domenica 14 giugno 2009

"E' solo un cartone animato"

"Guardiamo un film."
"Quale?"
"Uno dello Studio Ghibli che ancora non hai visto. Si chiama Omohide poro poro."
"E che vuol dire?"
"Letteralmente significa Ricordi goccia a goccia."
"E che film è?"
"E' di Isao Takahata, non di Miyazaki. Diciamo che è un film intimista."
"Mi sa che non è il mio genere."
"Secondo me ti piace."
Il mio compagno di casa e di vita aveva ragione. E che mi abbia proposto proprio questo film in questo momento (cosa di cui non gli sarò mai abbastanza grata, visto che ha dedicato alla visione - la terza, per lui - due ore che avrebbe potuto impiegare per fare altro) mi dice tante cose.
Ma questo tra parentesi.
Omohide poro poro è un fim di incredibile delicatezza, ed è una di quelle opere che mostrano quanto sia stupido l'ancor vivo pregiudizio, qui da noi, che i cartoni animati siano un prodotto per bambini. Anche un bambino può apprezzarlo, per la bellezza dell'animazione, per l'ambientazione magnifica, perché (fra le altre cose) mostra quanto è complicato essere un bambino, cosa in cui si può ben riconoscere. Ma parla, e tanto, anche a chi bambino non lo è più.
La storia che racconta è in apparenza una piccola storia, ma già la scelta del soggetto è singolare: la protagonista è un'impiegata sulla trentina che decide di passare qualche giorno in campagna per partecipare alla raccolta dei fiori di cartamo, una pianta che in passato e ancora oggi viene impiegata in Giappone per fare raffinati e costosissimi belletti.
Quanti film avete visto che hanno per protagonista un'impiegata sulla trentina che va in vacanza in campagna? O più semplicemente, un'impiegata sulla trentina. Io non ne ricordo molti. E quelli che ricordo, avevano per personaggio principale una working girl che alla fine viene premiata dal successo sul luogo di lavoro (il che include, in genere, un matrimonio con il principale).
Non è questo il caso.
Taeko, questo il nome della protagonista, è una ragazza come tante. Non è particolarmente bella, né particolarmente intelligente. Non ha capacità che spicchino, se non quella di riflettere, il che non è una dote che renda la vita facile. Ha dei genitori e due sorelle con cui ha rapporti che alternano affetto e qualche conflitto, e un lavoro che non le piace da impazzire, ma nemmeno odia. Non è ancora sposata, il che nel Giappone del 1982 è cosa insolita per una quasi trentenne, ma neanche troppo: l'unica seccatura è che la madre cerca di trovarle in continuazione un buon partito, e che il principale le chiede, alla sua richiesta di ferie, se vuole prendersi qualche giorno "perché ha rotto con qualcuno". Non è una prescelta, e non c'è qualcosa che fin dai primi minuti segnala agli spettatori che farà qualcosa che cambierà il mondo.
Quanti protagonisti ricordate di cui non si intuisca fin dai primi minuti che son gli unti dal Signore?
Taeko raggiunge la sua meta con il treno. Ad attenderla in stazione c'è un giovane parente di suo cognato, Toshio. Anche lui non è particolarmente bello o intelligente. Come Taeko, anche lui sa riflettere, e lo esprime con apparente goffaggine maschile: ha scelto di fare il contadino perché "ama veder crescere le creature" (Taeko pensa che alluda ad animali, ma Toshio le spiega per per lui sono esseri viventi le piante, il riso, i ciliegi). Mentre l'accompagna in macchina al campo di cartamo le chiede se può ascoltare un po' di canzoni, come lui dice, "da bifolchi come me": dall'autoradio escono - ed è stupefacente nel contesto della campagna nipponica, ma Takahata è un maestro nel sorprendere gli spettatori con dettagli solo in apparenza minimali - le note di musiche ungheresi e rumene. La musica accompagna il lavoro di Taeko al campo: a scandire la raccolta del cartamo è il canto delle voci bulgare, mentre Taeko ricorda come, secondo la tradizione, il belletto ricavato dai fiori era così vermiglio perché le contadine povere, che mai se lo sarebbero potute permettere, si distruggevano le dita con le spine della pianta. L'emozione che traspare dalla scena è grande.
Ed è solo uno dei casi.
Il film si dipana seguendo il vissuto attuale della protagonista e i suoi ricordi. Taeko ha sempre sofferto di non avere un luogo "altro" al quale riferirsi: la sua esistenza e quella di tutta la sua famiglia si è sempre svolta a Tokyo, non c'è mai stato un posto dove rifugiarsi. La sua breve vacanza, il suo partecipare al lavoro dei campi, è un tentativo di costruirsi a posteriori quel luogo. Con conseguenze inaspettate.
Ad accompagnarla nella sua esperienza in campagna c'è infatti la Taeko del 1966, all'età di dieci anni. Non c'è nulla che distingua da chiunque altro bambino la Taeko che frequenta la quinta elementare: la sua famiglia è quella giapponese media dell'epoca con un padre freddo e assente, una madre che si occupa di faccende domestiche e gratifica la figlia di un'attenzione distratta se non per rimproverarla quando non vuole mangiare qualcosa o riporta una pagella con voti scarsi in matematica, due sorelle più grandi impegnate a seguire le mode del momento, il che comporta il considerare la sorellina come una mocciosa rompiscatole. La piccola Taeko fa fatica a comprendere perché le cose vadano fatte in un certo modo anziché in un altro o perché certi comportamenti o mancanze vengano considerati un'offesa al viver civile (alcune scene in particolare sono emblematiche: la madre e la sorella che la considerano anormale perché non sa fare le frazioni, il padre che le dà un ceffone perché, nella concitazione, è uscita di casa senza mettersi le scarpe, la compagna di classe ligia al dovere che stigmatizza chi scarta alcune pietanze della mensa scolastica perché ha sentito che "in Vietnam non hanno da mangiare"). Si adatta, ma non capisce. E non riesce a far qualcosa per cambiare la situazione.
Come la Taeko quasi trentenne. Che ha un lavoro che le serve per campare, ma non la esalta, e resiste ai tentativi della madre di farla sposare, ma senza dichiarare con fermezza che un matrimonio combinato non le interessa.
Fra i ricordi e i mille piccoli momenti che scandiscono il soggiorno in campagna, il film arriva a una svolta: la madre di Toshio chiede a Taeko se le piacerebbe sposare il figlio. "Non faresti solo la contadina, tutte le ragazze qui hanno anche un lavoro in città". Il marito, stupefatto, la rimprovera: "Taeko è nata e vissuta a Tokyo, come pensi che voglia rinunciarci". La zia di Toshio si intromette, ribattendo che Taeko ha dichiarato come in campagna si senta a casa. Taeko non risponde: mentre i tre discutono, fugge via.
Correndo nella pioggia, riflette sul fatto che si sente falsa, perché si è voluta costruire in campagna un passato idilliaco che non ha, e ha voluto prendere contatto con la vita rurale quando era bello e comodo, nel periodo della fioritura, non nel gelido inverno.
Sotto l'acqua battente arriva Toshio in macchina, e la fa salire. Non comprende cosa sia accaduto. Lei non glielo spiega, ma racconta un episodio della sua infanzia che le è tornato in mente: un suo compagno di quinta elementare, un ragazzino povero schifato da tutti gli scolari, un bullo perennemente sporco con cui condivideva il banco pur sentendosi a disagio, si è rifiutato di stringerle la mano quando è andato via dalla scuola, a lei sola fra tutti i compagni. Il ricordo la tormenta.
In una scena perfettamente costruita fra dialogo e lunghi silenzi, Toshio fuma. E poi dice la sua.
"Perché per voi ragazze è così difficile capire?"
Quel ragazzino non le ha voluto stringerle la mano perché lei gli piaceva. Le sue mani erano sporche, e lui sapeva che questo la disgustava. Ha stretto la mano a tutti gli altri per far loro
dispetto, ma a lei no.
E' una vicenda piccola, ma come sempre nei film di Takahata, ha la sua valenza. Il passato è passato, e ciò che è successo può avere motivazioni che ci sono sfuggite. Qualunque cosa sia accaduta, arriva il momento di lasciar andare. E guardare avanti.
Ha smesso di piovere, e Toshio e Taeko tornano dai genitori di lui. Nel tragitto, Toshio riaccende l'autoradio per ascoltare altra "musica da bifolchi": è uno stornello italiano. La commistione fra la musica, il paesaggio e l'emozione silenziosa della protagonista è qualcosa di unico. E porterà al finale, che come spesso accade nei film dello Studio Ghibli si dipana sui titoli di coda: Taeko prende il treno per tornare a Tokyo, e il treno vuoto è popolato dai suoi compagni di classe della quinta e dalla Taeko decenne. D'impulso scende alla prima fermata, e prende il convoglio che la riporterà in campagna. Mentre sale sulla macchina di Toshio, che le è venuto incontro, i compagni di scuola la salutano con la mano, e scompaiono.
Chi volesse leggere altri dettagli su Omohide poro poro può consultare l'ottima scheda pubblicata su Wikipedia: vi è riportato fra l'altro che questo film, pur essendo uno dei capolavori di Takahata, potrebbe essere considerato dagli spettatori occidentali come antifemminista e conservatore, perché Taeko rinuncia al suo lavoro e alla sua vita indipendente a Tokyo per sposare Toshio.
Non sono d'accordo.
L'accento del film non è sul fatto che Taeko rinuncia al suo lavoro per sposarsi; del resto, è la stessa madre di Toshio a dirle che ogni ragazza in campagna ha anche un lavoro in città. L'accento è sul fatto che per la prima volta in vita sua Taeko sceglie.
Il tema principale di Omohide poro poro è universale. E' la frattura che vive, credo, ogni essere umano: quella fra l'essere e il dover essere (chi ha qualche dimestichezza con Heidegger userebbe i termini Sein und Dasein), e la necessità di barcamenarsi fra i due. Un barcamenarsi che, spesso, porta a non vivere, perché adattarsi è possibile fino a un certo punto, e reprimere ciò che si è - semmai si riesca a capire ciò che si è, ma è improbabile quando ogni sforzo è teso a restare a galla: si sente solo il malessere - soffoca lentamente.
Optare per il dover essere è tirare i remi in barca, e lasciarsi portare dalla corrente. E' quello che, per citare una canzone di Lucio Dalla, "fa morire a vent'anni, anche se campi fino a cento".
Scegliere di essere è molto più difficile da definire. Per ciascuno è differente, proprio perché ognuno sceglie di uscire dalla corrente a modo suo. Ma per tutti è un'esperienza tutt'altro che semplice: vuol dire lasciare il solco comodo e già tracciato e fare la fatica di tracciarne uno a propria misura (con il rischio di trovare spesso zolle durissime), o per usare un'immagine gastronomica, visto che questo è un blog di cucina, rinunciare alla pappa pronta. E se ci rinunci, devi essere tu a preparartela.
Ma facendo questo, si attua ciò di cui parla fra sé e sé Taeko mentre è in viaggio da Tokyo verso la campagna, e che mi fa pensare che il tema del fim sia quello del cambiamento, e della scelta che ogni cambiamento precede: arriva il momento in cui il bruco diventa pupa, per poi trasformarsi in farfalla.
Omohide poro poro mostra, con una piccola storia, magnifici disegni e un'animazione magistrale, che ciò è possibile, e può essere molto bello.
Finita la visione ho ringraziato il mio compagno per avermi fatto conoscere un film così pieno e così bello.
Lui mi ha guardato, e ha sorriso.
"Non devi ringraziarmi. E' solo un cartone animato. Non è questo che dicono dei film di animazione?"
Eggià. E' solo un cartone animato.
Ma se ve ne procurate una copia in qualche modo, visto che ovviamente ancora non è uscito in Italia, vi fate un favore.
Da domani si ricomincia a parlare di cucina. Promesso.
Buona domenica.

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