lunedì 20 dicembre 2010

Pannocchio di Natale

Ragazzi, non ho manco il coraggio di scusarmi.
Questo blog, per tutta una serie di motivi con cui non sto a tediarvi (non da ultimo il fatto che il mio amato bene di recente si è sentito male di nuovo causa ritmi di lavoro da miniera, e grazie al cielo che le cure fanno effetto), è in fase di completo abbandono. Se fosse un giardino, sarebbe la sagra dell'erbaccia. Se fosse una casa, la sagra delle ragnatele (non dissimile quindi dalla mia bicocca, visto che c'ho il tempo di pulire come si confà una volta alla settimana). Internet difetta di entrambe, però un bel po' di muffa virtuale codesto ricettario l'ha presa. Quindi mi pare cosa santa, anche perché alcuni benevoli lettori mi stanno facendo una capa tanto su quel certo social network inviandomi messaggi privati un giorno sì e l'altro pure - e meno male che non mi cazziano in bacheca - farvi gli auguri con un dolce del mio Sannio.

Il pannocchio, per inciso, è giusto vanto della pasticceria Lupacchioli, la più titolata del capoluogo, e durante le feste sulla tavola non manca mai. Gli amici non sanniti che hanno avuto occasione di assaggiarlo (ne sono infatti fiera spacciatrice nell'Urbe e non solo) sono andati in visibilio. E a me è sempre spiaciuto che la sua fama non abbia superato i confini della regione.

Domenica scorsa ho scoperto che mi sbagliavo. Grazie a un veneto.

Il veneto in questione si chiama Michele, detto lo ZioMic perché ci conosciamo dalla bellezza di ventidue anni, e all'epoca gli otto anni di differenza che separano la mia età dalla sua erano parecchi. Per parlare diffusamente dello ZioMic non basterebbe un trattato: basti dire che, fra le sue tante qualità, ha pure quella di avere accanto una donna splendida che è altresì una maga del mestolo e del mattarello (mi si dirà che trattasi di qualità non personale di ZioMic, ma converrete che un uomo il quale ha accanto una donna splendida di pregi ne deve avere parecchi).
Nella conversazione domenicale che abbiamo avuto, ZioMic mi ha parlato con toni da estasi amorosa di un dolce che la sua signora gli ammannisce: "Credimi, un gusto unico, quello dei dolci di una volta, non ne fanno più così, e dire che non ci sono né burro né uova... Io la chiamo la Torta Albero degli Zoccoli, perché mi fa pensare al film".

Io, che amo i dolci d'antan quanto i film di Olmi, ovviamente ho iniziato a tartassarlo per avere la ricetta, la quale è giunta a stretto giro di posta elettronica. Una bella ricetta vegana, che mi riprometto di provare quanto prima perché, assicura la consorte di ZioMic, "il gusto della farina di mais lo rende originale rispetto ai soliti dolci e anche più allegro. Poi sopra si è formata una crosticina dorata che è la fine del mondo!"

In calce alla versione vegana, la ricetta originale che era servita da spunto.

Quella del mio pannocchio di Natale.

Ora, se una fanciulla della Marca trevigiana invia a una rocciosa sannita la ricetta del dolce natalizio forse più celebre del Molise insieme ai mostaccioli e ai caragnoli, mettersi ai fornelli non è un'opzione: è un dovere.

Pertanto mi sono messa 'u zinale (grembiale, per chi non ha mai sciacquato i panni nel torrente Cigno), ho cacciato fuori dalla dispensa la farina di granturco regalo di Tania, e mi sono messa all'opera.

Il risultato, sfornato intorno all'una, non è arrivato alle otto di sera.

Dal che se ne deduce che se anche voi proporrete ai vostri cari questo dolce, che ha pure il vantaggio di essere velocissimo da preparare, non farete un soldino di danno.

Ingredienti:
300 grammi di farina bianca
150 grammi di farina di mais
300 grammi di zucchero
5 uova
300 grammi di burro morbido
1 bustina di lievito per dolci
1 bustina vanillina (da impiegare solo se non è vanigliato il lievito)
1 bicchierino di liquore (strega, rum o amaretto, ma secondo me pure il ponce non ci sta male)
1 bicchierino di gocce di cioccolato
1 pizzico di sale

Preparazione:
in primis come al solito portartevi avanti col lavoro e preriscaldate il forno a 160°, poi ungete un bello stampo (se possibile antiaderente) da plumcake o una teglia e infarinate la superficie unta con farina di mais, badando a scuoterne via l'eccesso.

In una capace terrina mescolate insieme uova, burro, zucchero, liquore e sale, aiutandovi con uno sbattitore elettrico per fare prima. Armatevi quindi di setaccio e poco alla volta fate cadere nell'impasto la farina di mais, la farina bianca e il lievito, mescolando ben bene. Il composto sarà morbido ma consistente, e profumerà oltre ogni dire. In ultimo unite le gocce di cioccolato, e incorporatele in tutto l'impasto con movimenti dal basso verso l'alto.
Fatto ciò, aiutandovi con la cucchiarella trasferite il composto nello stampo: giacché è parecchio solido avrete probabilmente qualche difficoltà a livellarlo, ma non è un problema perché ci penserà il calore del forno.

Infornate quindi sul piano intermedio e lasciate cuocere per fatti suoi per tre quarti d'ora o giù di lì, periodo che potrete impiegare per farvi serenamente i fatti vostri, o per incartare i regali di Natale.

A un certo punto le vostre nari saranno assalite da un profumino delizioso. Andate in cucina, fate la consueta prova stecchino, e se esce pulito spegnete il forno. Lasciate il dolce al suo interno per altri cinque minuti, quindi tiratelo fuori con l'aiuto di un paio di mappine, e se la crosticina dorata in superficie non vi fa esclamare "oh, che bello!" sappiate che avete la sensibilità di un matematico.

Fate raffreddare il dolce completamente prima di affettarlo (se resistete, beninteso) perché a temperatura ambiente è più buono. Io, l'amato bene e Dottor P che era ospite da noi non abbiamo resistito: e abbiamo così constatato che, grazie alla struttura della pasta, le gocce di cioccolato anziché precipitare in massa sul fondo come hanno l'abitudine di fare son rimaste diligentemente a picchiettare tutto l'interno. E anche queste sono soddisfazioni.

Come tutte le ricette dolciarie dei miei tosti sanniti, il pannocchio ha il vantaggio di conservarsi fresco per più giorni. Potrete quindi prepararlo tranquillamente uno o due giorni prima del pranzo di Natale, per poi presentarlo in tavola bello fragrante come se fosse appena uscito dal forno.

E quando lo gusterete con familiari, amici e persone care, inviatemi un salutino. Io da parte mia, vi faccio tanti auguri di buon Natale. E speriamo che sia davvero buono, e con lui i giorni a venire.

giovedì 18 novembre 2010

Monarchi ballerini, spettatori dormienti: Le roi danse

"Ma insomma, e le ricette? Questo non dovrebbe essere un blog di cucina?"
Avete ragione. Non che mi manchi il materiale: ne ho una settantina, già fotografate, e mi dovrei pure sbrigare a buttar giù ingredienti e preparazione perché va a finire che altrimenti mi scordo tutto, e se per quelle di famiglia posso sempre bussare alla porta delle zie, per ciò che io impapocchio e per casi misteriosi mi vien pure bene posso mettermi l'anima in pace, giacché la mia memoria ha oramai più buchi di una fetta di groviera. Ma questo fra parentesi.

E' che al momento, più che alla cucina, la mia attenzione è rivolta a tutta una serie di cosucce che per motivi di tempo non ho potuto leggere, vedere o ascoltare. E converrete che starsene spaparanzati sul divano con un bel film o un bel libro e fischiettare appresso a un pezzullo, che sia di Bach o delle Boswell Sisters, è attività fra le più gradevoli. Senza contare che, avendo grazie al cielo amici e conoscenti dai molteplici interessi, gli spunti che mi arrivano sono parecchi, e una prima o poi dovrà pure mettersi in pari.

Uno degli ultimi suggerimenti è capitato come si suol dire a pera: Le roi danse, biopic riguardante un compositore barocco firmato da Gérard Corbiau. Di questo regista, tutt'altro che celebre da noi ma alquanto noto in Francia, io avevo visto solo il terrificante Farinelli voce regina, un polpettone di bruttezza rara che tramutava il povero Carlo Broschi in una sorta di rockstar fallita e inanellava errori a ogni fotogramma o giù di lì. Ma giacché a raccomandarmelo è stata persona che di musica se ne intende e ne lodava diversi elementi, ho deciso di dare a Monsieur Corbiau un'altra chance, e con l'aiuto del solito Lello mi sono procurata il film in questione.
A suscitare la mia curiosità era anche il fatto che i biopic dedicati ai musicisti, che siano classici o rock, sono in genere fetecchie tremende: se Cronaca di Anna Magdalena Bach, Tutte le mattine del mondo o Sid & Nancy sono splendidi (consiglio caldamente tutti e tre: soprattutto il primo farete una fatica boia a trovarlo, ma se amate il Kantor di Eisenach - interpretato magnificamente da Gustav Leonhardt - andrete un brodo di giuggiole), basta pensare a obbrobri come Amata immortale, Walk the line o l'abominevole fiction sulle Lescano per convincersi che le sette note e la settima arte in taluni casi dovrebbero tenersi a rispettosa distanza. Corbiau con Farinelli aveva miseramente fallito: come se la sarebbe cavata con Jean-Baptiste Lully, astro musicale alla corte del re Sole?

Male.

Il che irrita sommamente perché l'idea alla base è geniale, e mette sotto i riflettori un aspetto del regno di Luigi XIV che è poco esaminato: ovvero, l'impiego della musica e delle diverse forme di spettacolo, danza in primis, come mezzo per instillare nella coscienza collettiva, della corte ma non solo, che il re è il re.

Voi mi direte: e che bella scoperta, è ovvio che il re è il re.

Mica tanto ovvio. Soprattutto se si arriva sul trono dopo che, in amena successione, vi sono ascesi prima una pletora di mezzecalzette afflitte da una madre intrigante, poi un monarca dal credo religioso ondivago che si è fatto seccare dallo zelota di turno, a seguire una marionetta i cui fili erano tirati da temibile eminenza rossa. E ancor più se si ha sul groppone la combinata madre intrigante più eminenza rossa - non gli stessi di prima: mamme impiccione ed eminenze dei più vari colori sembrano essere una costante nella storia francese e non.
Luigi intuisce che la soluzione per ascendere al vero potere è rendere il monarca un dio (ovvero il sole, nel caso specifico), e per farlo tutti gli strumenti sono buoni. Anche quelli musicali, giacché la musica è necessaria per danzare, e il futuro re Sole è un ballerino straordinario: sicché quella che viene considerata dagli arcigni cortigiani un'attività da debosciato diventa un'affilatissima arma.
Tutto ciò viene trasposto cinematograficamente in modo a dir poco sublime: splendidamente eseguite dall'orchestra Musica Antiqua Köln, le musiche di Lully sono il tappeto sonoro su cui si ricamano le complesse coreografie che vedono Luigi protagonista assoluto. Costumi, scenografie e danzatori sono da visibilio, e un lavoro di montaggio fatto al cesello rende il Borbone (grazie a un paio di body double che chiamano i baci dall'alluce all'anca) un perfetto e inarrivabile misto di eleganza, potenza e autorità, l'esatto messaggio che il monarca intende trasmettere. Che si sia appassionati o meno di danza barocca, l'insieme lascia a bocca aperta. E chi, come la sottoscritta, non abbia mai colto l'erotismo che una sequenza di passi sa sprigionare, si accorgerà di fissare scarpe di marocchino che inguainano perfettamente abilissimi piedi manco fosse un feticista.

Le sequenze di ballo sono il culmine del film, ed è un gran piacere guardarle. Non sono la sola a pensarlo: su Youtube c'è un apposito filmato che le raccoglie. Assommano a poco più di sette minuti. Sette minuti di meraviglia.

Il problema è la restante ora e quaranta. Che si può riassumere con due parole: noia pura.
Perché la confezione è meravigliosa, ma abitata da marionette.

Ancora ben lontano dal doppio mento e dalla gotta che lo affliggeranno in vecchiaia, il Luigi cinematografico è bello come il sole - assai più del suo reale corrispettivo, che nonostante le piaggerie cortigiane era un nanerottolo col naso a gancio: del resto, la consorte viene tramutata da matrona con il vizio della cioccolata in tazza in una secchetta che non sfigurerebbe nella scuderia di Cavalli se solo scoprisse un po' di ossame - e ha lo spessore di un tronista. Danza con fare algido, mette il broncio quando un passo gli vien male, litiga con mammina e i suoi scherani e si aggira con un'aria alla "mi dispiace, ma io so' io" assolutamente ingiustificata, perché va bene che qui grande protagonista è il ballo e non è che uno si possa aspettare la ricchezza di sfumature di quella meravigliosa fiction di Rossellini, ma le qualità - anche pessime - che resero il giovinotto uno dei monarchi più tenuti della sua era non si vedono molto. Se però non mostra le doti di consumato statista del futuro re Sole, in compenso il film ci regala una scena in cui sua maestà gioca a fare il sollevamento pesi usando l'amante di turno a mo' di bilanciere. Vuoi mettere.
Va detto che è inutile mostrare doti di consumato statista se si hanno quali avversari nell'ascesa al potere una madre che ha l'espressività perennemente torva di un mastino napoletano e una serie di comprimari abbigliati da becchini che paiono usciti dai fumetti del Corriere dei Piccoli. Anche personaggi fondamentali della temperie culturale dell'epoca fanno una figura ben misera: su tutti Molière, interpretato da uno Tcheky Karyo alquanto spaesato e avvilito da una parrucca in stile Rod Stewart primo periodo. Se non altro la scena della sua morte, che avviene sul palco mentre è attorniato da scheletri che ballano una inquietante e bellissima danse macabre, è uno dei momenti migliori.

E Lully, protagonista del film che si apre e chiude, assai banalmente, con la sua dipartita?

Non è la rockstar sull'orlo di una crisi di nervi in cui Corbiau aveva mutato Carlo Broschi, ma ci manca poco: se gli zompi da un letto all'altro cui Lully indulge sono pienamente giustificati dalle cronache, i tantrum da diva isterica che butta all'aria mezza casa e irrompe sulla scena correndo sui tacchetti un po' meno. E il fatto che il compositore fosse noto per andare indifferentemente con partner ambosessi non spiega perché nel film egli abbia una cotta belluina per il re. Gli regala morbide scarpe di marocchino rosso, corre al di lui capezzale ignorando la moglie che sta partorendo, lo fissa con occhi febbrili anche se si sta parlando del tempo. Il che ci potrebbe anche stare: vi sono cortigiani che han fatto di peggio. Però se si evitassero scene come quella in cui il monarca gioca a fare il culturista con la bonazza e Lully, impegnato all'esterno della tenda regale a fornire adeguato sottofondo orchestrale, lo sbircia da un pertugio per poi fuggire precipitosamente in preda a una crisi di gelosia, saremmo tutti più felici. Cose come queste sono pessime in qualunque film, e in un film biografico oltre che pessime sono esecrabili.
Tutto ciò ha l'effetto di non coinvolgere minimamente chi guarda. Visivamente Le roi danse è splendido, ma appassionarsi alle vicende di personaggi che sono poco più che macchiette risulta difficile. Lully e il suo monarca per quasi due ore incedono con o senza sottofondo musicale, strepitano come scolari, si abbandonano a paurosi sbandamenti emotivi (di cui l'unico riuscito è quello in cui Luigi viene trascinato via dalla stanza di mammà agonizzante con i cortigiani che gli coprono gli occhi, giacché un re non deve avere contatto nemmeno visivo con la morte), ma il coinvolgimento dello spettatore resta pari allo zero.

E un coinvolgimento pari allo zero per un'ora e tre quarti meno sette minuti dà la misura del fallimento di un film che in potenza poteva essere magnifico, ma in atto è la solita, sconfortante, presuntuosa riprova che la pessima reputazione di cui gode il cinema europeo è pienamente meritata.

mercoledì 3 novembre 2010

Torta al limone di zia Lella

La zia Lella, come chi frequenta codesto blog ben sa, è una cuoca sopraffina. Come tutte le cuoche sopraffine ovviamente minimizza il suo operato con infinite declinazioni sul tema "ma è una sciocchezza che sanno fare tutti", le quali ovviamente non ingannano chi si dà del tu da assai meno tempo con i fornelli, e sta pian piano imparando a sue spese quanto quelle sciocchezze che sanno fare tutti vengano in maniera decente solo dopo non pochi e pazienti tentativi.

L'esempio primigenio della sciocchezzuola alla portata di tutti è la torta al limone. Quella di zia riesce alta come un cuscino sprimacciato, leggera, profumata, deliziosa, e si stacca dal suo quasi centenario stampo con buco al centro senza opporre resistenza e senza perdere nemmanco una briciola del suo involucro dorato. Quella di chiunque altro che si cimenti, giacché la zia a differenza della cuoca media è assai generosa e divulga le sue ricette molto volentieri, ha in genere l'altezza di un celebre economista degno del Nobel, la consistenza di una palla da tennis e l'aspetto di un campo dove si sia tenuto un congresso di talpe.

In molti mi hanno chiesto qual è il segreto della zia. E io rispondo che nulla può battere una lunga pratica (cosa che ormai si va perdendo, perché è assai più comodo comprare il dolce o la merendina al supermarket) e una preparazione che sia fatta con amore sia per la cucina sia per coloro che mangeranno il risultato dello spignattamento.

Codesta risposta viene considerata poco scientifica. Io la considero empirica in quanto basata sull'osservazione diretta, ma mi rendo conto che è questione di opinioni.

Come che sia la torta al limone di zia Lella, oltre a essere deliziosa e ottima sia come merenda che come dessert (in quest'ultimo caso basterà accompagnarla con una bella ciotola di crema pasticcera), è pure un ottimo banco di prova per testare l'accuratezza del proprio lavoro ai fornelli, elemento dal quale la riuscita di un piatto dipende più che spesso. Se ci si mette poi che è molto divertente e veloce da realizzare anche con i bambini, direi che gli incentivi per mettersi all'opera non mancano davvero.

Ingredienti:
350 grammi di farina
250 grammi di zucchero
tre uova
una tazzina da caffè di olio
la buccia grattugiata di un limone
una bustina di lievito
due o tre cucchiai di latte tiepido

Preparazione:
in primis accendete il forno a 180° in modo che si scaldi come si confà (col freschino di questi giorni un po' di tepore in cucina sarà cosa ben gradita) e provvedete a imburrare e infarinare uno stampo con il buco: nulla vieta di usare una normale teglia, ma per me la torta al limone è con il buco al centro e grande stile ruota di bici, per cui vi suggerisco quello.

Rompete le uova, separate i tuorli dagli albumi e tenete questi ultimi da parte, magari in una bella ciotola in frigo. Battete i rossi con lo zucchero fino a quando l'aspetto sarà chiaro e spumoso con notevole aumento di volume (allo scopo potrete usare uno sbattitore elettrico oppure, se siete di malumore, la solita cucchiara di legno: al termine dell'operazione sorriderete come bodhisattva). Quindi incorporate la buccia di limone, l'olio a poco a poco, la farina aggiungendola pian piano a cucchiaiate e il lievito sciolto nel latte, sempre mescolando con attenzione e con somma pazienza. Il risultato sarà un bell'impasto morbido e filante: diventerà ancora più morbido quando vi aggiungerete gli albumi montati a neve.

Per montare i bianchi (usate stavolta la tecnica moderna, o a fine operazione con la classica frusta avrete la serenità d'animo di un appassionato di blues che si trovi a un concerto di Gigi d'Alessio) la zia impiega il vecchio trucco del pizzichino di sale; i miei amici ingegneri suggeriscono quello del goccino di limone che, secondo la scienza, dà risultati di gran lunga migliori. Voi scegliete quello che più vi aggrada, e quando vedrete gli albumi della giusta consistenza - evitate la famosa prova della ciotola a testa in giù: diverte tantissimo i bambini, ma fin troppa neve di uova ho visto planare per terra - incorporateli a cucchiaiate nell'impasto con movimento dal basso verso l'alto.

Fatto ciò, versate il composto nello stampo (la zia si raccomando di evitare schizzi sulle pareti dello stesso, che cuocendo assai prima del dolce si carbonizzano con pessimi effetti) e mettete in forno sul piano intermedio.

Se avete fatte le cose come si confà, vedrete il dolce che cresce giulivo e dopo un'oretta circa diventa bello dorato in superficie (se non vi fidate del vostro naso che vi dice che è cotto, fate pure la prova stecchino). A quel punto tiratelo fuori dal forno, fate raffreddare per qualche minuto, acchiappate lo stampo con un bel canovaccio spesso, scuotetelo delicatamente dal basso verso l'alto per vedere se il dolce si stacca, e se è così rovesciatelo su un piatto (facendovi i complimenti se l'avete sformato alla zia Lella, ovvero del tutto integro) e ri-rovesciatelo su una gratella dove lo lascerete finché non si fredda del tutto, in modo che si liberi dell'umidità in eccesso.

Se non avete fatto le cose come si confà, pazienza. La torta sarà assai meno bella nonché più tosta da digerire, ma è buona lo stesso.
Ripromettetevi però di rifarla, stavolta con attenzione.

Primo, perché mica vorrete avere l'equivalente dolcizio di quel celebre economista da Nobel che vi guata dal piatto mentre fate colazione, quasi a spronarvi a correre al lavoro pena cose di tregenda.

Secondo, perché a furia di fare le cose con attenzione, dopo un tot di volte vi accorgerete che potete in contemporanea cucinare, badare al gatto, fare una coccola ai bambini, ascoltare la radio, rispondere a una mail e tenere con la cucchiarella il tempo della musica che state ascoltando senza perdere un colpo.

Scoprirete così perché, anche ora che hanno ottant'anni suonati, le vostre zie e nonne a multitasking vi stracciano, e se la cavano di gran lunga meglio di voi.

sabato 30 ottobre 2010

An indian Halloween: zuppa speziata di zucca e ceci

Prima che lo diciate voi, sappiate che concordo. Questa foto fa ribrezzo, il piatto è presentato malissimo, e nemmeno un asino inciuccato di grappa sarebbe capace di un uso sì vergognoso del flash. A mia discolpa: era una prova, e avevo fame. Trattavasi di prova perché codesta zuppa avrei dovuto farla domani al paesello delle ginestre con la mia amica Tania (assai nota a chi frequenta questo modesto blog), e allo scopo avevo ravanato la Rete onde trovare suggerimenti che rendessero appetibile anche al mio amato bene, il quale aborre la zucca, una pietanza a base di cucurbitacea.
Dopo lungo cercare, la leggendaria sezione Food del sito della BBC mi ha fornito la risposta con una magnifica ricetta indiana che unisce cucuzza butternut - ovvero quella a forma di violino dalla buccia beige, reperibile adesso alquanto comunemente e che io ho prescelto perché meno dolce - a una valanga di spezie amatissime dal mio compagno di casa e di vita. Peccato che per gustare sì bella scoperta Tania e il di lei marito dovranno attendere fino a data da destinarsi: il mio tapino amato bene, come sempre gli capita in occasione di ponti e vacanze, ha ben pensato di ammalarsi, e tanti saluti al weekend campagnolo - nonché agli gnocchi di zucca con ragù di salsiccia che Tania progettava di associare alla mia zuppotta, ma è meglio che non ci pensi troppo o soccombo alla mestizia.

Chi comunque volesse cogliere l'occasione festiva (che io personalmente non condivido granché, ma che non condanno manco giacché i bambini pare si divertano un mondo a fare dolcetto o scherzetto) per fare un piatto autunnale davvero ottimo e anche un po' inusuale per i palati italici, il che garantirà figurone in caso si abbiano a tavola quegli odiosi ospiti fintamente alternativi che di alternativo non hanno un bel nulla, potrà seguire le istruzioni poco oltre. Vi sono un po' di differenze rispetto alla ricetta originale di BBC Food perché se avessi dovuto procurarmi tutte le spezie prescritte sarei uscita di senno ben prima di mettermi ai fornelli, ma il risultato è stato comunque notevole: e sono certa che lo sarà anche se chi si cimenta non ha la fortunaccia di avere a dieci minuti a piedi il negozietto indiano, e pertanto ne userà ancora di meno. Ma bando alle ciance e procediamo con ordine.

Ingredienti:
un mezzo chilo di zucca butternut (o di qualsivoglia genere) già pulita e tagliata a tocchi grossetti
due etti di ceci già lessati (se usate quelli in scatola passateli sotto il rubinetto prima dell'uso)
una bella cipolla bianca o dorata
tre cucchiai d'olio
un peperoncino secco (se grandicello, sennò mezzo cucchiaio di quelli piccoli)
un pezzo di zenzero fresco grosso quanto un pollice
un cucchiaio raso di curcuma
idem di cumino in polvere
altrettanto di garam masala (che è un misto in polvere di spezie varie, in genere cardamomo, pepe, cumino, foglie di alloro, chiodi di garofano e altre cosucce profumate: se non la trovate, fate un misto di pepe e di chiodi di garofano sbriciolati per un totale di un cucchiaino)
200 ml di acqua bollente

Preparazione:
lo so che mi state odiando perché avete appena finito di pulire la zucca butternut e avete litigato con la buccia che era insospettatamente tosta, i semini malefici e i filamenti che vi si appiccicavano alle manine. Tranquilli, che da qui è tutta in discesa. E per iniziare la discesa fate scaldare i tre cucchiai d'olio in capace pentola antiaderente con il peperoncino secco, ovviamente a fuoco molto basso. Quando sfrigola, giù la cipolla ben tritata, e fatela imbiondire coprendo il tegame con un coperchio di vetro, così essa si sfalda delicatamente con il suo stesso vapore. Quindi aggiungete curcuma, cumino e zenzero grattugiato, mescolate bene con il cucchiaio di legno e lasciate cuocere sempre a fuoco lento per un paio di minuti.

Adesso è il momento di aggiungere la zucca che vi è costata tanta fatica pulire e insieme a lei pure l'acqua che avrete scaldato a parte in un pentolino. Rimettete il coperchio di vetro e lasciate andare la cottura, sempre a fuoco basso. Quando sentite che riuscite a infilzarla con la forchetta ma che offre ancora resistenza, indice di cottura a metà, aggiungete i ceci e il garam masala (o il trito di chiodi di garofano e pepe), date una bella mescolata, ricoprite con il coperchio di vetro e attendete facendovi amenamente i fatti vostri - la cottura a fuoco lento è bella proprio perché non costringe a sorvegliare ogni due per tre - che passi un'altra decina di minuti, quindi assaggiate per verificare che sia tutto ok e se così è spegnete il fuoco, versate in capace scodella e portate in tavola.

Voi portate in tavola. Io vado ai fornelli. A preparare un teuzzo di zenzero buono buono al mio amato bene sfortunino, così il malanno se vuole il cielo gli passa prima. Ma la ricetta di questa gagliarda tisana ve la darò in un'altra occasione.

Buon Halloween, o Ognissanti, o quel che più vi garba. Che i piccini si divertano, e i più grandi ricordino, certamente con dolcezza, che gli spiriti di coloro che ci hanno lasciato e che secondo la tradizione tornano fra noi solo una volta l'anno, per fortuna sono con noi sempre.

mercoledì 27 ottobre 2010

Jessie goes on holiday, part 3: grazie, Trenitalia!

Ma come, a Parigi e Londra non sei andata in aereo?, chiederanno i miei scafati e mondani lettori.

No, non ci sono andata in aereo.

Io ho paura di volare. Manco a dire che non abbia voli all'attivo, ma dopo una simpatica tempesta beccata su Amsterdam anni fa in cui l'aereo è rimasto un'ora e mezza a girare su Schiphol e quando tuffava il muso nelle nubi sembrava di essere sotto le bacchette di Keith Moon grazie a una gragnuola di chicchi di grandine grossi come palle da baseball, come dire, io e le vastità del cielo andiamo pochissimo d'accordo.

Per cui mi è venuta un'idea formidabile: treno dall'Urbe a Parigi, da lì il leggendario Eurostar (che ero curiosissima di prendere per via del percorso sotto la Manica), e al ritorno l'inverso. Il prezzo non era folle: grazie a una serie di vantaggiose combinazion, il costo finale era più o meno identico a quello di un volo più taxi dall'aeroporto, con il vantaggio di essere scodellati nel cuore della destinazione e senza vergognosi sovrapprezzi sul bagaglio. Cosa volere di più?

Che Trenitalia, ad esempio, venisse acquistata dalla Martian Interplanetary Railroad. Perché giusto un consiglio d'amministrazione extraterrestre potrebbe risolvere il disastro in cui versano le nostrane ferrovie - senza contare che nessun dirigente marziano avrebbe la faccia di richiedere buonuscite milionarie come certa gente, ma ciò fra parentesi.

A seguire qualche notazione che spero sia utile a chi, come la sottoscritta, piuttosto che prendere l'aereo è pronto a farsela a piedi. Il che sarebbe comunque un modo di viaggiare più comodo e dignitoso di quello offerto dalle FS.

Per chi non lo sapesse, il treno che da Roma va a Parigi è gestito a mezzi da italici e transalpini. Io di transalpini non ne ho visti, e il personale italico a bordo aveva la faccia da condannato ai remi sulle galere della Serenissima.

Dopo mezz'ora scarsa di permanenza in carrozza, anche noi avevamo la faccia di un galeotto schiavizzato dal Leone.

Visto che avevamo programmato il viaggio come una non luna di miele (era la prima vera vacanza da quando siamo appaiati, ergo abbiamo deciso di concederci qualche lusso), abbiamo ben pensato di prendere lo scomparto a due letti. A castello ovviamente, ché son finiti i tempi dei nostri nonni i quali, per citare un noto musicista catanese, "facevano l'amore con l'ausilio del motore". Dubito fortemente del resto che l'attuale scomparto medio, letti a castello o meno, possa fomentare pensieri appassionati. Spazi ristrettissimi, grucce metalliche a mo' di guardaroba che fanno delèn-delèn a ogni scossone, aspetto mesto e zozzetto di tutto l'ambiente, lenzuola bucate, cuscini in materiale sintetico di quelli che farebbero sudare pure un iceberg, odore di gomma bruciata e disinfettata con il cloro proveniente dal sistema di condizionamento, calura africana dovuta al malfunzionamento dello stesso. La pena infinita di vedere il povero capo-vagone che tentava di aprire i letti, con le leve rese rocciose da anni di incuria, non ha contribuito a migliorare l'atmosfera. Il wc in fondo al vagone il cui sciacquone si scassava ogni tre per due, men che meno.

Prima di montare sul convoglio maledetto sappiate che è opportuno fornirsi di genere alimentari. A bordo non vi è alcuna carrozza ristorante (in teoria sarebbe prevista, ma in realtà è non pervenuta), e il solerte personale vi fornirà giusto di una bottiglietta d'acqua e, al mattino, di caffè liofilizzato al gusto di bitume accompagnato da un cornetto risalente più o meno al Cretaceo. Detto solerte personale, e non ci si stupisca di ciò perché prende uno stipendio da fame, ha la tendenza a scomparire per ore. Se per caso avrete bisogno di qualcosa, preparatevi a lunghe attese. Consolatevi con il fatto che sapete l'italiano: qualunque comunicazione scritta (in genere appiccicata sulla porta della cabinetta del capo-vagone e vergata su un tovagliolino di carta) sarà fornita nella lingua di Dante, per cui i transalpini son più sfigati di voi.

Se avete coincidenze in quel di Parigi, abbiate poi l'accortezza di prenotare lasciando un intervallo di tre ore dall'arrivo. Il treno Roma-Parigi e viceversa è infatti noto per accumulare ritardi abissali. La prassi è mezz'ora, più spesso un'ora e passa. Il nostro all'andata è arrivato in ritardo di quasi due ore, costringendoci a una corsa infernale per prendere l'Eurostar. L'ultimo tratto, percorso dal convoglio a passo d'uomo, lo abbiamo passato in compagnia di un garbatissimo signore francese italofono che per vari motivi è costretto a prendere l'Artesia alquanto spesso. Ometto di riferire le sue colorite espressioni in ambo le lingue, perché non passerei il vaglio della censura.

L'Artesia arriva a Gare de Bercy, stazioncina da cui se non altro uscirete in un batter d'occhio. A qualche centinaio di metri troverete la stazione della linea 14 della metro: se dovete prendere l'Eurostar andate fino a Chatelet, e da lì con la linea 4 arriverete alla Gare du Nord. Tempo medio, poco più di mezz'ora, e in tutta comodità.

A Gare du Nord le indicazioni per l'Eurostar fanno un po' pena: sappiate che l'accesso è al piano superiore. Lì vi attende del personale severissimo che controllerà biglietti, documenti e bagagli, né più né meno che se foste in aeroporto. Consigliato arrivare almeno mezz'ora prima, sennò vi sbattono la porta sul naso. Non vi passi per la mente di fare scene di tregenda se arrivate in ritardo: cartelli appesi in bella evidenza sottolineano che a un cenno del personale sarete attorniati da simpatici signori in divisa, e dubito fortemente che sarebbe cosa gradevole.

Va da sé che rispetto ai treni italici l'Eurostar è un altro mondo. Ho viaggiato su treni migliori, ma se non altro ci si può rifocillare adeguatamente (previo leasing) e i bagni sono praticabili. Con quel che costa il biglietto vorrei vedere, direte voi. Dipende: se avete amici che viaggiano su Frecciargento e Frecciarossa (convogli notoriamente assai economici) chiedetegli dettagli e sappiatemi dire, se possibile omettendo le parolacce. Quanto alla temibile tariffa dell'Eurostar, prenotando con un anticipo di almeno un paio di settimane e scegliendo le fasce orarie meno gettonate ve la potrete cavare con una sessantina di euro.

E il tratto sotto la Manica?
Non ve ne accorgerete nemmeno. Venti minuti in cui forse vi si tapperanno un po' le orecchie, ma niente di trascendentale. Prima che ve ne rendiate conto, puf, sarete nella perfida Albione, o alternativamente nella douce France. Io mi son ritrovata a pensare "tutto qui?", e dire che soffro pure un po' di claustrofobia. Se proprio dovete temere qualcosa, state in guardia dall'aria condizionata che viene erogata con notevole gagliardìa. Se siete pelati, munitevi di cappellino. Munitevi anzi di cappellino a prescindere, se non volete arrivare in stazione con i prodromi di un fiero raffreddore.

Dopo l'esperienza con il trenino sottomarino, tornare fra le braccia delle Ferrovie dello Stato per rientrare nell'Urbe è stato come finire da un campeggio delle Alpi bavaresi a quel tale parcheggio sito dai pizzi di Roncobilaccio noto per essere frequentato da scambisti etero, gay e a corrente alternata. Oltre alla fatiscenza, alla mestizia generale e all'arrivo a destinazione con oltre un'ora di ritardo, non è stata servita la colazione adducendo quale motivo "a Parigi ci hanno rubato tutto".

Una nostra amica ha commentato che se tutto ciò venisse proposto in forma di sceneggiatura a qualsivoglia casa produttrice si andrebbe incontro alla bocciatura per inverosimiglianza.
Ma Trenitalia riesce a superare anche il più sfrenato soggettista.

E per tutto ciò, io la ringrazio.

Perché a farmi passare la paura di volare non sono bastati gli aiuti di Madonna Chimica, le sedute di training autogeno, e persino la minaccia di smollarmi da leggere quel libraccio penoso di Erica Jong.

Ma il pensiero di un'altra esperienza nel Convoglio dell'Orrore, credetemi, basta e soperchia.

lunedì 18 ottobre 2010

Jessie goes on holiday, part 2: Parigi, oh cara

"Fu allora che vidi il Pendolo".

Alzi la mano chi non ha riconosciuto questo incipit.
Se non l'ha riconosciuto, mi duole per lei o lui.
Quanto a me, il Pendolo, nello specifico quello di Foucault, è una delle cose che avrei sempre voluto vedere.

Nel corso del mio precedente soggiorno parigino ci ho dovuto rinunciare. Primo, perché volevo vedere il Louvre, e solo per la pittura mi ci son volute due visite. Secondo, perché volevo vedere il Museo del Medioevo, e pure per quello mi ci volle una giornata. Terzo, perché alla mia proposta di andare al Museo delle Arti e Mestieri il mio accompagnatore mi incenerì con un'occhiata e mi trascinò al Centre Pompidou a vedere un'istallazione di artista finita nel dimenticatoio che sembrava in tutto e per tutto la vetrina di un negozio di biancheria fetish. E a quel punto la vacanza era finita. Per inciso mi vendicai rifiutandomi di accompagnarlo in locale allora celeberrimo, e alla sua osservazione "il mio amico Lolo dice che se non vai in questo posto non sei nessuno" ribattei che a me di essere qualcuno non interessava affatto, il che concluse la citata vacanza in termini scarsamente amichevoli. Ma come osservano i transalpini, c'est la vie.

Pertanto mi sono ripromessa che in un successivo soggiorno anche io, come il protagonista di quel tale romanzo, avrei visto il Pendolo.
Per mia fortuna ci son riuscita, ed è stata una delle cose che ha fatto virare in positivo una vacanza iniziata assai male.
Ma procediamo con ordine, e non senza qualche segnalazione che spero sia utile per coloro che prossimamente vogliano visitare Parigi. Magari non troppo prossimamente, visto che al momento attuale nell'Esagono vi è un casino che a paragone lo sciopero della metro londinese in cui siamo incappati sembra un picchetto delle dame di San Vincenzo versus la curva nord dell'Olimpico il giorno del derby. Ma questo tra parentesi.

1. Primo, ovvio consiglio: fatevi la Paris Visite, disponibile nelle versioni da uno, due, tre o cinque giorni consecutivi. Vi permetterà di prendere la metro tutte le volte che volete e sarà una mano santa per visitare l'Ile de France in comodità, incluse Versailles e pure Disneyland Paris. La potete acquistare direttamente in loco, oppure online: ulteriori informazioni le trovate qui.

2. Siete già stati al Louvre?
Tornateci.
No, non me ne importa niente che la volta scorsa siete pure riusciti a vedere la Gioconda alzandovi sulle punte dei piedi per superare la torma di nipponici che facevano un muro spesso dieci metri. Ci tornate e basta, perché ogni volta vi saprà sorprendere.
Pertanto prendete il comodissimo metrò e scendete all'apposita fermata. Percorrete con pazienza i corridoi fino ad arrivare alla scala mobile che vi porterà dai pressi. E prima di imboccarla, buttate uno sguardo sulla destra: troverete una tabaccheria/cartoleria che vende biglietti per tutti i principali musei di Parigi. Il biglietto acquistatelo lì, e vi risparmierete le file chilometriche che in qualunque giorno e in qualunque orario si snodano davanti alle biglietterie, quelle automatiche incluse. E quando vi si parerà dinanzi la colata lavica di visitatori vocianti che stanno lì in impaziente attesa sarete grati del consiglio.

Se potete, scegliete come giorno della visita il mercoledì: il Louvre chiude alle dieci di sera, e avrete modo di visitarvelo con tutto comodo. Cosa che abbiamo fatto l'amato bene e io, badando di dirigerci prima nella sezione delle antichità (in tal modo si evita l'esercito che come prima cosa invade la sezione pittorica) e rimanendo basiti di fronte alle megaporte che adornavano i palazzi persiani come di fronte alla versione egizia dei quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due.
Quando poi vi dirigerete nel settore quadri &dipinti, fatemi la cortesia di evitare la Gioconda (tanto non c'è verso di vederla come si deve) e di prestare attenzione a tutto il resto: non fate come il visitatore medio che timbra il cartellino e passa oltre. Fra Van Eyck, Memling, Bosch, Antonello da Messina, Correggio, Murillo e El Greco avrete modo di rifarvi gli occhi, e visto che il truppone sta ammassato di fronte all'autoritratto leonardesco potrete ammirarli come si confà.

Se poi putacaso vi viene un certo languorino, dirigetevi al Cafè Richelieu che è nel museo stesso: per il portafogli sarà una discreta mazzata, ma a differenza dei caffè o ristoranti che sono nei musei italici, semmai vi sono, il cibo non è di plastica. L'amato bene e io ci siamo spazzolati rispettivamente una eccellente zuppa di verdura, debitamente servita con pane fresco e burro, e pollo con carote in salsa teriyaki cotto con assoluta maestria, spendendo meno di trenta euro.

3. Checché ne pensasse il mio bizzoso accompagnatore dell'epoca, il Musée des Arts et Métiers va visto, e non solo per il Pendolo. Ci son cose stupende, dal gabinetto di Lavoisier al meraviglioso Avion III di Clément Ader ai robot per l'esplorazione spaziale (e sto citando solo due o tre amenità) capaci di affascinare tutti, dai bambini agli ottantenni. Oltre alla collezione ci sono tanti bei pannelli interattivi che spiegano con gran chiarezza anche a chi di scienza non comprende un'acca perché tante invenzioni passate sono importanti e alla base di oggetti e servizi oggi d'uso comune. In più, fino al 7 novembre c'è una mostra temporanea capace di mandare in brodo di giuggiole anche il più riottoso: introdotta da una collezione - schermata dietro grate ché si sa, gli otaku sono un po' folli - di tutti i paraphernalia del settore, dal Commodore 64 fino alle console Sega d'antan, un'intera sala è dedicata alla storia del videogame.
Una parata di console, tutte originali, vi permetterà di divertirvi con tutti i videogiochi o giù di lì che hanno segnato gli ultimi tre decenni (io, che ho giocato per la prima volta a PacMan in occasione del trentennale, ho avuto per l'occasione l'emozione di darmi del tu con il leggendario Pong, con l'amato bene che mi ha stracciato dieci a zero), e mammatroni presi direttamente dalle sale giochi vi faranno tornare all'epoca in cui spendevate tutte le monetine della paghetta dandole in pasto ai succitati.

Dopo esservi consumati le manuzze con i joystick, visitate tutto il resto del museo (in alcune occasioni fanno anche dimostrazioni del magnifico teatrino degli automi: date un'occhiata al sito Internet che vi dirà in anticipo le date) e concludete il percorso come si deve nella fu chiesa di Saint Martin des Champs. Lì, come il protagonista del romanzo di Umberto Eco, vedrete il Pendolo nella collocazione voluta da Foucault, e se avete un accompagnatore paziente come il mio amato bene capirete anche perché grazie all'affascinante accrocco si può desumere che sì, la terra ruota. E se non avete un accompagnatore paziente, potrete scoprirlo qui.

4. Se poi dopo tanto camminare avete le pedagne che chiedono pietà e volete solo stendervi, è opportuno tornare in hotel. Io la scorsa volta ero stata ospite dell'amico bizzoso e ricco i cui genitori hanno vezzoso appartamento in pieno centro, e prima che mi facciate gli occhiacci sappiate che fu un soggiorno da incubo, in cui si camminava in punta di piedi per timore di ledere il parquet secentesco con le nostre orride estremità inferiori e toccava asciugare le pareti del bagno dopo ogni doccia con somma cura, perché dette pareti erano di legno: pertanto, non avendo esperienza di alberghi sono andata un po' a naso facendomi guidare da alcuni parametri. La fortuna mi è stata amica: vicino alla Bastiglia e a duecento metri scarsi dalla metro, il Color Design Hotel mi ha messo di buonumore fin dall'ingresso, e ce ne voleva per mettere di buonumore una Jessie reduce da un'intossicazione alimentare e afflitta da un fiero raffreddore.

Come dice il nome è assai variopinto e con soluzioni che, almeno rispetto alla media, sono alquanto inusuali (alcune non brillantissime, tipo il lavandino davanti all'ingresso della doccia: ma essendo questa di congrue dimensioni il fastidio non è eccessivo). Stanza silenziosa, ampia per gli standard parigini, tutta su toni di giallo e arancione - a seconda del piano e dell'ala le tinte coprono tutto lo spettro dell'arcobaleno - e provvista di letto assai comodo con cuscini e trapunta che erano così belli rigonfi da indurre a fare le fusa. Molto garbati gli addetti alla reception, dove a un gentile fanciullo è quasi venuto l'infarto quando ha constatato che ero italiana e, pur non sapendo il francese, ero in grado di esprimermi in tre lingue straniere. Il che non depone a favore della fama di cui godiamo all'estero, ma questo come sempre fra parentesi.

Negli immediati dintorni oltre alla fermata della metro non mancano caffè e ristorantini, panetterie, farmacie - che possono sempre servire, come nel mio caso per via del succitato fiero raffreddore - e un assai fornito supermarket. Il costo per una doppia è sui 180 euro ma tenere d'occhio il sito per offerte speciali (noi ne abbiamo colta una a poco meno), la colazione si paga a parte ma visto il prezzo vi consiglio di farla negli innumerevoli caffè che troverete a pochi metri.

5. Se dopo l'arrivo in hotel le pedagne proprio non danno segni di vita ma il vostro stomaco richiama con gagliardìa la vostra attenzione sul fatto che lui funge benissimo, fate un ultimo sforzo: andate all'ingresso, svoltate a sinistra e dopo dieci metri imboccate l'entrata dell'Ebauchoir, possibilmente prima delle nove altrimenti lasciate ogni speranza di trovar posto anche durante la settimana. Sembra un qualsiasi bistrot, ma si mangia splendidamente e a prezzi ragionevoli per la media parigina: io ho preso una crema di castagne con coriandolo che ha ricollegato al primo boccone le papille gustative interrotte dal raffreddore, l'amato bene un agnello con caviale di melanzane e curry a dir poco delizioso. Con plateau di formaggi e acqua la spesa non ha raggiunto i 40 euro, e la gentilissima proprietaria ci ha salutato all'uscita porgendoci la madeleine della staffa da un bel cestone in vimini formato ruota di camion.

Se invece vi trovate in centro e avete voglia di un pasto da passeggio seguite pure voi il consiglio della mia amica Paola e recatevi all'As du Fallafel, che si trova nel celebre quartiere del Marais. Dicono che vi si mangino i migliori falafel di tutta Parigi: io non posso fare paragoni al riguardo, ma posso asserire che quelli che ho ordinato battevano di una spanna tutti quelli che ho assaggiato in Italia e all'estero. Eccellente anche il kebab, servito con insalata freschissima e una pletora di salsine varie altrettanto fresche. Se poi i piedi sono particolarmente lamentosi sedetevi all'interno: solerti camerieri con la kippah d'ordinanza vi serviranno in un batter d'occhio, e in mezz'ora scarsa uscirete sazi e con la voglia di fischiettare per l'allegrezza.

Bilancio del soggiorno parigino: contenti come pasque, e con una gran voglia di tornarci. Si spera prima possibile, sempre che si riescano a prendere delle ferie degne di questo nome.

Prossima puntata, nonché ultima: le meraviglie di Trenitalia. A bientot.

sabato 16 ottobre 2010

Jessie goes on holiday, part 1: perfida Londra

Pare strano, ma anche noi di tanto in tanto si va in vacanza.

A questo giro, poi, grande evento: due capitali europee.

Sarà per quello che la Sfiga, la quale come è noto ci vede benissimo, ci ha dedicato attenzione particolare.

A seguire, qualche piccolo consiglio che potrà essere utile a chi prossimamente voglia organizzare un soggiorno in quel della capitale d'Albione. Che con noi, come da titolo, è stata perfida.

1. Forse non lo sapete, ma i lavoratori di sua maestà britannica ultimamente sono in subbuglio causa una ricca serie di tagli annunciati dal governo. Sicché al nostro arrivo ci ha accolto il primo sciopero della metropolitana dall'era Thatcher o giù di lì. Lo sciopero, che era previsto lunedì 4 ottobre ed è stato annunciato due giorni scarsi prima, è in realtà iniziato la domenica pomeriggio, pertanto abbiamo fatto appena in tempo a prendere la metro per raggiungere l'hotel. I prossimi sono previsti per il 2 e 29 novembre: se avete in programma un viaggio, regolatevi di conseguenza. E sappiate che le celeberrime fasce di garanzia in Albione sono non pervenute.

2. Voi direte: ma che importa se non funge la metro, tanto ci sono gli autobus e si sa che in un paese civile passano in orario e con frequenza.
Scordatevelo.
I bus passano sì, ma se non avete l'improbabile fortuna di prenderli al capolinea, potete metterci una croce sopra: non vi faranno salire, perché a qualunque fermata successiva al capolinea saranno già troppo pieni. Per troppo pieni intendesi autobus con tutti i posti occupati e qualche passeggero in piedi: ciò perché i famigerati bus a due piani hanno notevoli problemi di equilibrio, e se effettivamente pieni alla prima curva rischiano di cappottarsi. Una ditta italiana sta fornendo l'Inghilterra di quegli ameni autobus snodabili, che a quanto ho visto rappresentano attualmente un 2% scarso del totale.
Conseguenza è stata che sono riuscita a vedere a malapena un'ala della National Gallery, e per arrivarci ho percorso quasi quattro miglia a pedagne. E no, non è stato bello.

3. Dolore ai piedi a parte, la National Gallery è meravigliosa. E poiché appartiene al popolo britannico, è pure a ingresso gratuito. All'ingresso troverete una piccola teca dove lasciare un obolo: non tirate dritto, o vi si parerà di fronte il fantasma dell'ammiraglio Nelson che vi fissa con occhi di bragia. E dietro avrà la sottoscritta che vi minaccia con la sua padella migliore, quella con il fondo spesso. Non fate quella faccia: all'interno troverete bellezze assolute come Il ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck e Venere e Marte di Botticelli, per cui non è proprio il caso di essere tirati.

4. Se putacaso vi viene un attacco di fame e volete trattarvi bene, dirigetevi quindi alla National Portrait Gallery (che merita pure essa, ed è pure essa a ingresso gratuito) e prendete una trafila di ascensori fino all'ultimo piano. Lì c'è infatti titolato ristorante, con vetrata a giorno con vista sui tetti di tutti i principali monumenti di Londra. Il pasto, servito da camerieri civettuoli che sono lì apposta per farvi sentire delle scolopendre, vi spellerà il portafogli, ma ne vale la pena. Abbiate cura però di non mangiare nient'altro fino al giorno dopo, perché dopo i primi tre bocconi sentirete il fegato che bussa affranto per chiedere di uscire: a noi non è bastata la passeggiatella di tot miglia fino all'hotel per digerire. Sconsigliatissimo prendere il vino, primo perché - come giustamente osserva mia cugina Annuska, la quale ci ha offerto il pranzo in detto ristorante (e noi abbiamo pianto calde lacrime per il suo conto in banca) - bere del vino in Inghilterra non ha questo gran senso, e non da ultimo perché anziché una spellatura del portafogli vi attende un infarto secco al momento del conto: bevetelo a casetta vostra che fate meglio.

5. Se non volete patire mal di piedi in caso di sciopero, la migliore soluzione sono i minicab. Non i taxi intesi come black cabs (peraltro scomodissimi), bensì i minicab, che costano un terzo dei taxi e sono di gran lunga più comodi. A seconda del tragitto, purché in centro, e del traffico, che in caso di sciopero è ovviamente mostruoso, la tariffa varia in genere dalle 15 alle 30 sterline (fatevi fare un preventivo prima perché non hanno il tassametro). E vi assicuro che mai soldi saranno più ben spesi. Per prenotarli affidatevi al personale della vostra struttura ricettiva, oppure dare un'occhiata qui.

6. Quanto alle strutture ricettive, il consiglio è di prendere almeno un tre stelle perché nelle famigerate topaie londinesi si rischia di passare una notte nella poco amena compagnia delle cimici (chi ritenesse ciò una leggenda metropolitana si beccherà un infartuccio quando avrà modo di vedere certe simpatiche pubblicità che sui mezzi pubblici promuovono disinfestazioni ad hoc a prezzi interessanti). Di alberghi ovviamente ne troverete a iosa, io vi consiglio quello dove siamo stati l'amato bene e io: il London House Hotel, che si trova a un tiro di schioppo dalle fermate metro di Bayswater e Queensway e pertanto in posizione comodissima per raggiungere musei e monumenti vari (se la metro funge, ovviamente). Le stanze sono piccolette come sempre a Londra, ma assai ben curate, e i bagni hanno ottimi sanitari e doccia ampia con acqua calda a volontà. Le fanciulle alla reception sono garbatissime - abbiamo avuto problemi, ça va sans dire, solo con una receptionist francese il cui quoziente intellettivo era quello di un lombrico all'ultimo stadio dell'alcolismo - e molte di loro, dettaglio non da poco per tanti connazionali che hanno un tasso di analfabetismo linguistico tanto alto quanto malamente gestito, parlano un ottimo italiano. Dai pizzi abbondano ristorantini etnici, negozi vari e, nel caso dovesse malauguratamente servire (come è successo a noi causa febbrone dell'amato bene), una farmacia aperta tutti i giorni fino a mezzanotte. La tariffa per una doppia si aggira sulle 95 sterline colazione esclusa, il che con il cambio attuale offre un rapporto qualità/prezzo non trascurabile. In più troverete in stanza un bel bollitore con tanto di bustine di tè e zucchero, cosa santa nel caso vi siate beccati una di quelle belle piogge per cui Londinium va famosa.

7. Trovato da dormire, s'ha da trovare dove mangiare: e noi vi possiamo consigliare dove non andare. Nello specificio il Kahn's Palace, il peggior ristorante indiano in cui sia incappata durante la mia feconda e ultradecennale relazione con la cucina del subcontinente in Italia e all'estero. Chi ci ha condotto lì ha presentato il loco dicendo "l'unico problema è che sono evidentemente talebani, perché la carne è halal". Sulla talebanità non posso esprimermi, ma il cuoco senza dubbio veruno meriterebbe un lungo soggiorno nella Torre di Londra. Per della carne tandoori cucinata in modo pessimo, riso molliccio, legumi iperspeziati (quasi a voler coprire magagne degli ingredienti) e un salted lassi a dir poco terrificante abbiamo speso poco meno di 70 sterline. L'emesi notturna, omaggio.

8. Come si sa, i prezzi sono alquanto più alti che da noi, soprattutto per alcune categorie di merci: la catena di discount Tesco, presente ovunque e aperta fino a tardi (questo sì un segno di civiltà), vi eviterà di infliggere un colpo mortale alle vostre finanze. Avrete comunque modo di scoprire perché i britannici quando vengono da noi mangiano frutta e verdura peggio degli ungulati: le mele costano 35 pence, le banane una sterlina. Al pezzo.
Se poi malaugurantamente vi foste dimenticati il maledetto adattatore per le prese (cosa che non è accaduta a noi, perché l'amato bene ne ha come è ovvio uno universale per le destinazioni più varie, Australia e Giappone inclusi), niente paura: i negozi di souvenir ne hanno a iosa.

9. Sfatiamo un mito: il londinese cafone che fa finta di non capirti non esiste, o se esiste è assai ben nascosto. Questo perché c'è un tale tasso di immigrazione dai posti più diversi, la quale in genere va ad arricchire le fila degli esercizi commerciali, che chiunque o giù di lì si mostra comprensivo. Va detto che spesso il difetto, e lo dico per personale esperienza, sta nei nostri connazionali, i quali si risentono quando ad esempio chiedono in italiano se il ristorante fa il riso alla cantonese e la povera cameriera sinobritannica anziché rispondere alza con disperazione gli occhi al cielo.
Detti connazionali farebbero a mio giudizio cosa buona se prima di andare in vacanza in Inghilterra imparassero un paio di vocaboli: non è detto che ci sia sempre qualcuno del Bel Paese che, mosso a compassione dalla disperazione della cameriera, si metta lì a fare da interprete, e traduca tutto il menù. Farebbero pure bene a rendersi conto che a seconda del paese in cui approda la cucina cosiddetta etnica si adatta ai gusti del cliente: se proprio vogliono il riso alla cantonese con piselli e prosciuttino a daducci si portassero il pacchettino da casa, ed evitassero di stressare cameriere e connazionali vacanzieri. Gliene saranno grati.

10. Se siete fan di Dylan Dog, sappiate che Craven Road esiste. Prima di andare lì e batterla metro per metro sappiate pure che evidentemente non vi dimora, perché non ho visto spilungoni in camicia rossa o singolari bassotti baffuti aggirarsi dai pizzi e i rari campanelli che ho udito facevano drrriiiiinnnn e non uaaaaaaargh. La prova ultima del fatto che si è saggiamente trasferito in altri lidi la troverete a Trafalgar Square: il suo galeone, terminato in ogni dettaglio, troneggia nella boccia di vetro che vedete nella foto di apertura. La quale è l'unica e sola che abbiamo scattato.

Sintesi del soggiorno: uno sciopero, un febbrone dell'amato bene, un'intossicazione alimentare per entrambi, bellezze visitate all'attivo un pezzo di museo. Tocca tornare. E c'è il rischio di farlo con soggiorno molto prolungato: l'amato bene ha avuto un'offerta di lavoro. Non è di quelle alla Don Corleone che non si possono rifiutare. Più che altro sembra una offerta alla Disney, visto che è in ballo un bel sacco con il dollaro sopra, stile Bassotti.
L'amato bene sta valutando, e io con lui.
Ma questo fra parentesi.
Prossima puntata: rotta verso Parigi, con altri tips&tricks.
Stay tuned.

martedì 28 settembre 2010

Trio Lescano? No, monnezza: Le ragazze dello swing

Sarò breve. Brevissima. Non ho voglia di dedicare manco un'ombra del mio scarso tempo libero a ciò che ieri sera ha bruciato le mie pupille. Ma due paroline, perbacco, mi voglio togliere la soddisfazione di dirle.

Strombazzato e preceduto da notevole attesa (così si sostiene), iersera ha debuttato sul canale più conservativo di Mammatrona Rai la nuova fiction Le ragazze dello swing. Che, per chi non lo sapesse, è dedicato al trio vocale più celebre di quel periodo in cui si marciava per non marcire.

La cosa più gentile che si può dire quale giudizio della prima puntata, e quella che verrà certamente non promette meglio, è che nemmeno un impiegato al catasto che si fosse beccato un colpo di maglio in mezzo alla fronte se ne sarebbe potuto uscire con un risultato così osceno. E non uso questo termine perché la prima scena si svolge in un bordello d'epoca, con gran dispendio di veli, tette e posteriori al vento a imitare il peggiore Tinto Brass: a confronto con quel che segue, l'inizio è un bijou.

Quel che segue è infatti un cast accozzato alla benemeglio, le tre protagoniste che somigliano alle Lescano come io potrei somigliare a una monaca cinese (o come l'ex divetta softcore Sylvia Kristel potrebbe somigliare alla mamma delle suddette: e infatti, quello è il suo ruolo), una colonna sonora doviziosamente ripulita e ricantata - dalle Blue Dolls, brave per carità, ma l'articolo originale è cosa ben diversa - che puzza di plastica a ogni nota, costumi e veicoli che sembrano usciti dal magazzino di un antiquario furbastro che spaccia ai gonzi arte povera made in China per autentico Settecento francese. E la lista potrebbe continuare all'infinito. Perché le scenografie sembrano uscite dal più scalcinato teatrino parrocchiale? Perché tutti i personaggi sono afflitti da accenti da burletta? E a proposito di accenti, e qui lo so che sto eccedendo ma a me che conosco la lingua dà il prurito alle mani, perché mai un'olandese dovrebbe parlare in italiano con cadenza svedese tutta toni in stile Ingrid del commissario Montalbano?

Sulla trama non mi esprimo. Basti sapere che chi ha fornito la base per il tutto è uno che, a detta degli appassionati, ha preso a man bassa materiali dal miglior sito Internet dedicato alle sorelline batave senza citare la fonte. Quel che non ha preso, evidentemente o lo ha inventato, oppure lo ha malamente scopiazzato da fonti inverosimili.
Il risultato è credibile quanto un mix fra, non so, un film dei fratelli Marx e uno qualsiasi dei polpettoni con Allan Quatermass come protagonista. Solo che ad avventura siamo scarsi perché il ritmo è sonnolento come quello di qualunque fiction targata Rai, e a umorismo peggio ancora perché è evidente che gli autori si prendono molto, molto sul serio.

Nel 2010 ricorre il centenario della nascita di Alexandra Leschan, una delle componenti del Trio Lescano. La fiction è un omaggio dichiarato per onorare la data. L'impressione che se ne ricava è però che si sia sfruttata la data per fare pubblicità a un prodotto penoso, che ha irritato profondamente chi con le mitiche sorelle è cresciuto, e che non ha incuriosito chi non le conosce per questioni di età.

Detto prodotto penoso, oltre a essere un insulto all'intelligenza di qualunque spettatore che non sia un ovino sotto roipnol, è stato pagato ça va sans dire con i soldi del nostro canone.

Rispolvero quel poco che ricordo della lingua parlata dalle Lescano per lanciare un messaggio ai responsabili.

Sodemieter op. E tornatevene alle vostre commesse, ai prof, agli sbirri maritati, agli ospedalieri che fanno ciuciù in corsia. Quella è roba per voi, non il gruppo che ha fatto ballare una generazione di italiani, e non solo.

Ho bisogno di disintossicarmi. Pertanto, ascolterò ciò che vado a proporvi a seguire. Che è certamente modo migliore di una orrida fiction per ricordare il Trio Lescano, e per farlo conoscere a chi non ne ha mai sentito parlare, o che pensa che il repertorio delle sorelline si limiti a Tulitulipan.
Buon ascolto.

mercoledì 22 settembre 2010

Torta rustica ripiena

Ragazzi, per dirla in breve mi vergogno come una ladruncola testé beccata con le manuzze nella scatola dei biscotti.
Non posto da un secolo, cosa che mi ha fatto arrivare sulla nuca una bella pioggia di rimproveri assortiti da per ogni dove, e come se non basta ho fatto grezze a profusione (vedasi ad esempio qui e qui) grazie all'abitudine di controllare l'arrivo di commenti una volta ogni morte di papa.
Insomma, ho fatto l'en plein.
Va detto che è un periodo un bel po' complicato. Per molti versi anche un po' triste. Ma non mi pare il caso di tediarvi con faccende personali. Questo è un blog di cucina, occasionalmente di altro, ma non è opportuno farlo diventare la sagra degli "Oh, me sciagurata".
Come dice il mio amato bene, potrebbe sempre essere peggio.

Pertanto mi ritaglio qualche minuto e posto la ricetta della pizza rustica ripiena (che è la parente povera della vera pizza rustica, cavallo di battaglia delle mie zie: ma quella vai a sapere quando avrò modo di farla, visto che ci vuole la pasta sfoglia fatta a mano), che è cosa che i miei amici apprezzano assai. La apprezza molto anche l'amato bene. Peccato che adesso non possa mangiarla: ha di nuovo la pressione parecchio alta, ed è sotto cura. Ma io la ricetta la posto ugualmente per buon augurio, con la speranza che presto possa gustarsela di nuovo. Un po' di ottimismo non guasta mai.

Ingredienti:
- per la pasta
un paio d'etti di farina
tre cucchiai rasi di olio
un pizzico di sale
altrettanto di bicarbonato
una punta di cucchiaio di curcuma, che darà alla pasta un bel colore dorato
acqua quanto basta

- per il ripieno
broccoletti o spinaci già puliti, almeno tre etti
un etto e mezzo di formaggio grattugiato del tipo atto a fondere
un cucchiaio di parmigiano
un uovo
un etto circa di tacchino arrosto (ma va bene ugualmente il prosciutto cotto o la mortadella)

Preparazione:
con farina, olio, acqua, curcuma e quant'altro impastate velocemente una bella palla di pasta liscia ed elastica, quindi mettetela a riposare un po' in luogo fresco, ad esempio lo scomparto meno freddo del frigo.

Lessate quindi i broccoletti o spinaci che siano con pochissima acqua, in modo che si cuociano nel vapore; se gradite, aggiungete all'acqua uno spicchietto d'aglio che contribuirà ad aromatizzare la verdura. Quindi scolateli, strizzateli bene (badando ovviamente a non ridurli in poltiglia) e quando si sono intiepiditi conditeli con l'uovo che avrete preventivamente ben sbattuto con il cucchiaio di parmigiano.

Fatto ciò, acchiappate il fedele mattarello, prendete la palla di pasta, dividetela più o meno a metà, e stendete la parte che vedrete un po' più grande su un bel foglio di carta da forno, il che vi darà modo di sistemare poi la sfoglia direttamente nella teglia. La pasta va stesa dello spessore di circa un millimetro, e deve avere dimensioni adatte a sbordare per benino dalla teglia prescelta.

La teglia prescelta, per inciso, se è antiaderente è meglio, ma se non lo è abbiate fiducia che la carta da forno faccia il suo mestiere: calate carta e sfoglia al suo interno sistemandola con le mani in modo che non restino vuoti sul fondo, quindi versateci dentro la verdura condita e per gradire cospargetela con metà del formaggio grattugiato. Et voilà.
Messo il primo strato, si fa il carico da undici con il secondo: giù il salume, e giù pure tutto il resto del cacio. E al diavolo il conteggio delle calorie, che diamine.
Acchiappate quindi la rimanente pasta, stendete pure lei e coprite il ripieno badando a saldare la sfoglia inferiore e quella superiore lungo i bordi della teglia. Poi, giacché siete persone raffinate e sapete bene che in cucina l'occhio vuole la sua parte, rifilate la pasta in eccesso con l'apposita rotellina. E per finire bucherellate la superficie con i rebbi della forchetta, umettatela con un pochino d'olio che spargerete con la punta delle dita, e infilate la teglia nel forno già caldo a 200°.
Per la cottura sarà necessaria almeno mezz'ora. Abbiate cura di dare ogni tanto una controllatina. E quando arriva il momento in cui la superficie si presenta bella dorata e in tutta casa si è sparso un profumo tale da suscitare belluini appetiti, spegnete il forno, cacciate fuori la teglia e portatela in tavola così come è. Vi assicuro che darà grande soddisfazione a voi e ai vostri commensali a fronte di fatica davvero minima, e sarà eccellente piatto unico.
Con la pasta che certamente vi sarà avanzata, per inciso, si possono fare eccellenti panzerotti. Ma di questi parlerò un'altra volta: è maledettamente tardi, mannaggia, e io ho un amato e una micia da nutrire. A bientot :)

venerdì 13 agosto 2010

Ferragosto: scanata e friarielle

Lo so, sono una bifolca. Manco buone vacanze vi ho augurato. Se poi ne fate, di vacanze, giacché risulta dalle statistiche che più della metà degli italiani a questo giro se ne resteranno a casa, e meno male che siamo i più ricchi d'Europa.
Però anche chi in vacanza non ci va, in occasione del Ferragosto se la fa, la sua bella gita fuoriporta. E quello che propongo è, in versione corretta e un po' arricchita, il fedele compagno delle scampagnate che i miei sanniti compiono il giorno dell'Ascensione a seconda dei casi presso il santuario, il fiume, il lago o qualunque bel loco ci sia dai pizzi del loro paesello.
Gli ingredienti non sono di facilissima reperibilità, ma nulla vieta di arrangiarsi con ciò che passa il proprio fornaio o ortolano: il risultato sarà comunque ricco di soddisfazione e ne offrirà ben più di quella che darebbe il solito, mestissimo panino. Ma bando alle ciance e mettiamoci ai fornelli.

Ingredienti (per ciascun commensale, da moltiplicare in proporzione):
due triangoli di scanata (trattasi di tipica focaccia sannita di foggia rotonda con buco al centro, formato ruota di camion e soffice come una nuvola; se non ne disponete, andrà bene della comune focaccia, della pizza alta o un panino del tipo ciabatta o ciriola)

due belle fette spesse di caciocavallo (possibilmente del caseificio La Fonte Nuova di Casacalenda, più volte premiato per il miglior formaggio d'Italia in svariati concorsi; in alternativa, accontentatevi del comune caciocavallo, purché non piccante e non troppo stagionato)

cinque o sei friarielle (non sono gli omonimi broccoli campani, ma i tipici peperoncini verdi dolci, detti nell'Urbe friggitelli)

un po' d'olio

uno spicchietto d'aglio

Preparazione:
passate i friarielle sotto l'acqua corrente lavandoli per benino, apriteli nel senso della lunghezza e privateli di picciolo e semini. Fatto ciò, metteteli a stufare in padella con l'olio e lo spicchio d'aglio pelato e schiacciato. Non appena si ammorbidiscono alzate la fiamma e fateli friggere per un po', in modo che si coloriscano, quindi spegnete il fuoco e con l'aiuto di forchetta e cucchiaio provvedete in primis a bagnare ben bene di sughetto i triangoli di scanata che avrete provveduto ad aprire a metà (apritele stile bocca di coccodrillo, è fondamentale che il lato posteriore resti ben integro), in secundis a farcire con i peperoncini.

Lassciate insaporire qualche minuto e nel frattempo provvedete a scaldare il forno a 200° (lo so, fa caldo: ma ne vale la pena) e a togliere dalle fette di caciocavallo la buccia se presente.

Mettete quindi una fetta di cacio in ciascun triangolo adagiandola sui friarielle, ponete quindi i triangoli così farciti in una bella pirofila di alluminio (andrà benissimo anche del tipo usa e getta, se usate una comune teglia foderatela prima di carta da forno) e mettete il tutto dentro il forno per il tempo sufficiente a far fondere il formaggio e a rendere la crosta della scanata deliziosamente croccante.

Usando l'accortezza di incartare ciascun panino prima in carta da forno e poi nell'alluminio, la scanata e il suo contenuto si manterranno fragranti fino a destinazione, purchè la meta della gita ferragostana non sia il Salento avendo quale punto di partenza Agrate Brianza.

Una volta giunti in loco assettatevi sull'erba, scartocciate il vostro panino, e ditemi se al primo morso non ammetterete che sì, la preparazione sarà pure più complessa di quella del solito paninazzo con il salame, ma perbacco se ne vale la pena. Detto primo morso vi spiegherà pure perchè per ogni commensale io suggerisca porzione doppia: impossibile accontentarsi di una sola.

Mentre mangiate serenamente, appuntatevi pure la ricettella per la prossima volta che farete la cena con i soliti ospiti esigenti e avidi di pietanze rustiche che fanno tanto chic: vi basterà ridurre il formato dei panini per servire un bell'antipasto con poca fatica e molto successo.

Ma per intanto, con buona pace degli ospiti esigenti, godetevi il vostro relax sull'erba: voi e chi vi è caro sapete quanto ve lo meritate.

Buon Ferragosto a tutti.

lunedì 26 luglio 2010

E la micia, la micia, e la micia l'è bèla, l'è bèla...

Nome: Gelsomina
Nascita: 9 maggio 2010
Peso: 1.260 g (al 24/07/2010)
Segni particolari: discola
Cibo preferito: ciabatte e scarpe, dita di papà, piedi di mamma.
Trasmissione preferita: sceneggiati d'antan in lingua originale (con o senza sottotitoli), Super Quark
Altre preferenze: alimentatori elettrici collegati, cavi di qualunque genere, tappetini da bagno, lenzuola nuove

Nel weekend, visita dal veterinario e sessione di pulizie casalinghe. La prima l'ha passata tranquillamente nel trasportino, con contorno di sguardi e parole di apprezzamento: è stato più difficile attraversare il mercato con la gatta che il centro di Roma con i turisti. La peste su quattro zampe (*) ha poi passato il tempo delle pulizie nel suo ripiano di libreria preferito, da noi bloccato con cartone traforato per evitare che decidesse di esplorare l'aspirapolvere dall'interno o leccare il detergente per sanitari. Ha infatti trovato già i suoi posti preferiti in giro per casa - non che ci volesse molto...

Il dottore dice che la frattura si sta saldando bene: riflessi e forza nelle zampe sono in recupero, e anche la ripresa dei tessuti sta meglio di quello che pensava all'inizio. Si è stupito con noi che la micina non abbia fatto una piega né quando le ha fatto inghiottire il vermifugo, né quando le ha fatto l'iniezione del vaccino: non un miao né accenni di fuga. Ha dato l'ok per lasciarla libera in casa quando ci siamo noi, per farla abituare allo spazio, addestrarla ai pericoli casalinghi, ma anche e soprattutto per far sfogare la sua curiosità. Si è raccomandato che salti meno di un metro, per evitare che la frattura sia sottoposta a sollecitazioni troppo forti: stiamo quindi attenti quando si arrampica - soprattutto quando lo fa su di noi. Gradisce molto il grembo della mamma, ma il suo compagno di giochi preferito è il papà - soprattutto quando ha scoperto che riesce a salire agevolmente sulle sue ginocchia, aggrappandosi con le unghiette sotto il pelame paterno.

Ieri è stata la volta di una graditissima visita da parte di Paolo e Tania, più belli che mai e molto incuriositi dall'esserino zamputo che ormai gira in casa con assoluta sicurezza. Ha sfoggiato tutto il repertorio olimpico:

salto sul tiragraffi con pallina
arrampicata sul divano
scalata di ospite con presa d'unghia sulla spalla
giro del tavolo con salto di computer portatile e materiale da lettura
esplorazione degli scaffali e sottomobili
pasteggio del pelouche preferito
partita di calcio con palla di carta
appollaiamento sullo schienale del divano
caccia al topolino appeso (courtesy by mamma e papà)
esplorazione della cucina

In attesa della prossima sessione di giochi gattolimpici, prevista per stasera con l'altrettanto gradita visita dei nostri amici Anna e Vincenzo, ieri sera la piccola si è addormentata sul divano accanto alla mamma dopo una bella sessione di fusa rilassanti con pasteggio sul pelouche.

Oggi purtroppo è giorno feriale, e la piccola deve passarlo nel piatto doccia - ormai la cuccia costruita con il nostro amico Massimo non bastava più a trattenerla. Recupereremo stasera :)

(*) citazione da antica canzone anglosassone

Nota di Jessie:
quando al mattino anziché dal frastuono della sveglia una JessieRicetta viene destata da un amato bene che girellando con la gatta in braccio canta "E la micia, la micia / e la micia l'è bèla, l'è bèla / anche se è un pò monèla, monèla" e anziché alzare gli occhi al cielo fa un sorriso ebete, si può essere sicuri: that's love.

venerdì 23 luglio 2010

Mostro spaziale di zucchine ripiene e formaggio

In una recente chiacchierata con il sempre gentile Marco DB, l'amato bene ha descritto la nostra serata tipo: "Ci si piazza sul divano, si mangia in santa pace ciò che Jessie ha preparato, e si dà il via alla visione, a seconda dell'estro e del momento, di film di Bud Spencer e Terence Hill, di serie televisive in lingua originale e di cartoni animati giapponesi. Poi al momento di andare a ninna ci si dedica alla lettura di libri e fumetti."

Marco DB ha detto che gli pare una bellissima vita da nerd. Altra gente commenterebbe forse che alla nostra età l'amato bene e io ci dovremmo vergognare.

Noi però non ci si vergogna punto. Ci piace assai, divertirci in questo modo.

Il divertirci in questo modo ha poi di tanto in tanto anche ripercussioni in cucina. Ad esempio nel piatto che propongo, il quale è figlio di recenti e ripetute visioni di Goldrake (che noi abbiamo fieramente con il doppiaggio storico in barba alla suicida operazione compiuta dalla D/Visual, ma tutto ciò meriterebbe un post a parte), e del fatto che per questioni di spazio risicatissimo in frigo avevo ben pensato di sistemare le solite zucchine ripiene già pronte in uno stampo di alluminio da plum cake.

Giacché sia il prepararlo che il gustarlo ha causato grande allegrezza in me e nel mio compagno di casa e di vita (che in orario serale abbiamo un'età mentale paragonabile a quella di bambini frequentanti l'asilo), ve lo suggerisco in caso abbiate a tavola commensali in erba. Ma procediamo con ordine, e mi scuso fin d'ora per la mancanza di materiale fotografico che illustri passo passo la preparazione: come sapete, adesso ho una micina inferma a cui badare e le smancerie con la digitale tocca lasciarle da parte.

Ingredienti:
tre zucchine romanesce o scure belle cicciotte e polpose
una manciata di pane raffermo
un etto scarso di provolone dolce grattugiato, o altro cacio che vi garbi
una fetta di mortadella
qualche foglia di basilico
un paio di cucchiai d'olio più un po' per irrorare
un po' di latte
due o tre cucchiai di salsa di pomodoro (facoltativa)
una formaggella primosale di pecora di forma cilindrica, del peso di circa due etti
due grani di pepe, o analoghi semi
pepe macinato

Preparazione:
tagliate le estremità delle zucchine, sbollentatele per qualche minuto quindi passatele sotto l'acqua fredda (a lungo, onde scongiurare il pericolo di ustioni) e tagliatele a metà nel senso sia della lunghezza che della larghezza. Quindi con somma pazienza e un coltellino ben affilato togliete la polpa interna badando a non rompere l'involucro verde, schiacciatela con la forchetta e mettetela in una padella antiaderente.

In detta padella aggiungete quindi la manciatona di pane raffermo e i due cucchiaio d'olio e fate scaldare sul fuoco basso, amalgamando il tutto con il cucchiaio di legno. Quando vedete che il composto sta raggiungendo una consistenza cremosa e liscia addizionatelo con la fetta di mortadella a pezzettini e il cacio grattugiato, date una bella mescolata e spegnete il fuoco lasciando intiepidire.

Adesso è il momento di darsi del tu con la farcitura. Prendete una teglia antiaderente che sia in grado di ospitare comodamente le vostre cucuzze, metteteci un goccino d'olio (proprio un goccio, per evitare l'effetto frittura) e quindi procedete a farcire le mezze zucchine con il composto aiutandovi con un cucchiaio e badando sempre a mantenere integro l'involucro, adagiandole poi sul fondo della teglia. Completate passando su ciascuna un po' di salsa di pomodoro e un filo d'olio e mettete in forno già caldo a 180° per una decina scarsa di minuti, poi tirate fuori la teglia e lasciate freddare.

Fatto ciò, acchiappate uno stampo da plum cake (va benissimo anche quello usa e getta di alluminio, oppure qualsivoglia contenitore rettangolare la cui larghezza sia un terzo circa della lunghezza) e con somma cautela metteteci dentro le vostre zucchine ripiene, badando che la parte superiore resti a faccia in su e che il contenitore venga ben riempito, evitando cioè spazi vuoti fra una cucuzza e l'altra. In corrispondenza di quella che sarà la testa, ponete le zucchine in senso orizzontale anziché verticale. Quindi lasciate riposare almeno mezz'ora, se possibile in frigo, in modo che il tutto si compatti.

A questo punto si è alla fase conclusiva: prendete un piatto di portata, poggiatelo sullo stampo e con abile mossa rovesciate. Se tutto è andato bene, il corpo centrale del mostro spaziale si staglierà bello compatto al centro del piatto. Se va male e si sbraca, armatevi di pazienza e risistematelo con l'aiuto di un par di posate, tanto la pietanza è buona lo stesso.

Fatto il corpo, mancano le alucce e la testa. A ciò si procede tagliando a metà la formaggella nel senso dell'altezza e ricavandone dieci fette di spessore il più possibile uguale che vanno disposte lungo i lati come da foto. Come tocco finale, mettete i due grani di pepe o analoghi semi sulla faccia del mostrino a mo' di occhi (se avete semi di forma oblunga come i grani di cardamono è meglio, poiché gli conferiranno un aspetto minaccioso) e completate con una spruzzatina di pepe lungo le ali.

Quindi portate in tavola, e sentitevi orgogliosi più di una mamma giapponese che per la sua creaturella in età scolare ha realizzato il temibile bento con gli onigiri a forma di dinosauro o di incrociatore spaziale. E mangiate il vostro mostro in compagnia di chi vi è caro con l'allegria della succitata creaturella in età scolare.

Questa ricetta è dedicata alle piccine della ineffabile bimamma Valentina di Passodoppio, che il 21 luglio hanno compiuto un anno. Auguri gemelli :*
Paperblog