sabato 12 dicembre 2009
La voce di Dio
Chi di voi conosce Elizabeth Fraser?
Credo in maggior numero di quanti la conoscevano quando io l'ho ascoltata per la prima volta nel 1984.
Allora era la voce di un gruppo che all'epoca era considerato dalla stampa con malcelato sospetto o con adorazione (la definizione "the voice of God" per definire la loro musica venne coniata da Paul Morley, giornalista noto per i suoi articoli così linguisticamente cesellati che talvolta sfioravano il ridicolo), senza che vi fossero, almeno a quanto ricordi, vie di mezzo.
Del resto, non che fosse musica da vie di mezzo.
La sua voce, men che meno.
Adesso i Cocteau Twins, insieme ai New Order e agli Smiths, sono considerati parte della trimurti che ha segnato la new wave negli anni Ottanta. E lei è riconosciuta, per quanto non la conoscano in molti (i più la ricordano per aver cantato, splendidamente, Teardrop dei Massive Attack; altri l'hanno sentita in una pubblicità della Honda, in cui un creativo dai gusti singolari scelse di impiegare come colonna sonora un pezzo dei Cocteau Twins di dieci anni prima, a dimostrazione che per accorgersi dell'esistenza di un cosiddetto gruppo di culto ci vuole il tempo che ci vuole), come una delle migliori cantanti al mondo.
Il paradosso è che non canta. O per meglio dire, non pubblica dischi da oltre dieci anni.
A interrompere il silenzio un singolo uscito da un paio di settimane, che Elizabeth Fraser si è persuasa a pubblicare in omaggio a un amico morto di recente.
Si chiama Moses, ed è di stile alquanto diverso rispetto a ciò che ha fatto in passato. Il che non è un problema.
Il problema semmai è che la sua voce si sente assai poco.
Fa niente. Come dice il mio amato bene, potrebbe sempre essere peggio. E' già bello che abbia fatto questo piccolo passo, e che abbia potuto ascoltarla di nuovo.
Non che abbia mai smesso di farlo. E' esattamente un quarto di secolo che la sua voce mi accompagna.
I Cocteau Twins li scoprii per caso un pomeriggio, su una rete privata che non era la defunta VideoMusic, l'unica emittente all'epoca che trasmettesse video musicali. Non ricordo quale fosse, ma ricordo perfettamente l'emozione che mi trasmise l'ascolto, e il video in sé.
La canzone era uno dei classici del gruppo, Pearly-dewdrops' drops. Per accompagnarla, fecero delle riprese nella cappella dello Holloway Sanatorium, un ex manicomio di epoca vittoriana in stile neogotico, cosa che scoprii molti anni più tardi. All'epoca non ne sapevo nulla. Mi colpì la bellezza delle immagini, ipnotiche quanto la musica, in uno stile che non avevo mai visto o sentito prima. Soprattutto mi colpì la voce della cantante, una creatura dalla pelle incredibilmente bianca con enormi occhi blu: quella voce era qualcosa di incredibile. Sembrava venire da un altro mondo, a metà fra il canto di un angelo e un urlo. Mi vennero le lacrime agli occhi.
Passai i giorni successivi in uno stato di ossessione, cercando di scoprire chi fosse quel gruppo, e di che canzone si trattasse: nessuno dei due era segnalato nel video. Mi ci vollero settimane per saperlo, e per trovare il disco, in un negozietto minuscolo di musica cosiddetta alternativa che, per un colpo di fortuna, scovai proprio sotto casa di mio zio Antonio. Fu il primo vinile che acquistai. Non avevo un giradischi, oggetto troppo costoso per una ragazzina di undici anni. Lo ascoltavo di nascosto sul lussuoso impianto stereo di mia sorella, sdegnando fra me e me il fatto che lei impiegasse quel beldidio per appestare la casa con Phil Collins e Madonna.
Da quel momento mi procurai ogni loro disco e feci impazzire i miei recandomi tutte le settimane nell'unica edicola sufficientemente vicino casa (il che sottointendeva comunque diverse fermate di autobus) per spulciare le copie del Melody Maker o del New Musical Express alla ricerca di articoli su di loro. Il materiale era molto scarso: all'epoca non lo sapevo, ma i Cocteau Twins detestavano rilasciare interviste. Ogni tanto, per miracolo, usciva un articolo sull'italiana Rockerilla, sorta di Bibbia dell'epoca per tutto quanto riguardava la musica new wave, e una volta con mio sommo stupore persino un'intervista su Rockstar, mensile patinato di musica mainstream. Se ne ricavava comunque ben poco: il gruppo, e soprattutto la cantante, odiava parlare di sé. Non che il giornalista di turno aiutasse granché, con alcune lodevoli eccezioni (fra cui un italiano, il compianto Alessandro Calovolo, un Paul Morley nostrano nello stile ma dalla sensibilità completamente personale): le domande vertevano nove volte su dieci sul fatto che i titoli delle canzoni fossero incomprensibili, ricavando risposte corrucciate e laconiche, e sull'indecifrabile significato dei testi in una lingua che tutto era fuorché inglese, e su cui Elizabeth Fraser si rifiutava di fornire spiegazioni.
Credo si rifiutasse per un motivo molto semplice: la spiegazione, qualunque essa fosse, la forniva la fusione fra parole e canto. Non erano scindibili le une dall'altro. E l'emozione che trasmettevano, e trasmettono, era potente e sfaccettata. Si potrebbe tentare di definirla come un misto di malinconia, gioia, disperazione, spinta verso l'alto, ma suona risibile. Mancano le parole.
Forse se gli intervistatori avessero avuto dimestichezza con Wittgenstein non avrebbero avuto bisogno di fare domande. Molti anni più tardi di quel primo ascolto, mi trovai a studiare il Tractatus per via di un esame universitario di filosofia del linguaggio. Il Tractatus discetta di infinite cose, ma ciò su cui verteva l'esame era ovviamente un argomento attinente la materia, ovvero la relazione fra "significante" (ovvero la "forma" di una qualsiasi parola, ad esempio "mela") e "significato" (il "contenuto" della stessa). Non sto a tediarvi con le disquisizioni tramite le quali Wittgenstein partì da Aristotele e, portandolo alle estreme conseguenze, arrivò alla conclusione che, giacché il significato di ogni parola non può essere univoco (banalizzando: per Tizio la mela è un frutto commestibile di colore variabile dal giallo chiaro al rosso acceso, per Caio è uno strumento di corruzione dell'innocenza primigenia, per Sempronio il mezzo scelto da Alan Turing per mandare definitivamente a quel paese l'Inghilterra bigotta) il risultato è l'incomunicabilità, perché non vi è una lingua ma tante lingue, e ciascuno ha la sua.
Ciò che mi colpì, e che mi fece pensare a Elizabeth Fraser mentre ero china sul libro, fu il concetto della pluralità delle lingue all'interno della lingua.
A chiunque sarà capitato di dover descrivere una cosa, o una sensazione, e di non trovare parole adeguate per farlo, perché si avvicinano a ciò che si vuol dire, ma non sono esattamente ciò che si vuol dire. Si può supplire con le parole di un'altra lingua (se una situazione è particolarmente difficile da sbrogliare, ad esempio, a me verrà da dire 'mbecciuse anziché "complicata", perché esprime assai meglio la pazienza e la dedizione necessarie a dipanarla), ma alle volte non basta.
Per cui, per esprimere ciò che si sente, può essere necessario creare una lingua che sia esclusivamente propria.
Conseguenza di una lingua che sia legata all'individuo, Wittgenstein docet, è l'incomunicabilità.
Wittgenstein risolse il problema con un'intuizione logica di semplicità disarmante: il significato di una parola è il suo uso nella lingua. Ovvero, a seconda del contesto la mela sarà di volta in volta e inequivocabilmente un frutto, uno strumento di corruzione, o il modo in cui Turing fece il gesto del dito medio a una società bizzoca.
Dubito fortemente che Elizabeth Fraser si sia mai interessata a problemi di linguistica. Ma anche lei ha trovato il modo di doppiare il problema.
Il suo modo, intuitivo ma altrettanto logico, è stato di rendere "significato" la sua voce.
I testi delle sue canzoni sono imprescindibili dal suo cantare.
Non c'è bisogno di spiegazioni. Men che meno di quelle che ho trovato quel giorno mentre mi rompevo la testa sul Tractatus, e che ho riportato qui sopra. Me le sarei potute risparmiare, e godermi il fatto che il suo modo di cantare è fra le cose che, a mia esperienza, si avvicinano maggiormente a una forma espressiva purissima di emozione.
Ma è fra i miei numerosi difetti il desiderio di capire perché qualsivoglia cosa si presenti proprio in quel modo e non in un altro.
Se cercassi una spiegazione razionale al motivo, potrei trovarlo nelle interviste che Elizabeth Fraser ha rilasciato diverso tempo dopo lo scioglimento dei Cocteau Twins e in cui, con fatica e reticenza, ha raccontato delle molestie subite dal patrigno, dello squallore terrificante della vita in una famiglia operaia di una orrenda cittadina della provincia scozzese la cui economia era basata sulla raffinazione del petrolio, del suo sentirsi inadeguata per la sua incapacità di stare alla catena di montaggio in fabbrica, del rapporto con Robin Guthrie, suo partner nel gruppo e nella vita (un'alchimia di sentimenti e creazione musicale che si sente al meglio forse in Victorialand, l'unico album che realizzarono assieme senza il contributo del terzo elemento del gruppo, Simon Raymonde) e dipendente da alcool ed eroina.
Raccontò che ci era voluta la separazione da Guthrie e un esaurimento per darle la forza di affrontare il passato e il presente, il che si era tradotto, fra le altre cose, nella decisione di scrivere testi per la prima volta comprensibili per gli ultimi album del gruppo: album in cui si era trovata coinvolta a forza per motivi personali e contrattuali, cosa che si sente perché sono i meno belli della loro produzione. Ricordo che alcuni critici attribuirono la qualità minore al fatto che la comprensibilità delle parole sminuiva l'atmosfera di mistero che aveva sempre circondato i Cocteau Twins. Penso che, assai più banalmente, la creatività di Guthrie fosse andata a farsi benedire (cosa che lui ha recentemente attribuito al fatto di aver smesso di bere e drogarsi: ipotesi che accetterò come realistica solo quando mi sarà provato che Bach, lungi dal comporre come si credeva attorniato da figli scorrazzanti nella cucina di casa sua, creava le sue opere dopo essersi bucato con misture di formaldeide e Weizenbier), e che la Fraser avesse comprensibili difficoltà a lavorare con un partner con cui avevo condiviso anni di vita e che le era divenuto estraneo.
Alcuni si sono chiesti quale sarebbe stato il risultato di testi comprensibili su una musica quale era quella dei Cocteau Twins di un tempo. Io non me lo sono chiesto. La risposta viene da diverse canzoni interpretate da Elizabeth Fraser dopo lo scioglimento, su testi da lei stessa composti, su musiche composte da gruppi o musicisti eterogenei: ad esempio la già citata Teardrop, in cui parla del suo rapporto con Jeff Buckley, e la struggente This love di Craig Armstrong, pezzo portante della colonna sonora del film furbetto Cruel intentions. La sua capacità di trasmettere emozione è immutata. Le parole posso anche essere quelle di uso comune, ma al pari di quelle della "lingua perduta" che impiegava in passato, sono inequivocabilmente sue, e imprescindibili dal cantato.
Sono fra le poche occasioni in cui di recente si è potuta ascoltare la sua voce. E' comparsa nella colonna sonora de Il signore degli anelli, in Ovo di Peter Gabriel, in un paio di canzoni di Yann Tiersen. In Internet si può trovare un suo duetto con Jeff Buckley, da lei disconosciuto perché "unfinished". Ha realizzato un accompagnamento sonoro per un'esposizione d'arte, ma ha rifiutato che venisse commercializzato. Si è spesso parlato dell'uscita di un suo album solista, sempre rimandato. Dal 2006, anno in cui aveva accettato di partecipare ad alcuni concerti dei Massive Attack, se ne erano perse le tracce.
La recentissima pubblicazione di Moses è stata accompagnata, incredibilmente, da un'intervista al quotidiano The Guardian. La prima in oltre dieci anni.
Nell'intervista, una fotografia scattata in quell'occasione. Vedendola, sono rimasta colpita. Ritrae una donna di quarantasei anni con i capelli completamente grigi. Inusuale in genere, ancor più nel cosiddetto mondo dello spettacolo. Elizabeth Fraser è una donna che non ha paura di invecchiare.
L'intervista ha almeno parzialmente spiegato i motivi di un'attività musicale a dir poco centellinata. Ha da anni un nuovo compagno, da cui ha avuto una bambina, e ha scelto di occuparsi di entrambi, cosa che non era riuscita a fare causa gli impegni legati ai Cocteau Twins quando alla fine degli anni Ottanta era nata la sua prima figlia. Per questo ha rifiutato numerose proposte di collaborazione. Quanto all'album, è quasi pronto, ma non si sa quando uscirà.
Il suo compagno Damon Reece ha confessato che gli spiace davvero per il pubblico, perché la sente cantare dentro casa e "it's truly amazing", ma che non c'è verso di farle fare qualcosa che non senta di fare. "The world is a sadder place without Elizabeth singing", ha concluso.
Come altri, attenderò con pazienza che esca l'album.
E come altri, posso comunque ascoltare le canzoni incise anni fa.
E' un periodo che le ascolto molto spesso, forse perché per me sono legate al paese.
Sono legate alle passeggiate sulle strade circostanti l'abitato, in ogni stagione, ogni volta che andavo. Sono legate a fiori primaverili, campi di grano da mietere, querce dalle foglie ingiallite, odori di terra e di legna arsa, strade deserte il primo mattino o nel tardo pomeriggio. Non ho mai trovato strano un titolo come "How to bring a blush to the snow". Bastava trovarsi in inverno al tramonto sulla via che porta al cimitero, dove si stendono le campagne e intorno si vedono le colline e in lontananza le cime della Majella, e aspettare che il sole calante colorasse la neve di rosa. La musica e la voce esprimevano esattamente quella luce e quel colore.
La musica e la voce, adesso, mi parlano anche di mia zia.
Non ho le parole per esprimere ciò che questo mi fa provare. Dovrei crearle, ma non ne sono capace.
So solo che è un dono bellissimo.
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