"Pronto zia?"
"Uh, ciao! Dimmi!"
"Per favore, mi dovresti ridare la ricetta delle ostie. Me la sono persa un'altra volta."
"Sempre quella è. Uova, olio, un po' di zucchero..."
"Zì, le dosi..."
"E che ne so, io faccio a occhio."
"Sì, ma più o meno?"
"Mah, due uova, una tazzina d'olio, un paio di cucchiai di zucchero, poi la bruccia grattugiata di un limone... Non ci mettere il latte come fa 'a maestra tìa, sennò non vengono croccanti..."
"Zia... La farina..."
"Eh, io non la peso mai... Ce ne metti quanta ce ne vuole."
"Che vuol dire quanta ce ne vuole? Non so, quantificata in cucchiai quanto sarebbe?"
"Te l'ho detto. Quanta ce ne vuole".
Alzi la mano chi non si è mai scontrato con il "quanta ce ne vuole" chiedendo una ricetta alla zia, alla nonna, alla vecchierella del paese che fa quei dolci buonissimi i quali, non appena provate a farli a casa vostra, diventano pezzi di compensato con un sapore a metà fra l'asfalto e la guttaperca. Le ostie non fanno eccezione: tutte le donne della mia famiglia le sanno fare (rettifico: tutte le donne nate quando i sabati li si passava a marciare per non marcire cantando amenità come "Faccia al sol con la camicia nuova"), ma ci fosse un modo per capire l'esatta quantità degli ingredienti. Sicchè tutte le volte che le preparo è un terno al lotto.
Non che io sia alla ricerca dell'ostia perfetta. Però, sapete com'è, ci tengo. Questo dolce, che è un dolce poverissimo ed è in sostanza una cialda cotta con un apposito ferro, è quello per eccellenza della mia infanzia. E da me è stato per secoli anche il dolce per eccellenza delle feste, soprattutto quelle di matrimonio (forse il nome deriva appunto dall'occasione in cui venivano consumate: altrove si chiamano ferratelle o pizzelle, ma io tengo alla denominazione sannita, che mi sembra molto più bella). Adesso si fanno in qualunque occasione, impiegando i comodi ma banalissimi ferri elettrici: io ne ho uno classico di ghisa che scaldo direttamente sul fuoco, e che secondo me le fa più buone.
Resta inteso che se non avete il succitato ferro questa ricetta sarà per voi assolutamente inutile. Però la pubblico lo stesso. Un po' perché, per tutta una serie di motivi, mi manca casa. Un po' perché le ostie sono così buone che vale la pena di procurarsi il fondamentale utensile - e con un po' di fortuna e una vacanza lì dove l'Adriatico selvaggio è verde come i pascoli dei monti, riuscirete a trovarlo anche in un mercato rionale. E un po' perché del mio Sannio proprio non posso non parlare, cosa che sa molto bene chi mi frequenta, e che a intervalli regolari si deve sciroppare le mie elegie su questa terra che ha tutto, montagne e mare e colline, e tradizioni che non sfigurano di fronte ad altre ben più note nell'italico folklore, e che sarebbe famosa quanto l'Umbria o la Toscana se i turisti si decidessero a scoprirla, eccetera eccetera.
Ma bando alle chiacchiere.
Ingredienti:
quelli citati dalla zia nella telefonata
200 grammi abbondanti di farina (ho fatto la ricetta a occhio - ebbene sì! - e ho calcolato che dovrebbero bastare)
Preparazione:
sbattete le uova con lo zucchero e la buccia di limone, aggiungete l'olio e infine la farina a cucchiaiate, mescolando il tutto fino a ottenere una pastella che non sia né troppo liquida né troppo dura (mi rendo conto che sto parlando con la stessa chiarezza della vecchierella del paese citata all'inizio, ma spero che la foto aiuti).
Quindi ungete il ferro con un po' d'olio asciugando l'eccesso con un foglio di carta, e scaldatelo sul fornello: io sono assai orgogliosa del mio, che ha qualche annetto sul groppone (me lo regalò la zia Lella come utensile da battaglia quando ancora non avevo vent'anni, una vita fa) e come vedete ha piastre con disegni differenti.
Non appena il ferro è caldo (scaldatelo chiuso alternando un lato e l'altro sul fornello) è arrivato il momento di fare l'ostia di prova.
Prendete un cucchiaino da tè ben colmo d'impasto e aiutandovi con un coltello o un altro cucchiaino mettetelo al centro della piastra inferiore del ferro (e fate molta attenzione perché scotta come l'inferno).
Quindi chiudete il ferro, fate passare meno di un minuto, voltate il ferro dall'altra parte e aspettate altrettanto. Alla fine aprite, constatate la cottura (deve avere un colore dorato, non l'aspetto cadaverico delle insipide versioni che potete trovare pure al supermarket, settore cibi regionali) e togliete l'ostia dal ferro aiutandovi con la punta di un coltello. Ripetete l'operazione finché non è finita la pastella: più andate avanti, meno tempo vi occorrerà a cuocere le ostie, per cui badate a non realizzare degli artistici pezzi di carbone scanalato.
Una volta pronte, lasciatele raffreddare: assumeranno la durezza di un sasso, ma sottili come sono sarà un piacere sgranocchiarle. Una delle ricette della zona montagnosa del Sannio suggerisce di farcirle a coppia con un misto di miele, frutta secca tritata e cioccolato, ma per me che vengo dalle colline è fin troppo ricca, per cui opto sempre per un cucchiaino di marmellata fatta in casa, che è il modo in cui le mangiavo da piccola a merenda dopo la scuola.
E a proposito di scuola, spendo due parole su 'a maestra mia, citata da mia zia nella telefonata: commetterà pure l'errore di aggiungere latte all'impasto, ma è stata una delle pioniere che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso insegnava ai suoi alunni la matematica con i blocchi logici di Vygotsky. E questo in un paesino sannita che contava duemila abitanti scarsi.
Ve l'ho già detto che mi manca casa?
venerdì 26 giugno 2009
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