sabato 26 settembre 2009

Lost in translation: Lupin III e il castello di Cagliostro

Lo so: dopo la trasferta in quell'amena città della Riviera Adriatica, sarebbe d'obbligo un post sui segreti della piada romagnola o sulla metodologia per tirare una sfoglia a regola d'arte giusta i consigli carpiti a qualche rezdora che abbia passato l'ottantina. Ma visto che durante la succitata trasferta mi sono nutrita esclusivamente di piè al gusto di bitume (il solo cibo che si potesse trovare nel quartiere fieristico ove ero reclusa, se si escludono prelibati arancini Doc importati dalla Corea del Nord) e al ritorno ho dovuto combattere con un fiero raffreddore che mi ha causato papille gustative interrotte ed emissioni nasali la cui portata superava di gran lunga quella dell'acquedotto pugliese, di cucina non se ne parla. Devo anzi dire che mi dedicherei volentieri a fruttifere attività quali osservare il soffitto da un punto privilegiato quale è il divano, darmi del tu con il materasso, o impegnarmi in piacevole conversazione con una vaschetta di gelato.
Ma visto che l'ineffabile bimamma Valentina di Passodoppio mi ha complimentato per gli scherzucci da dozzina che qui pubblico, mi par cosa doverosa dare un calcio alla pigrizia e mettermi alla tastiera.
Proprio in omaggio alla professione della bimamma, mi sembra opportuno dedicarmi a un argomento che, anche per motivi professionali, mi ha sempre interessato parecchio: la traduzione e adattamento per il pubblico occidentale dell'animazione giapponese, un tema su cui tutti gli otaku prima o poi si danno, e non a torto, a un torrente di imprecazioni causate da risultati a dire poco criminali. Lupin III e il castello di Cagliostro, considerato il più bel lungometraggio dedicato al ladro gentiluomo creato da Monkey Punch, non è forse fra gli esempi che si prestino meglio alla bisogna: ce ne sono di ben peggiori. Ma proprio il suo non essere fra i peggiori lo rende adatto a trarne qualche considerazione generale.
Il protagonista, non credo necessiti di introduzione: lo conoscono dal Manzanarre al Reno grazie a due serie televisive di enorme successo che vennero trasmesse quando io ero in età scolare - gli esperti mi diranno che le serie sono tre, ma io mi rifiuto per decoro di considerare quella con il Lupin in giacchino rosa - e, a giudicare dal numero di pischelli che girano esibendo magliette con stampigliata in bella vista la faccia un po' scimmiesca dell'eroe eponimo, gode ancora di enorme popolarità. All'epoca, personalmente, non mi fece impazzire: i motivi sono diversi, non da ultimo il tasso di misoginia e sessismo presenti a palate in diversi episodi (sì, anche quando ero piccola Camille Paglia poteva farmi da lacchè). Facevo però un'eccezione per una manciata di puntate che si distinguevano per trame coinvolgenti, per un'ironia tagliente unita a toni da commedia, per una Fujiko - ben diversa dalla Margot balconata e sgallinante comprimaria del Lupin in giacca rossa - doppiogiochista sì ma non viscida e anzi spesso parecchio brillante, e per un Lupin che, sfoggiando una bella giacchetta verde, sfrecciava su un cinquino Fiat.
L'eccezione era motivata. Un volta cresciuta e dotata degli strumenti che ci offre la tecnica moderna, scoprii che quella manciata di episodi erano fior di farina del sacco di Hayao Miyazaki e Isao Takahata, che chiamati a salvare la débacle in cui stava franando la produzione trasformarono una serie banale e un protagonista playboy, piatto e con il grilletto facile, in un piccolo capolavoro.
Il quale capolavoro meriterebbe trattazione a parte, e qui non c'è lo spazio. Basti dire che quella serie è considerata la migliore fra tutte, che nonostante lo scarso gradimento iniziale nel corso degli anni venne premiata da un successo travolgente, e che proprio il successo determinò l'idea di fare un lungometraggio con Miyazaki alla regia.
Il castello di Cagliostro è il suo ultimo film su commissione: ma Miyazaki è Miyazaki, e qualunque opera affronti, su commissione o meno, reca il suo riconoscibile marchio. E anche qui lo si nota più o meno ovunque: nella maniacale accuratezza delle scenografie (straordinari gli spazi del maniero dove si ambienta la maggior parte dell'azione, con l'intrico labirintico che poi si ritroverà ne La città incantata, il borghetto che riproduce fedelmente le architetture di una cittadina mediterranea, i panorami ricchi di scenari alpini, colli e laghi), nella presenza di un autogiro d'antan che ha un ruolo fondamentale in uno dei momenti chiave della storia, negli ingranaggi dell'enorme torre dell'orologio in cui si svolgerà il climax, e non da ultimo in personaggi femminili tosti e coraggiosi, con Fujiko che si destreggia disinvoltamente fra moto, mitra e matrici da falsari, e una principessa dagli occhi blu che non è la solita principessa e non teme di sfidare le pallottole dello sgherro di turno o di camminare su un cornicione che dà a piombo su un cortile situato una trentina di metri più in basso. Ma basterebbe già il personaggio principale a dare la misura dell'intervento di Miyazaki: pur non perdendo le sue note caratteristiche (non da ultimo, un notevole interesse per l'altra metà del cielo), Lupin è contraddistinto da un acuto senso di giustizia, che gli fa abbandonare la ricerca del profitto per mettere a nudo, complice l'integerrimo ispettore Zenigata, le nefandezze che il conte di Cagliostro macchina con la complicità delle alte sfere internazionali al fine di dominare l'economia mondiale. Più che la presenza di Monkey Punch, si direbbe, si sente quella di Karl Marx.
Giacché Il castello di Cagliostro si trova facilmente in DVD e in più edizioni, non rivelo nulla della trama: basti dire che la sceneggiatura per vivacità e colpi di scena fa sembrare qualunque film di Bond un documentario sui castori, che la scena iniziale dell'inseguimento (con Lupin alla guida di un cinquino modificato e la principessa che in fuga dagli scagnozzi di Cagliostro pigia l'acceleratore di una gagliarda Due Cavalli, omaggio di Miyazaki alla sua prima macchina) mandò in estasi Steven Spielberg quando il film venne proiettato a Cannes trent'anni fa, e che l'irrinunciabile storia d'amore è relegata, grazie al cielo, al ruolo di mera sottotrama e viene risolta con delicatezza, umorismo ed eleganza. Acquistatelo, o fatevelo prestare da un amico. Vedetelo doppiato, così vi godrete una storia e un'animazione di qualità fuori dal comune.
Poi provate a vederlo in originale con sottotitoli. Se quelli dell'edizione inglese, meglio ancora.
Risate assicurate, anche se non disponete, come me, di un compagno di casa e di vita che ha buona dimestichezza con la parlata sollevantina. Perché vi parrà di star vedendo un film muto, e vi chiederete dove accidente è finita Louise Brooks (non conoscete Louise Brooks? Filate su Wikipedia. Subito).
Caratteristica di molti adattamenti per il pubblico occidentale, e Cagliostro non fa eccezioni, è infatti spiegare diffusamente ciò che si vede sullo schermo, nonostante i personaggi dell'anime di turno nell'originale siano in beato silenzio: ma si sa, il pubblico occidentale è cretino, solo vedendo non comprende, per cui è il caso che il solerte traduttore aggiunga monologhi a palate, i quali vengono pronunciati a mitraglia dal povero doppiatore in un momento in cui il personaggio, bontà sua, è di spalle. Poco importa che uno spettatore di media intelligenza possa dedurre da sé la rava e la fava nel mentre che la trama si dipana, e che si possa giustamente inferocire perché gli si rovina la sorpresa. In Cagliostro il pubblico italiano si becca un discreto numero di spoiler proprio all'inizio, nella scena in cui Lupin e Jigen stanno osservando il castello del temibile conte e in cui nell'originale si scambiano a malapena qualche grugnito. Gli spettatori statunitensi, in compenso, nella stessa scena beneficiano di uno sproloquio che per lunghezza rivaleggia con il Mahabharata e che rivela buona parte del perché e del percome il conte è un individuo pericoloso e quali cose fosche ha combinato. Il tutto con largo anticipo sullo sviluppo della storia.
Va detto che se non altro agli yankees non vengono ammannite le perle che costellano il primo doppiaggio italiano (e che sono fortunatamente scomparse in quello più recente), ricco di quelle strizzatine d'occhio che dovrebbero piacerci tanto: basti dire che un vescovo diventa il Papa - sempre clero è, mi dirà qualcuno: e io gli rispondo che, almeno quando si traduce, i distinguo non sono un optional -, che una città anticoromana diventa l'antica Roma, cosa un filino risibile se ci si trova nel bel mezzo delle Alpi europee e a due passi da un castellazzo in mezzo a un lago che pare il gemello più corrusco di Mont-Sant-Michel, e che l'ispettore Zenigata - pardon, detective nel doppiaggio - nel finale mostra un pauroso sbandamento paternalistico che pare uscito dritto dritto dalle peggiori pagine di Cuore. Non sono gli unici casi: a voi il piacere di scoprire il resto.
Siamo d'accordo: tradurre, e adattare, è anche un po' tradire. Ne sono ben consapevole. Per lavoro o per piacere mi trovo spesso di fronte a espressioni o situazioni che son facili e piacevoli da districare quanto il gomitolo di lana con cui il micio si è dilettato mentre voi guardavate dall'altra parte. Però c'è un limite a tutto.
Anche perché, a furia di tradire, va a finire che tradisci la trama, la natura dei personaggi, e non da ultimo chi fruisce del prodotto finale. E chi fruisce, in questo caso, è assai probabile che conosca più che bene il protagonista, i comprimari, il loro carattere, e il contesto in cui abitualmente si muovono.
E che si arrabbi, come mi sono arrabbiata io che pure di Lupin non sono un'esperta, fin dai primi minuti del film, grazie a dimostrazioni di pigrizia da parte del traduttore come quella che segue. E che già da sola è la cartina di tornasole di un lavoro fatto con i piedi: perché se ti prendi in carico l'adattamento di un film di Lupin devi fare qualche ricerchina in modo da sapere ad esempio, cosa nota persino alle casalinghe di Montecompatri di Sotto, che il protagonista se vede qualunque esemplare di sesso femminile va in tilt.
La scena è quella subito prima del citato inseguimento che fece impazzire Spielberg. Lupin sfumazza pacioso sul cinquino a due passi da Jigen che ha appena sostituito una ruota bucata, quando arriva a tutta birra la Due Cavalli della principessa seguita da una macchina irta di uomini in nero. In un lampo Lupin è alla guida, mette in moto e il cinquino schizza via con Jigen che a malapena fa in tempo a salire, e che giustamente chiede lumi. Lupin risponde. Ecco qui il dialogo, in giapponese (da me malamente traslato in caratteri latini) e nelle diverse traduzioni fornite ufficialmente.
Versione originale:
Jigen: "Docchi ni tsuku?"
Lupin: "ONNA!"
Versione sottotitolata statunitense:
Jigen: "Che succede? Perché corri in questo modo?"
Lupin: "Quella ragazza è in pericolo! Dobbiamo aiutarla!"
Primo doppiaggio italiano:
Jigen:"A quale ci affianchiamo?"
Lupin: "Alla sposa, Jigen!"
Secondo doppiaggio italiano:
Jigen: "Per chi parteggiamo?"
Lupin: "Per la ragazza!"
Noterete che nelle diverse versioni c'è qualche piccola discrepanza. E c'è perché nessuna traduzione corrisponde esattamente all'originale. Il quale, ça va sans dire, si adatta come un guanto alla personalità di Lupin. E che, per inciso, vuol dire quanto segue.
Jigen: "Chi seguiamo?"
Lupin: "La DONNA!"
Forse per noi occidentali non era abbastanza chiaro.
Ma si sa, un piccolo aiuto è necessario: il Giappone è un altro mondo.
Anzi, un altro mondo è riduttivo. Un comunicato stampa giuntomi di recente da parte di una nota agenzia di viaggi e prontamente finito nel cestino, lo definiva "un altro pianeta, una sorta di Plutone, di Giove, di Nettuno, in cui ci troviamo proiettati in un'altra dimensione".
Sarà per quello che tanti aspetti nelle opere di animazione nipponica vanno a finire, per citare quel bel film di Sofia Coppola, lost in translation.
E io sono certamente maligna a pensare che forse la siderale lontananza della mentalità e lingua giapponese non c'entrano un amato zero, che volendo si possono produrre adattamenti di brillantezza e qualità sublime, e che il motivo principale di quanto si perde in traduzione sia dovuto al fatto che i cartoni, giapponesi o meno, sono roba da bambini, o da bambini cresciuti e però disposti a spendere, per cui tanto vale tirar via e far sì che il prodotto vada a finire sul mercato il prima possibile e come viene viene.
E sono certamente ancor più maligna a pensare che a traduttori e adattatori in genere vadano in certi casi mozzate le manine, visto che producono gioielli come "ho dimenticato la mia montre" (in originale "I forgot my mantra", in Io e Annie di Woody Allen, tramutando una preghiera buddista in un orologio francese), "si è preso un passaggio anche da me!" (frase che avrà stupito alquanto chi vedeva Le streghe di Eastwick, visto che non si parlava di macchine ma di un preside donnaiolo: infatti l'originale è "he made a pass at me too", cioè "ci ha provato anche con me"), o "io voglio più vita, padre" (nel celeberrimo Blade Runner: peccato che nell'originale uscito in sala non ci fosse father bensì fucker). Eccetera eccetera.
Sicuramente esagero. Del resto, non abbiamo noi una tradizione nell'adattamento e nel doppiaggio che il mondo intero ci invidia?
Ne convengo rispettosamente.
E continuerò a vedermi film e anime in originale. Questi ultimi, ovviamente, con il gradito aiuto del nippofono amato bene.
E' arrivato il momento di darsi del tu con quella vaschetta di gelato. Santori time!
Buon weekend.

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