sabato 6 giugno 2009

When nostalgia bites

La nostalgia è carogna per sua natura. E come se non bastasse, mozzica pure. Anzi dovrei dire mòcceche, ma mi prenderei il giro perché la lingua del mio paese non l'ho mai imparata bene. E quel poco che ne so, tende pure a sbriciolarsi perché non la uso mai. Pure le lingue si sbriciolano, infatti. Non so se vi è mai capitato di stare all'estero per qualche mese: a tutta prima non notate la differenza, poi un giorno succede che state parlando al telefono con un conterraneo e vi bloccate perché non vi ricordate proprio come si dica quella tale cosa. E' proprio lì, ma vi sfugge. E' il segno che la lingua se ne sta andando, e con lei per certi versi se ne va un pezzo di voi.
Non è consolante che il fenomeno coinvolga pure chi nel paese c'è rimasto. Grazie alla tv, che pure ha unito l'Italia in un modo che le istituzioni non sarebbero mai riuscite a fare, le lingue si perdono. Resta l'accento, ma tutto quello che costituisce il tessuto vivo del parlato se ne va. Me ne accorgo ogni volta che torno.
I miei amici mi fanno l'esame per vedere cosa ricordo: "Allora, vediamo un po': come si dice mattarello?" Pasqua', il mattarello è 'u laganare, sono anni che mi fai la stessa domanda e ti do la stessa risposta. "E quell'attrezzo che serve per ravvivare la fiamma?" E' 'u ch'chiafuòche, e vedi come lo pronuncio bene, con il ch preciso come un'aspirata tedesca. "E la talpa come si dice?" Uffa, è 'a tapanàra. "E le ragnatele?" I mammaciuòce. Oppure i telaragne, se uno vuol fare il raffinato. Ma se il resto del discorso è in italiano, sono fossili. I più piccoli non lo sanno cosa sono i mammaciuòce. Tempo una generazione, e nessuno lo saprà più.
Ogni tanto quando sono da sola me le ripeto come se fossero parole magiche. Cerco pure di insegnarle al mio compagno, che poveretto se le scorda dopo due minuti. Del resto, anche a me succede con la lingua del suo paese.

Eccolo qui, il suo paese. Dite la verità: pensavate che fosse quello in apertura da un'angolazione diversa. E' uno dei motivi per cui mi piace, e che fa sì che mi ci senta a casa. E quando ci andiamo, anche il mio compagno viene sottoposto all'ordalia linguistica. E' lo scotto che paghiamo tutti noi emigrati. Così assisto a scenette come queste.
"Passami il muttatore".
"Il che?!"
"Il muttatore. Non lo vedi? E' lì sul tavolo".
"Ah, l'imbuto".
"Muttatore. O ti sei scordato pure questo?"
Al che segue un'imprecazione dell'amato bene in pretto romanaccio. Sapete com'è, la Grande Città ha la tendenza a farti suo.
Ma mai del tutto.
Il mio compagno non patisce di nostalgia. Gli basta prendere il treno, e in tre quarti d'ora è lì. Per me è diverso: di ore ce ne vogliono più di quattro, a bordo di convogli asmatici che passano una volta ogni morte di papa, e se putacaso si vuole usare la macchina bisogna litigare con i perenni lavori sulla Bifernina. Per cui, quando la nostalgia mòcceche, per farla desistere non parto: le do da mangiare.
E non una pietanza qualsiasi: il dolce preferito di mio nonno, la ricotta con lo zucchero.
La ricetta è semplicissima.
Si prende un etto circa di ricotta, ovviamente di pecora perché quella di mucca non sa di niente. Si aggiunge un cucchiaio di zucchero e si mescola bene.
In ultimo, si versa un cucchiaino di caffè macinato e si batte il composto con la forchetta finché la polvere non si è ben amalgamata. A quel punto è pronto e si mangia.
Se poi nonostante la ricotta con lo zucchero la nostalgia continua a morsicare, è arrivato il momento di prendere La luna e i falò di Pavese.

"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Buon weekend.

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