martedì 25 gennaio 2011

Pizze de randìnie e fuèglie (Pizza di granturco e verdura)

E' un periodo che stare nell'Urbe mi pesa.

Per carità, ha i suoi vantaggi. Ad esempio, l'improbabilità di trovarsi la porta di casa bloccata da un metro di neve grazie alla peggiore bufera invernale capitata negli ultimi trent'anni.

Però la puzza, il traffico e il caos della capitale mi fanno pensare che sarebbe assai più sano imbracciare un badile onde farsi strada nel manto nevoso piuttosto che resistere alla tentazione di imbracciarlo per dare una piattonata in testa al solito buzzurro che ti passa avanti in farmacia, parcheggia sul marciapiede o, non so, fa il gradasso in ristoranti e hotel da conto a triplo zero in centro storico con i soldi delle mie tasse, e non solo delle mie.
Giacché però a dar piattonate si finisce in genere all'Albergo Roma o al Regina salvo il solito indulto, meglio dar pedate, stavolta alla nostalgia per il paesello.

Io in genere lo faccio mettendomi ai fornelli, e preparando pietanze di casa.

La pizze de randìnie e fuèglie, ad esempio, che è un classico, e che ben mostra la povertà che un tempo affliggeva i miei Sanniti: trattasi infatti di una pizza di farina di mais accompagnata da verdura selvatica. Un tempo era il pasto delle famiglie contadine, che non si potevano permettere altro: adesso, ça va sans dire, è diventata "antipasto tipico" nei ristoranti più lussuosi, che la servono in genere in improbabili quadrucci formato tessera e accompagnati da una porzione di verdura che starebbe comoda in un piattino da caffè ed è addomesticata al gusto dell'utente medio, il quale a sentire l'amaro della vera cicoria di campo viene colto da catatonia.

Le mie zie la servono invece come si confà: in tocchi grossi quanto la mano di un carpentiere, e con una padellata di fuèglie miste colte e cotte sul momento. Questa che vedete ritratta, nella fattispecie, è stata preparata l'inverno scorso (sì, sono un po' indietro con l'aggiornamento del blog) da zia Maria, la quale ha pazientemente tollerato la sottoscritta armata di macchina fotografica che la seguiva come un'ombra fra piano di lavoro e fornelli, e le carpiva con le tenaglie i trucchi per realizzare una pizze de randìnie a regola d'arte.

Ingredienti:
tre etti circa di farina gialla
mezzo litro d'acqua
una tazzina da caffè di olio più un po', più quello per ripassare la verdura
uno sferzellone (peperone semipiccante secco)
uno spicchio d'aglio
fuèglie miste a volontà (cicoria, sinepe, borragine e qualunque altra cosa passino i campi, da addizionare volendo con broccoli, cavolo o verza)

Preparazione:
in primis capate la verdura, che se è quella vera di campo vi farà dar di matto come poche cose al mondo: brontolate pure se vi aiuta a compiere meglio l'operazione, perché ne avete il santo diritto. Finito che avrete di pulirla lavatela bene sotto l'acqua corrente per eliminare residui di terriccio, lessatela al dente in acqua leggermente salata e quindi lasciatela a scolare per i fatti suoi. Nel frattempo portatevi avanti col lavoro e mettete a scaldare il mezzo litro d'acqua con un cucchiaino di sale.

Una volta che l'acqua è calda, versatela a più riprese in una scodella in cui avrete già provveduto a sistemare la farina di granturco e la tazzina d'olio e fatela incorporare girando il cucchiaio di legno con movimenti decisi dal basso verso l'alto, in modo che non si formino grumi. Nel momento in cui la consistenza sarà cremosa ma solida, come da foto, potete smettere di aggiungere acqua perché essa ha già fatto il suo dovere. A questo punto acchiappate una teglia di medio formato, ungetene fondo e pareti con un po' d'olio e con l'aiuto della cucchiara di legno versatevi dentro il composto pareggiandolo con le manine unte d'olio. Lo spessore deve essere di circa un centimetro, perché a differenza della consueta polenta alla brace la pizze de randìnie si caratterizza per essere compatta ma non tosta. Quindi con le nocche fate delle fossette sulla superficie, e versateci sopra una generosa dose di olio.
Un tempo la teglia veniva munita di coperchio e la pizza si cuoceva a ritmo lento fra le braci del camino sapientemente disposte sotto, ai lati e sopra, e mia zia ricorda "quand'era bèlle quànn mammà 'a facéve" con la famigliola tutta intorno al camino. Oggi tocca accontentarsi del forno, già caldo a 200°, dove terrete la pizza il tempo sufficiente a farle fare una bella costa dorata, cosa per la quale ci vorranno tre quarti d'ora circa: e non per dire, guardate che bellezza.
Mentre la pizza si intiepidisce, passate alle fuèglie, che ne frattempo si saranno liberate dell'eccesso dell'acqua di cottura: in una capace padella mettete a scaldare (senza farli friggere) lo spicchio d'aglio e 'u sferzellone, buttateci quindi dentro la verdura e fate insaporire a fuoco lento rigirando di tanto in tanto. Le mani nella foto, per inciso, sono della zia Maria. E si vede che sono mani che da una vita cucinano, e lo fanno con grande amore.
Quando le fuèglie sono ben insaporite spegnete il fuoco, tagliate la pizza a quadrotti, versateci le verdure con l'olietto saporito, mettete 'u sferzellone sulla cima per decorare e portate in tavola: vedrete che i commensali andranno in visibilio. E se provvederete ad accompagnare il tutto con qualche fetta di caciocavallo e un po' di sopressata sannita tagliata sottile, la saporita pizze de randinie anziché antipasto sarà pasto completo, e vi permetterà di svoltare la cena con ricca soddisfazione vostra e di chi mangia assieme a voi.

giovedì 13 gennaio 2011

Il bove e la chiesa: Santa Maria della Strada

Come detto altrove, talvolta l'amato bene e io si riesce ad andare in vacanza.

Evento degli eventi, in casi rari si riesce persino a coinvolgere gli amici. Ciò ovviamente dopo lunga preparazione e attenta analisi, perché già è difficile andare in vacanza da soli, figurarsi in compagnia.

Sicché, fin da ottobre avevano progettato un piano formidabile: sottrarre la macchina a mia sorella, e puntare verso il paesello in gruppo composto dalla sottoscritta, l'amato bene, il mio amico Mauro e la gatta. Il mio amico Nicola, specialista in quella che al paese viene chiamata "l'arte dei pazzi" (ovvero spostamenti frenetici dal punto A al punto B e viceversa: egli suole infatti muoversi sulla direttrice Urbe-Sannio con la rapidità e frequenza di una pallina da flipper), ha commentato che ci mancava giusto qualche carabattola e un paio di infanti per rifare il Carro di Tespi. Non posso ragionevolmente dargli torto: in compenso al ritorno abbiamo riportato con noi la zia Lella e svariati quintali di cibarie tipiche, e ho motivo di pensare che chi si spostava con il Carro di Tespi viaggiasse più comodamente. Ma tutto ciò, come sempre, fra parentesi.

Se la sottoscritta, l'amato bene, la gatta Gelsomina e la zia Lella sono persone assai note a chi segue questo modesto blog, non altrettanto si può forse dire di Mauro: il quale ha però fornito al mio arsenale culinario proprio la prima ricetta pubblicata qui sopra. Mauro è infatti eccellente cuoco, ed è solo una delle sue qualità. Ad esempio, a differenza di me e del mio compagno di casa e di vita, adora guidare. E sempre a differenza di me e del mio compagno di casa e di vita, l'ansia non sa cosa sia, o se lo sa la gestisce molto bene. Infatti il mio tartassarlo a partire da ottobre per un viaggio di tre giorni da svolgersi in gennaio, e in un loco per raggiungere il quale ci vogliono tre ore e rotti di macchina e non venti ore di volo lo ha lasciato alquanto perplesso. Ma fra le sue qualità vi è anche quella di essere assai paziente con le nevrosi altrui. Sicché, la mattina del 5 gennaio, si è presentato alle nove sotto casa nostra, ha caricato noi e il bagaglio peloso (copyright Dottor P) e abbiamo fatto rotta verso il torrente Cigno.

Per me, la Befana al paese è un punto fermo. La Befana è infatti quella che quando le zie, mio papà e zio Antonio erano piccini portava i doni. La mattina del 6 gennaio era mio nonno a dare la sveglia, mi diceva zia Margherita: "L'ho vista mentre se ne andava, chella vecchiarella..."
La Befana continua a portare i doni, e il camino fa sempre mostra di una parata di calze ben pasciute, con le zie che si divertono assai ad aprire le loro rovesciando il contenuto sul tavolo. Quando in casa abbiamo un ospite, ovviamente la calza c'è pure per lui. E la vecchierella deve saperla lunga, visto quella di Mauro era fornita di un bel po' di prelibatezze di casa e di cascina.

Dette prelibatezze spero abbiano aiutato Mauro a tollerare il sovrabbondante entusiasmo della sottoscritta. La quale, quando riesce ad attrarre qualsivoglia persona nella tela del Sannio, fa al tapino o tapina di turno una capa tanto. Sicché Mauro si è fatto appresso a me e al sempre paziente amato bene il tour del centro storico, sguerciandosi per vedere la pregevole lunetta medioevale della chiesa madre sommersa dalle impalcature, la fontana barocca con i mascheroni, la chiesetta rococò dell'Addolorata e 'a fonda préte (fontana di pietra) risalente alla metà del Settecento. Si è fatto pure dodici chilometri di curve per raggiungere Larino e vedere il portale romanico della chiesa, cibandosi un dettagliato resoconto della festa di san Pardo fra un tornante e l'altro. E il pomeriggio prima di partire, guidando con somma scioltezza sull'asfalto malconcio della SS87 Sannitica, ci ha accompagnato a Santa Maria della Strada.

E' una chiesa che conoscono solo i locali, e talvolta manco loro. Io l'avevo vista dall'esterno quando ero alta un palmo, e da allora ho sempre sognato di tornarci. Sta spersa in mezzo alla campagna lungo la strada che un tempo collegava il Sannio alla Puglia, e chi prende il trenino spolmonato che a cinquanta all'ora si fa il tragitto dal capoluogo alla costa può vederla in lontananza nella valle su cui si snoda la ferrovia. Tutti i viaggi che mi sono fatta verso il paesello prevedevano in quel punto la sottoscritta con il naso incollato al finestrino e, da quando ho percorso il tragitto con l'amato bene, l'ululato "Guarda là! Guarda la chiesa! E' bellissima, ci dobbiamo andare!", con l'amato che paziente rispondeva, sisì, va bene, ci andremo, ma dobbiamo venire con la macchina, altrimenti come ci si arriva?

Non ci si arriva. E' infatti uno di quei gioielli nascosti, che si raggiungono solo se si ha l'intenzione di farlo. E per farlo ci vuole la macchina, una discreta perizia alla guida perché la strada è quella che è, e occhi attenti perché il cartello che indica la deviazione dal tracciato principale è scolorito da anni di intemperie.

Vale la pena di fare tanta attenzione, e di percorrere a passo d'uomo la stradetta che conduce alla meta.

Ve ne accorgerete arrivando, quando su una collinetta verde circondata di alberi spunterà la sagoma piccola e solida della chiesa, che pare essere stata posta lì con amorosa cura dalla mano del Creatore in persona.

Secondo la leggenda, più che la mano dell'Alto Fattore ci dovrebbe essere quella del suo eterno rivale. Infatti Santa Maria della Strada è una delle chiese di Re Bove. Costui doveva essere un pessimo soggetto, e fra una mala azione e l'altra pensò bene di mettere gli occhi su una fanciulla con la quale, per motivi di eccessiva consanguineità, era poco opportuno convolare a nozze. E giacché, come diceva il principe, ogni limite ha una pazienza, questo specifico limite fece saltar la mosca al naso all'Altissimo, ovvero al suo rappresentante ufficiale in terra. Il quale condannò Re Bove a costruire sette chiese in una notte (altre tradizioni dicono che il numero fosse cento), pena la dannazione eterna.
Visto il compito non esattamente spiccio, il sovrano come spesso accade in simili casi decise di affidarsi alla concorrenza. Stipulò pertanto un patto col demonio, offrendo in cambio la merce prediletta dal sire cornuto. E via a costruire, con Satanasso a tirar giù le pietre dai monti sanniti e Re Bove a tirar su forsennatamente gli edifici sacri.
All'alba le chiese erano tutte pronte meno una. E mentre il sole spuntava, il re fra terrore e pentimento cadde in ginocchio e in lacrime pregò Dio che lo perdonasse.
Si sa che la misericordia divina è grande. E così l'ultima chiesa non venne mai completata: il Diavolo, furioso che gli fosse stata tolta da sotto il naso quell'anima che stava lì bella pronta, la distrusse con un enorme macigno.

Leggende a parte, buoi di pietra si trovano come elemento decorativo in più chiese nel mio Sannio. Io sospetto che non ci abbia a che fare alcun sovrano zozzone, ma piuttosto il fatto che per i Sanniti molisani il bove era un animale totemico: mica per niente la loro capitale si chiamava Bovianum ed era stata fondata, così narra la tradizione, da un gruppo di giovincelli che avevano seguito un bue nel rituale - nato pare onde levarsi di torno eccessive bocche da sfamare senza venire alle armi - passato alla storia con nome di ver sacrum.
Fatto sta che buoi scolpiti si possono trovare ad esempio sulla chiesa di San Leonardo a Campobasso, sulla Cattedrale di Larino, nella meravigliosa chiesa di San Giorgio a Petrella Tifernina. Ci sono anche a Santa Maria della Strada. Ma non potrete vederli qui. Perché la sottoscritta, oltre ad avere il noto talento canino con la macchina fotografica, proprio in questa occasione ha ben pensato di dimenticarsela, la macchina fotografica, e ha mestamente supplito con il cellulare: a seguire trovate quel poco di salvabile degli scatti.

Nella sua solo apparente semplicità, Santa Maria della Strada rivela nelle sue decorazioni una complessità rappresentativa e simbolica notevole. Basta leggere la pietra. E se non la si sa leggere, si sarà comunque colpiti da quanto quella pietra è bella. Ad esempio il rosone con dodici raggi perfettamente uguali, simbolo degli apostoli ma anche richiamo alla ruota della Fortuna, e il timpano con la sposa simbolo di Gerusalemme.
Sulla lunetta di sinistra, un uomo a cavallo ne trafigge un altro. Alcuni sostengono che si tratti di un riferimento alla chanson de geste, con Fioravante che ammazza un saraceno per liberare una donzella. Altri, forse più correttamente, dicono che ricordi l'episodio biblico dell'uccisione di Assalonne, noto per i suoi lunghi capelli. Quale che sia l'interpretazione, la scena è magnifica.
Forse ancora più bella la rappresentazione sulla lunetta di destra, con un uomo circondato di animali che soffia nel corno. I fan della chanson de geste lo identificano con Rolando, altri lo vedono speculare alla lunetta di sinistra e riferito al fatto che Gioab, uccisore di Assalonne, dopo l'assassinio fece suonare il corno nella Valle dei Re.
Se già timpano e lunette fanno venire alle armi gli studiosi riguardo le intepretazioni, sugli elementi decorativi cosiddetti minori è la festa della citazione erudita. Io le citazioni erudite le lascio perdere, ma ditemi voi se le figure non sono da guardare con amorosa attenzione, dall'uomo nelle grinfie della belva al cavaliere assalito dal leone al cane zannuto che fa capolino, e che se la sottoscritta fosse meno canide con la macchina fotografica si vedrebbe benissimo mentre azzanna un'altra bestiaccia a sua volta impegnata ad assaltare un agnello.
Sul lato destro della chiesa, un altro ingresso che stavolta prende dichiaratamente a prestito elementi non biblici. La lunetta rappresenta infatti il cosiddetto volo di Alessandro, leggenda che vede il magno condottiero farsi una bella gitarella in quota su una cesta trainata da due grifoni. Il Macedone nell'iconografia medievale era impiegato quale simbolo negativo: qui invece, e gli esperti dicono che è quasi un unicum, lo si impiega come simbolo del desiderio di ascendere al cielo.
A evidenziare la valenza positiva una serie di elementi con cui non vi sto a tediare: voi limitatevi a guardare quanto son belle le due pistrici e l'Agnus Dei che incorniciano la scena.
L'interno è semplicissimo, con poca luce di suo e ancora più scarsa per via del tramonto incombente al momento dello scatto. Soffitto a capriate, tre navate sorrette da robuste colonne i cui eleganti capitelli non mostrano la capricciosa creatività che si può vedere altrove, ma forse proprio questo aumenta la sensazione accogliente che si prova entrando. Sul fondo, dietro un altare semplicissimo, la statua della Madonna con il bimbo in braccio, illuminata da due piccole lampade e da una delle minuscole finestre.
Poco vicino all'ingresso si trova un monumento funebre, più recente della chiesa - edificata, per inciso, dai monaci basiliani nella prima metà del XII secolo. Anche questo è un piccolo capolavoro di delicata finezza, con gli angeli a tenere le cortine che celano a metà il trapassato. Come usava un tempo, la tomba è stata impiegata per la sepoltura successiva di più persone, identificate variamente come l'abate Landolfo, il nobiluomo Berardo d'Aquino e tale Gemma signora di Lupara. Più romantica la tradizione popolare, che in quel sepolcro, o sotto di esso, ritiene dorma il sonno eterno Re Bove.
La collinetta su cui è adagiata la chiesa si affaccia su una piana circondata in lontananza di rilievi. Se andrete all'imbrunire e se la giornata è tersa, vedrete un tramonto dai colori incredibili. Se andate durante il giorno, mettetevi a contare quante sfumature ha il verde dei campi e dei colli tutto intorno. Scoprirete che il Molise ne ha più dell'Irlanda.

Se con tutto ciò vi è venuta voglia di fare una capatina, sappiate che arrivare è assai semplice. Come detto, Santa Maria della Strada si trova nei pressi della SS87. Se arrivate da Campobasso troverete la diramazione alla vostra sinistra, da Termoli (cosa che non conviene perché la distanza è di gran lunga superiore) sul lato opposto. Ad accogliere il veicolo c'è un ampio parcheggio, con l'asfalto nuovo nuovo e confinante con una macchia di piccoli abeti. Ai margini della collinetta un pannello esplicativo vi introdurrà alla storia dell'edificio assai meglio di quanto potrei fare io. Una piccola bacheca poco distante vi fornirà alcune informazioni utili, fra cui i riferimenti per contattare la signora Angela in caso trovaste chiuso l'ingresso alla chiesa (la quale, cosa rara nel Sannio, è aperta tutti i giorni fino al tramonto). Se dopo la visita veniste colti da un insano desiderio di convolare a nozze con il vostro partner, su detta bacheca troverete anche il telefono del padre guardiano.

Putacaso poi vi venisse appetito, presso il parcheggio troverete un ristorante chiamato, assai attamente, La quiete di Re Bove. Da maggio a settembre risulta aperto tutti i giorni, in inverno è chiuso il martedì. Noi non abbiamo avuto il piacere di provarlo in quanto un piatto di arrosticini alle cinque del pomeriggio della Befana sarebbe cosa da stroncare anche Pantagruele. Voi fate un tentativo, e oltre agli arrosticini ordinate la pizza e menesta (pizza di farina di granturco e misto di erbe di campagna) che mi dicono essere la specialità della casa.

Se dopo la visita potete usufruire di altre ore di luce, riprendete il veicolo e guidando in relax procedete sulla SP13 per altri otto chilometri e mezzo, ovvero quelli che vi basteranno a raggiungere Petrella Tifernina. Lì troverete la già citata chiesa di San Giorgio, altro tesoro del romanico molisano. E di lei spero di raccontarvi un'altra volta, mi auguro presto, quando andrò a vederla di persona.

Allo scopo, vado subito ad allertare Mauro di tenersi liberi un paio di giorni per la prossima estate.

E se non mi tira addosso, come avrebbe il santo diritto, un capitello a rosette longobarde, ci si vede presto qui sopra per una serie di ricette tipiche. A bientot.
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