calore del camino: il quale camino è quello che potete vedere all'inizio, costruito per l'occasione e decorato con un quadro intagliato nel legno che rappresenta San Giuseppe e il Bambinello.
Terza tappa, l'altarino di Gennaro: anche questo ricchissimo di elementi vegetali, con i Giardini di Adone al posto d'onore.
La parata di offerte davanti allo spùleche di Anita, che onora San Giuseppe da molti anni ed è una delle più titolate rappresentanti della tradizione: sul tavolo si trovano pietanze rituali come pane, frutta, pesce e composta.
Ultima tappa, 'u spuleche di Maria Rosa, detta l'acquaiole: sulla tavola altre pietanze della tradizione come l'insalata di arance e la composta di sottaceti.
Il 19 marzo la festa segue un rituale ben preciso: presso ogni altarino vengono organizzate due tavolate in onore di San Giuseppe. La prima tavola ha quali personaggi simbolici il Vecchio, la Vecchia e l'Angelo: al Centro della Comunità i ruoli sono stati impersonati da Giuseppe di sei anni, zì Michele che ne ha 94 e zì Carmelucce che ne ha compiuti 102.
Il pasto è composto rigorosamente da 13 pietanze, che vengono servite in ordine preciso: si comincia con l'insalata di arance...
... e si procede fino al piatto forte, i maccarune c'a meglìche che zì Michele, secondo la tradizione, mangia rigorosamente con le mani.
Nel mentre che la prima tavola si svolge, nelle pignatte di coccio continua a stare in caldo 'a pezzente, vicino al fuoco che si sta pian piano spegnendo.
E' arrivato il momento della seconda tavola, aperta a tutti: due grandi tavolate accolgono fino a sessanta commensali, mentre fuori altre decine attendono il loro turno per entrare.
Un'intera madia colma di mollica condita, pronta per essere sparsa sui maccheroni.
I volontari del Centro sono pronti per portare la pasta in tavola: in poco più di mezz'ora serviranno oltre 180 piatti di maccheroni con la mollica e altrettanti di pezzente, accompagnandoli con screppelle e vino in quantità.
Non ci sono solo le donne a lavorare alacremente perché tutto riesca al meglio: in un raro momento di pausa ecco Fernando Monteferrante, che con altri rappresentanti della metà del cielo maschile si è dato da fare per settimane e non disdegna certo di portare i piatti in tavola.
Anche a chi è rimasto a casa non mancheranno i cibi devozionali: maccheroni, screppelle e pagnotte vengono portati porta a porta, affinché tutti possano celebrare la ricorrenza come si confà. E prima di mangiare, ovviamente, si ringrazia il santo, motore di tutto il bendidio che c'è nel piatto, e della festa grande che anima tutto il paese.
Vive San Gesèppe. E arrivederci al prossimo anno.

venerdì 19 marzo 2010

San Giuseppe: bignè alla crema

Questa ricetta è semplicissima, di grande soddisfazione, e riesce sempre: se pertanto voleste preparare un bel vassoio di saporiti bignè per festeggiare come si confà il vostro babbino, sappiate che in poco più di un paio d'ore ve la caverete benissimo. Vi propongo pertanto il procedimento come suggerito dalla zia Lella (la quale lo apprese dalla zia Gemma, gran maestra di dolci squisiti) e con una dedica a tutti i babbi: il mio in primis, ma anche tutti i papà che conosco di persona o via Web, giovani e meno giovani, mono o bi o polibabbi, con cuccioli grandi e piccini, provetti cucinieri o disastri ai fornelli. E un pensiero speciale ai papà che non ci sono più, eppure ci sono ancora, perché come dice il mio amico Agostino (anche lui un babbo), le persone non vanno, sono.
Ma procediamo con ordine. La dose che vi propongo vi consentirà di fare una ventina di bignè ben pasciuti: se avete babbo e familiari golosi, raddoppiate pure che non fate un soldino di danno.

Ingredienti:
250 grammi d'acqua
80 grammi di burro
150 grammi abbondanti di farina
3 uova grandi
un cucchiaio di zucchero, se impalpabile è meglio
un pizzico di sale
una punta di cucchiaio di lievito per dolci
crema pasticcera per farcire

Preparazione:
vi consiglio di fare prima la crema (doppia quantità rispetto a quella che trovate nella ricetta cliccando sul link qui sopra), così vi portate avanti con il lavoro e si può lasciarla raffreddare come si confà prima dell'impiego. Quindi datevi del tu con il resto.
In una capace casseruola antiaderente mettete l'acqua, il burro e il sale e fate scaldare a fuoco medio: quando accenna il bollore, giù la farina tutta di un colpo. Mescolate con gagliardìa impiegando il fedele cucchiaio di legno e visto che ci siete aggiungete pure lo zucchero. Quando tutto si è ben incorporato, tirate via dal fuoco, fate raffreddare e nel mentre che ciò accade aggiungete pure la puntina di lievito sempre mescolando assai bene.
Non appena il composto è freddo, è arrivato il turno delle uova: aggiungetele una a una, mescolando stavolta con le manuzze sante perché il composto è alquanto appiccicaticcio e la cucchiarella difficilmente potrebbe domarlo. Immaginate che la vostra mano sia un braccio impastatore meccanico, e muovetela nel composto imprimendole una rotazione: vedrete che alla fine vi verrà un impasto da visibilio, tutto bello liscio come seta.
Riscaldate quindi il forno a 250° (sì, deve essere bello rovente), rivestite una bella placca con carta da forno e metteteci dei mucchietti di impasto ben distanziati fra loro: fateli grandini ma non troppo, sennò c'è il rischio che il bignè non si cuocia all'interno.Metteteli quindi in forno e state lì a guardare: vedrete che i mucchietti si gonfiano allegramente, arrivando persino a ribaltarsi. E ciò è il segnale di un bignè ben riuscito, per cui fatevi i complimenti e datevi una pacca sulla spalla.
Dopo una ventina di minuti o giù di lì sfornate i bignè ben cotti e fateli raffreddare per bene. Quindi armatevi di siringa da pasticcere e facendo con la stessa un buco sotto ciascun bignè farciteli di crema pasticcera. Completate con una bella spolverata di zucchero a velo, e presentate con giusto orgoglio il vassoio al babbo e ai vari commensali: i quali babbo e commensali, statene certi, apprezzeranno assai.
Con la stessa pasta base di possono ovviamente realizzare tutti i tipi di bignè per le più diverse preparazioni, ma su ciò tornerò un'altra volta: con quelli di San Giuseppe avete dato certamente il meglio di voi, per cui è giusto che vi riposiate, festeggiate in allegria e passiate uno splendido finesettimana. Cosa, per inciso, che ho tutta l'intenzione di fare anch'io. Buon weekend :)

giovedì 18 marzo 2010

'A pezzente (zuppa di legumi misti)

Oggi al mio paese è tutto un ribollire di pignatte di coccio sulla brace del camino: la vigilia di San Giuseppe è infatti dedicata alla preparazione della pezzente, che come rivela il suo nome è una zuppa povera, e in antico proprio ai poveri era destinata. E' ricchissima di legumi, il che sottointende parecchi carboidrati che danno una bella schicchera di energia e la garanzia di riempirsi la pancia come si deve, cose fondamentali per chi fatichi a mettere insieme il pranzo con la cena: soprattutto, è tanto semplice quanto buona. Ci sono tutti i legumi tipici del mio Sannio, fra cui le cicerchie che, con mia soddisfazione, stanno vivendo una nuova stagione di apprezzamento, e poi fave, ceci, fagioli, piselli: la versione che vedete qui ritratta (gentile omaggio della zia Lella, ovviamente) ha in più una manciata di lenticchie, usate per dare un po' di colore a una pietanza che per sua natura è piuttosto pallida.

Ingredienti:
fave, cicerchie, piselli, ceci, fagioli, piselli, tutti nella versione secca (e per chi gradisce, anche lenticchie), in quantità di circa 20 grammi per ospite di ciascun legume
olio extravergine di oliva
fette di pane

Preparazione:
mettete a bagno per una mezza giornata almeno i vari legumi, avendo cura di aggiungere un pizzichino di bicarbonato nell'acqua di ceci, fave e fagioli. Dopo ciò, scolate bene e rilavate sotto l'acqua corrente. Mettete quindi i legumi in pentola (la tradizione vorrebbe una pignatta, rigorosamente di coccio, per ciascun legume: voi impiegate un tegame solo, avendo l'accortezza però di cuocere a parte i ceci che tendenzialmente sono più tosti), versate tanta acqua quanto basta a coprirli e fateli cuocere a lungo a fuoco basso, condendo con un pizzico di sale.
Quando i legumi sono cotti, in un'altra pentola fate scaldare qualche cucchiaio d'olio con uno spicchio d'aglio, quindi togliete lo spicchio e lasciare raffreddare. Avvenuto ciò buttate nella pentola i legumi precedentemente scolati, ripassateli a fuoco vivace e aggiungete in ultimo un tot di acqua, da calcolare in base alla quantità di materia prima, in modo che la zuppa diventi un po' liquida.
Fate cuocere un quarticello d'ora, quindi spegnete il fuoco e servite la zuppa avendo cura di mettere in ciascun piatto due fellucce di pane (da noi si usa quello fresco fatto proprio in occasione di San Giuseppe, ma quello raffermo che si imbeve per benino del sughetto mi pare prospettiva da leccarsi i baffi) e di condire con ulteriore filino d'olio stavolta a crudo. Poi mettetevi a mangiare, e vedrete se la 'a pezzente non si rivela un piatto non da povero ma da re.
Io già pregusto quella che verrà servita al paese domani. Sono infatti in partenza: ma grazie ai prodigi della tecnica moderna, domani troverete un bel post che vi svelerà tutti i segreti dei bignè alla crema che la mia famigliola da sempre prepara per il San Giuseppe. Saluti e baci.

mercoledì 17 marzo 2010

Carciofi fritti

Se anche voi avete la fortuna di vivere una località dove adesso i carciofi vi vengono tirati in faccia a mazzi (in senso metaforico, giacché ho ragione di supporre che beccarsi in viso un bouquet di romaneschi o violetti faccia un discreto male), è arrivato il momento di darvi del tu con un contorno che delizia sempre gli appassionati di questo eccellente ortaggio: il quale contorno è semplicissimo da fare, e nel caso decidiate di fare a Pasqua il consueto agnello sarà accompagnamento prelibato per lo stesso. Nulla osta ovviamente a fare i carciofi prima e dopo la ricorrenza: sono così buoni e invitanti che l'unico problema sarà l'ingordigia dei commensali, i quali si lagneranno che i succitati hanno un solo difetto, quello di essere troppo pochi. Ma veniamo al dunque.

Ingredienti:
cinque o sei bei carciofi del tipo che più vi garba (io suggerisco il violetto)
un uovo
due cucchiai di farina più un altro po'
un limone per evitare che i succitati carciofi si anneriscano
olio per friggere

Preparazione:
con santa pazienza (e magari facendovi aiutare da quel santo che eventualmente alberga insieme a voi) date una bella pulita ai pungenti fiorelloni seguendo le istruzioni qui riportate, quindi tagliateli a spicchi avendo cura di lasciarci un cinque centimetri di gambo - non buttate il resto, bensì scortecciatelo, tagliatelo a rondelle e surgelatelo: sarà ideale ingrediente per un risottino di verdure miste - e lasciateli a bagno in acqua acidulata con limone. Mentre loro stanno a mollo preparate una pastella con due cucchiai di farina e tanta acqua quanto serve a fare un composto semiliquido, quindi rompete l'uovo e sbattetelo per bene e in ultimo acconciate un piattino con dentro un altro pugno di farina.
Prendete quindi una bella padella, metteteci olio quanto basta e fate scaldare lo stesso a fuoco medio. Quando è ben caldo (i cuochi di vecchi stampo, ho scoperto anni fa leggendo un bel libro, usano il trucco di sputare nella padella per saggiare la temperatura; io più sobriamente uso quello della zia Lella che consiste nel mettere nell'olio un cucchiaino di pastella e vedere il risultato), fate quanto segue: acchiappate un quarto di carciofo e rotolatelo in sequenza prima nella farina, poi nell'uovo sbattuto, infine nella pastella, e buttatelo in padella con abile gesto. Il carciofo in capo a breve diventerà tutto bello dorato, cosa che voi aiuterete girandolo con la forchetta. Se vi piace il risultato, il che vuol dire che l'olio è alla temperatura ideale, mettetene in padella quattro o cinque a botta preparati come sopra descritto (non di più, sennò l'olio si raffredda e siamo da capo a dodici) e proseguite allegramente, mettendo i carciofi fritti a scolare su un bel piattone debitamente foderato di carta da cucina che assorbirà l'unto in eccesso.
Una volta che avete terminato, fate scivolare con mossa elegante il contenuto del piatto in un bel vassoio di portata rigorosamente in vetro o coccio e portate in tavola il fritto bollente: e se vedete che gli occhi dei commensali diventano grandi come paioli in pefetto stile fiaba russa, non spaventatevi perché è normale, come è normale che si avventino sul vassoio come pirati all'arrembaggio.
Giacché non tutti abbiamo l'occasione di romperci le balle appresso ai fornelli per fare il fritto perfetto (e soprattutto se abbiamo ospiti affezionati è certo che preferiranno averci con loro a tavola anziché in cucina a sorvegliare padelle), la zia Lella suggerisce un suo trucco che sempre riesce: mentre ancora state friggendo accendete il forno, fatelo scaldare al minimo, quindi spegnete e mettete al caldo il vassoio carciofato. Il fritto si manterrà alla giusta temperatura per almeno una ventina di minuti, che voi potrete impiegare piacevolmente per conversare con i commensali e, non da ultimo, mangiarvi antipasto e primo in santa pace.

martedì 16 marzo 2010

Timballo di riso, melanzane e scamorza affumicata

Qualche sera fa Pilù mia (che per inciso, lo dico a uso dei lettori non abituali, è mia sorella ed è nota per il suo sbilenco stile di guida nonché per un altrettanto sbilenco sense of humour) ha ben pensato di omaggiare me e il compagno di casa e di vita con una graziosa pirofila monoporzione. "Mi dispiace, ma di materia prima era avanzata giusto questa, riuscirete a malapena ad avere un assaggio a testa. Quando arrivi a casa mettila direttamente nel forno per una ventina di minuti e fammi sapere."
Io ho seguito scrupolosamente le istruzioni, sfornando dopo venti minuti il tortino che aveva invaso la casa di un profumo da svenimento. A seguire si è svolto l'equivalente di un match di rubgy fra me e l'amato bene, che ci siano contesi fino all'ultimo chicco di riso impiegando quali armi le forchette e tutta una serie di occhiatacce ben assestate. Infine, mia sorella si è vista arrivare da parte mia un SMS con un chant da hooligan che ripeteva "RI-CE-TTA! RI-CE-TTA!"
Detta ricetta mi è giunta a stretto giro, con la notazione "mi stramalediranno in molti: ci vuole un'eternità e la cucina si riduce a una trincea". Non so se sia così, ma visto il risultato credetemi: ne vale la pena.
Lascio ora la parola a Pilù mia, riportando fedelmente quanto scritto da essa medesima: enjoy!

"Ecco una ricetta in doppia versione: quella delle feste e quella da tutti i giorni, con gli stessi ingredienti. A chi cucina la scelta fra l’una o l’altra, decidendo che anche un giorno qualsiasi può essere una festa, ma in questo caso si dovrà mettere in conto un’oretta in più per la preparazione.

Per la ricetta delle feste
Ingredienti (per 4 persone):
due bicchieri rasi di riso Carnaroli o Arborio
mezzo litro di besciamella (oppure due scatolette già pronte da 200 ml o una da 500 ml)
una scamorza affumicata
una grossa melanzana dalla quale si possano ricavare una decina di fette rotonde del diametro di circa 7-8 cm
120 grammi di prosciutto di Praga o prosciutto cotto arrosto o alle erbe, affettato non troppo sottile
parmigiano grattugiato in quantità
quattro magici cubetti di Pilù (nota di Jessie: se vi chiedete di che si tratta, sappiate che sono cosa benedetta nel caso tocchi fare un soffritto correndo come inseguiti dal drago, e di cui vi parlerò prossimamente) oppure due cucchiai di un trito finissimo di cipolla, carota e sedano
burro
pangrattato
sale
olio extravergine d’oliva
burro
mezzo cubetto di dado da brodo o una puntina di estratto di carne Liebig
peperoncino macinato e noce moscata, se piacciono
(consigliabile disporre di uno stampo da plumcake per una piacevole presentazione del timballo)

Preparazione:
lavate la melanzana, tagliatela a fette rotonde alte poco meno di un dito e sistemate le rondelle in una capace terrina, coprendole con acqua tiepida cui avrete aggiunto un buon cucchiaio di sale grosso, mescolando per farlo sciogliere. Mentre la melanzana perde l’amaro, lessate il riso (meglio se in una grossa casseruola antiaderente) aggiungendo all’acqua un po’ di sale e il dado o l’estratto di carne; va scolato quando è al dente.
Nel frattempo, se non vi siete già confusi tra melanzane e riso perdendo d’occhio il timer, sciacquate e asciugate con cura la scamorza, fatene una metà alla julienne con la grattugia apposita e tagliate l’altra metà a cubettini da circa mezzo cm di lato, servendovi di un tagliere; poi tagliate a striscioline le fette di prosciutto. Tenete da parte il tutto in una capace terrina (se vi sembra di aver già letto le ultime tre parole, avete ragione: la mia cucina, di solito, richiede molte capaci terrine).
A questo punto il riso sarà cotto: scolatelo, previo assaggio, e lasciatelo freddare nella pentola dopo averlo mantecato con abbondante parmigiano grattugiato, circa 250 ml di besciamella e una spolveratina di noce moscata.
Scolate con cura le melanzane e tamponate le fettine una per una con un canovaccio pulito, togliendo quanta più acqua possibile; tenete da parte le otto-dieci rondelle più grandi e tagliate le altre a cubetti. Mettete a scaldare l’olio in una grande padella, friggete le fette rotonde di melanzana (sono pronte quando cominciano a mostrare su ambo i lati delle chiazze marroncine) e poi lasciatele asciugare su un piatto con carta da cucina.
Nella stessa padella, da pulire con un altro po’ di carta da cucina per eliminare il resto dell’olio della frittura, rimettete altro olio senza lesinare troppo, fate disfare i magici cubetti o il trito e poi fate stufare i dadini di melanzana per una ventina di minuti a fuoco medio, girando di tanto in tanto per una cottura uniforme e aggiungendo eventualmente un po’ di peperoncino (proprio poco, se molto piccante).
Tranquilli, siete un pezzo avanti: riso mantecato che si fredda, scamorza e prosciutto tagliati, fette di melanzana che scolano, dadini di melanzana che cuociono. Allora prendete uno stampo da plumcake, ungetelo accuratamente con olio o burro e cospargetelo con abbondante pangrattato, gettando quello che resta nella padella con i dadini. Poi tamponate ancora le fette di melanzana con carta da cucina e rivestite il fondo dello stampo avendo cura di non lasciare spazi vuoti. Ora, lavorando il riso con le mani, ricoprite accuratamente tutta la superficie interna dello stampo con uno strato dello spessore di un dito abbondante, sempre senza lasciare buchi. Accendete intanto il forno a 220°C, o alla temperatura che sapete migliore per far fare la crosticina a pizze rustiche e sformati.
Intanto i dadini di melanzana dovrebbero essere cotti, cioè di un bel colore bruno-dorato: fateli freddare per una decina di minuti (intanto, che diamine, potreste pure apparecchiare) e poi mescolateli con cura alla scamorza e al prosciutto, aggiungendo circa 250 ml di besciamella, qualche fiocchetto di burro e una spolverata di parmigiano. Preparato così il ripieno del timballo, riempiteci con cura lo stampo pressando un po’ e arrivando a circa un dito dal bordo, e infine chiudete con il riso rimasto. Infornate e fate cuocere per una mezz’ora abbondante, o fino a quando si è formata una bella crosticina. Lasciate intiepidire, meglio se all’aperto in una serata fesca e ventosa, e poi sformate su un piatto rettangolare o su un tagliere (le fette rotonde di melanzana avranno formato un bel motivo a tovaglietta; se vi sembrano troppo unte, tamponate ancora con carta da cucina). Servite a fette passando a parte, se volete, besciamella calda e parmigiano.

Per la ricetta di tutti i giorni
Tutto o quasi come sopra, ma con la suddetta ora in meno di preparazione visto che non ci sono il passaggio obbligato nel forno e il successivo raffreddamento del timballo, a meno che non vogliate fare comunque un piccolo sformato (nel qual caso non dimenticate il solito passaggio burro-pangrattato per la teglia).
In breve, mescolate delicatamente a fuoco bassissimo in una grossa casseruola il riso mantecato, la scamorza a julienne (non i dadini, non si scioglierebbero), il prosciutto a striscioline, i cubetti di melanzana stufati e la besciamella, servendo subito con parmigiano a parte.
Per abbreviare i tempi, un trucco: preparate le melanzane il giorno prima tenendole in frigo sino al momento di adoperarle, e fate tagliare scamorza e prosciutto da qualcun altro. Quanto ad apparecchiare, svicolate elegantemente con la scusa di aprire il vino (Franciacorta o Valpolicella)."

Io e l'amato bene siamo astemi, sicché abbiamo sostituito il pregiato vinello con un boccione di cocacola. E prima che qualcuno di voi ululi dal ribrezzo, ribadisco che fu scelta saggia: perché il timballo è squisito sì, ma non esattamente leggerissimo, e un piccolo aiuto per la digestione è stato quantomai adatto all'uopo. Proprio per la sua natura, il capolavoro gastronomico di Pilù può offrirvi eccellente scusa, nel caso di ospiti, per servire in tavola esso solo con a seguire un'insalatina e uno a scelta fra i vostri dessert: farete felicissimi i vostri commensali, e sarete felicissimi anche voi perché i piatti e le terrine da lavare sono già così in misura bastevole per tramutarvi in Lisistrate della gastronomia.

lunedì 15 marzo 2010

Maccarune c'a meglìche (maccheroni con la mollica)

Questo è un piatto che più tipico non si potrebbe: e come tutti i piatti tipici, è legato a una ricorrenza, nello specifico a San Giuseppe. Al paese mio nei giorni precedenti il 19 marzo è tutto un cuocere di pagnotte su pagnotte onde ricavarne la mollica, ingrediente fondamentale per prepararlo. Oltre alle forme di pane, in alcune case c'è poi ben altro preparare: sono quelle in cui a San Giuseppe viene dedicata una festa per grazia ricevuta con tutti gli onori, la quale segue un preciso rituale. In un angolo della stanza più grande viene allestito un altarino, che oltre a recare l'immagine del santo viene ricoperto di fiori, sia di carta che freschi, e di prodotti della terra. Al calore della brace vengono cotte lentamente enormi pignatte di legumi che serviranno per preparare 'a pezzènte, una zuppa che per tradizione si distribuisce ai poveri. In onore di San Giuseppe vengono poi preparate tredici portate, che il 19 marzo verranno messe su due tavole in una precisa successione: arance condite con zucchero e olio di oliva, composta di sottaceti misti, fagioli, ceci, piselli, cicerchie, fave, granchi di fiume, lumache, scherpelle (pasta di pane fritta in forma di bastone e condita con sale o zucchero), baccalà gratinato, verdure e da ultimo i maccheroni con la mollica. Nella preparazione del tutto, chi organizza il San Giuseppe non è solo: vicini e paesani aiutano nel sistemare la casa o approntare le vivande, e la sera della vigilia ci si raccoglie tutti insieme intorno all'altarino. Con l'accompagnamento della fisarmonica vengono intonate 'i tenìje, ovvero le litanie: una serie di invocazioni su una musica molto semplice, ma di grande effetto.
Il 19 marzo a partire dal mattino è festa grande. Al primo tavolo siederanno personaggi simbolici: il Vecchio e la Vecchia, per rappresentare i quali vengono prescelte persone anziane o notabili del paese, e gli Angioletti interpretati dai bambini; al secondo possono sedersi gli ospiti, ovvero tutti coloro che verranno a visitare la casa. Prima di sedersi, si pronuncia il saluto "Gessemmarìe", ovvero "Gesù e Maria": è il modo canonico di ringraziare il santo per tutto il ben di dio che c'è in tavola.
Un tempo erano moltissime le famiglie che organizzavano il San Giuseppe, e tutto il paese partecipava. Zia Lella da piccola ha fatto l'Angelo tante volte, e ricordava che la mattina della ricorrenza andava nell'orto del nonno a raccogliere le violette da appuntare sul vestito bianco. Era una delle poche occasioni in cui si poteva mangiare a sazietà, e anche bere: era poco consigliabile per le signore andare in giro per la strada dopo una cert'ora, perché c'era sempre il rischio di incontrare gruppi di ubriachi. Una specie di carnevale agreste, a modo suo, un giorno in cui c'era licenza di riempirsi la pancia. Non è un caso se, giacché la società agricola sta oramai tirando gli ultimi, anche il San Giuseppe sta sparendo. Il che per me, e ancor più per mia sorella che sulla festa ha fatto la sua tesi di laurea, è un gran dispiacere.
Fortunatamente non siamo le sole a dispiacerci. I ragazzi del paese hanno deciso che la tradizione non la si doveva lasciar morire: e quest'anno hanno quindi pensato di preparare un San Giuseppe collettivo. Sono mesi che ci lavorano, preparando il pane, andando in giro per la questua, costruendo un grande camino. E visto che, grazie al cielo, siamo nell'era di Internet, possono mettere a parte dei loro sforzi direttamente online anche coloro che sono andati ad abitare altrove.
Anche qui nell'Urbe la mia famiglia festeggia il 19 marzo, e lo fa ovviamente con i maccarune c'a meglìche. E' una pietanza che può lasciare perplessi coloro che non vi sono stati accostati fin da quando erano piccoli: non a caso io e mio padre ne andiamo matti, mentre mia madre a malapena accetta di assaggiarne una forchettata, fiutando con malcelato sospetto gli aromi dolci che salgono dai maccheroni. Non so pertanto se la ricetta potrà interessare chi legge: ma la dedico a tutti i conterranei, ancora residenti in paese, e ancor più a quelli che come me sono andati via. La dedico in particolare a Vincent, con l'augurio che l'anno prossimo possiamo mangiarla assieme.

Ingredienti per due persone:
un etto abbondante di mollica di pane fresco
un cucchiaino raso di sale
altrettanto di zucchero
tre o quattro cucchiai d'olio d'oliva
una manciata di uva passa
cinque o sei chiodi di garofano
un etto e mezzo di vermicelli bucati (oppure di spaghetti)

Preparazione:
per prima cosa preparate la mollica, strofinandola fra le mani fino a ridurla in minutissime briciole: alla fine dovrà risultare sottilissima, e la si lascerà riposare in una ciotola in attesa dell'impiego.
Si prende quindi una capace padella e la si mette sul fuoco basso con l'olio, facendolo scaldare appena. Nell'attesa si provvede a triturare fra le mani i chiodi di garofano, in modo da ridurli in polvere.
Quando l'olio si è scaldato ci si versano in successione la mollica, il sale, l'uva passa, lo zucchero e i chiodi di garofano, facendo insaporire il tutto finché non diventa ben dorato.
In un paiolo di stagno si mette quindi a bollire l'acqua dove verranno cotti i vermicelli o spaghetti, che verranno scolati quando sono al dente: la pasta va quindi versata nella padella con la mollica, in modo che si insaporisca bene. La tradizione comanda che i vermicelli vengano conditi direttamente con le mani, ma chi non è abituato è meglio che eviti il rischio di ustionarsi, pertanto impieghi pure una forchetta o una cucchiarella.
I maccarune c'a meglìche si possono mangiare fumanti, ma sono squisiti anche freddi. E' così che spesse volte capita di gustarli al paese, dove di casa in casa vengono recapitati per devozione piatti e piatti di pasta. Per accompagnarli, niente di meglio di un bicchiere di vino rustico: la pasta con la mollica è un piatto povero e non vuole smancerie.
Io quest'anno, fatti salvi i soliti imprevisti, alla data canonica li mangerò nel mio Sannio. Con l'occasione penso che chiederò una grazia a San Giuseppe. Ci sono tante donne del paese che possono testimoniare che è un gran santo, e che è sempre pronto ad ascoltare. Così, si spera, l'anno prossimo i maccheroni li mangeremo Vincent, io e gli altri. Tutti assieme, come dovrebbe essere, e come mi auguro sarà.
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