Chi mi conosce sa che non sono facile agli entusiasmi, e che nulla mi garba di più del sublime piacere di una stroncatura.
Per cui, se putacaso mi lascio andare a lodi sperticate nei confronti di qualsivoglia opera, che si tratti di un libro, di un film o di una serie televisiva, i miei amici corrono alla finestra perché, sostengono, sicuramente sta per cadere la luna o giù di lì.
Questo è uno di quei casi.
E, ovviamente, non si tratta di una produzione italiana.
La si è vista anche da noi, si fa per dire.
Ciò perché, dopo il necessario passaggio sulla pay tv di turno, Mamma Rai l'ha acquistata e mandata in onda prima la scorsa estate in seconda serata (per inciso, sbagliando pure l'ordine delle puntate), poi su un canale del digitale terrestre che si distingue per un ampio numero di fetecchie, in orario altrettanto infelice e la domenica per giunta.
Il che è un bel modo per promuovere una serie che in patria ha fatto sfracelli, e il cui acquisto deve essere costato a noi contribuenti qualche soldino.
Ma questo fra parentesi.
Io ci son capitata su per caso, durante una di quelle infelici trasmissioni domenicali. Mi son bastati dieci minuti, poi ho alzato il telefono.
"Pronto Lello? Ti propongo un equo scambio."
"Crostata. Formato ruota di camion."
"Va bene. Conosci Life on mars? E' una serie della BBC."
"Ce l'ho. Fanno due crostate."
"Avido. Perché due?"
"Due stagioni, due crostate. Con marmellate diverse, eh."
"..."
"Se aggiungi un po' di biscottini ci metto pure i sottotitoli."
"..."
"Ci vogliono, i sottotitoli. L'accento di Manchester è tosto."
"Potresti essere gentile e darmeli gratis et amore dei."
"Come dicono i tuoi amati britannici, business is business."
"Carogna. Passa fra tre ore."
Ho messo giù il telefono e mi sono diretta in cucina. E a chi mi volesse fare la consueta ramanzina sul fatto che i prodotti vanno acquistati originali, rispondo che concordo in pieno, ma con eccezioni. Primo, quando mi permetteranno di vedere direttamente sul mio pc nel momento in cui voglio e dietro prezzo equo ciò che mi interessa anziché costringermi ad acquistare pacchi di DVD che grazie alle poste italiane arrivano dopo un mese, sarò ben lieta di farlo. Secondo, perché se detti DVD non sono provvisti dei necessari sottotitoli, cosa che spesso succede per prodotti della Perfida Albione, io pur sapendo quel po' di inglese che so ci posso giusto giocare a frisbee col cane: sono stata fra gli sfortunati acquirenti di Queer as folk (sì, quella serie che in Italia non è mai andata in onda in chiaro causa pressioni politiche), la quale ben mostra la tostaggine dell'accento mancuniano, e ancora aspetto al varco gli imbecilli di Channel 4 che l'hanno messa in commercio in versione studiata esclusivamente per anglofoni dall'udito perfetto.
In attesa di tempi migliori, posso dire che mai tre ore ai fornelli furono più ben spese.
Perché Life on Mars è una delle serie migliori che abbia visto negli ultimi anni.
Ammetto di essere biased: è ambientata a Manchester, per me uno degli ombelichi del mondo. E' una serie poliziesca ma con tocchi inconsueti, e io sono cresciuta a pane e X-files. Ha un cast di attori eccezionali, fra cui John Simm, che avevo già avuto modo di apprezzare in quel gioiello, ignorato da noi, che è 24 hour party people di Michael Winterbottom. E prende il nome da una delle più belle canzoni di David Bowie. C'erano tutti gli elementi per attrarmi.
A ciò si aggiunge che personaggi e trame sono un mix quasi perfetto di tensione e umorismo britannico.
Lo spunto per tutto ciò è tanto in apparenza semplice quanto geniale. L'ispettore capo Sam Tyler, che vive e lavora nella Manchester del 2006, ha un incidente di macchina. Perde i sensi. E si risveglia esattamente nello stesso luogo in cui è stato investito.
Solo che è il 1973.
Life on mars, che stava ascoltando in auto con il suo Ipod di ultima generazione, esce gracchiante da un mangianastri. Viadotti e palazzi sono scomparsi. E quando Tyler si reca alla stazione centrale di polizia, scopre che è un coacervo di bestioni rozzi, razzisti e fumatori a catena, con le poche donne impegnate a controllare scartoffie e fornire tè ai colleghi fra una battutaccia sessista e l'altra. A capo del dipartimento, il poster boy del politicamente scorretto: Gene Hunt, altresì detto "the Guv" dai suoi sottoposti, uno che conduce gli interrogatori a suon di sganassoni, beve come un tombino e quando parla scartavetra le orecchie per il volume e gli insulti nei confronti di qualsivoglia gruppo che sia di etnia, genere e orientamento sessuale diversi da quelli del maschio bianco inglese medio. A confronto, Marte è terra cognita.
Tyler, che lo voglia o no, è costretto a interagire con loro, e con un mondo che non conosce. Deve reinventarsi il lavoro. Qualsiasi ricerca di archivio sottointende ore di imprecazioni in mezzo alla polvere anziché cinque comodi e asettici minuti al computer. Il concetto di preservare la scena del crimine è non pervenuto, e men che meno quello di fare un profilo del malvivente di turno, roba da strizzacervelli. Ogni due per tre gli tocca scontrarsi con i pregiudizi di colleghi e superiori. Come se non bastasse, ogni tanto sente le voci manco fosse Giovanna d'Arco, e suoi incubi vengono tormentati dalla odiosa ragazzina con il pagliaccio che negli anni Settanta adornava il monoscopio della tivù di Sua Maesta Britannica: sicché il tapino si chiede se davvero è tornato indietro nel tempo, o se piuttosto è in coma o sta diventando matto.
Una vitaccia, si dirà.
Non poi troppo.
Uno, perché Tyler trova una paziente confidente in Annie Cartwright, una collega che, complice il fatto che Tyler a differenza degli altri la consideri un essere pensante, diventa un pezzo di roccia abbastanza solida su cui poggiare i piedi fra le sabbie mobili marziane. E prima che arricciate il naso, no, non è la storiella d'amore di cui abbondano le serie nostrane e non. E' in primis un rapporto di lavoro e umano, che si sviluppa come i rapporti umani e di lavoro sogliono svilupparsi. E nella serie ha il peso che gli spetta: un dieci per cento, né più ne meno, che non va mai a discapito della trama.
Due, perché la Manchester di trent'anni e passa fa ha i suoi elementi interessanti. E' malconcia, zozza, provinciale, niente a che vedere con i fulgori di due decenni dopo, o quelli che inizieranno da lì a cinque anni soltanto. Ma proprio per questo è in grado di sorprendere Sam, e anche gli spettatori.
Tre, perché la vecchia Manchester sarà pure sorprendente, ma mai quanto lo è Gene Hunt. E non solo per Tyler.
Magistralmente interpretato da Philip Glenister, l'ispettore capo è di gran lunga il personaggio più attraente della serie: rozzo, manesco, sessista, razzista, alcolizzato, corrotto e ricolmo di mille altri difetti (Tyler aggiungerebbe anche quello di essere un supporter del Manchester City), di episodio in episodio rivela tratti che lo rendono insopprimibilmente likable. Fra questi, un ferocissimo e talvolta sbilenco sense of humour, che si manifesta nei suoi perenni scontri con Tyler e che sottolinea la frattura fra la sua mentalità di rude poliziotto maschio degli anni Settanta e quella politically correct del suo collega e sottoposto. I loro scambi sono fra le cose migliori di Life on Mars, e li rendono una delle coppie più riuscite che si siano viste di recente sul piccolo schermo e non solo.
A questo punto, chi ha visto la serie sui canali di Mamma Rai e prima ancora sulla pay tv probabilmente si chiederà basito: e com'è che io di codesta brillantezza nei dialoghi non mi sono accorto per nulla?
Semplice: perché l'ha vista alla tivù anziché rivolgersi al suo Lello personale.
Se l'avesse fatto, si sarebbe accorto di ciò che io ho sospettato nei citati dieci minuti prima di chiamare il mio amico divoratore di crostate.
Ovvero, che la versione italiana fa pena.
Ora, io mi rendo perfettamente conto di quanto sia complicato tradurre una serie del genere, in cui i riferimenti alla cultura britannica si sprecano. Quando the Guv replica a un perplesso Sam "always trust de Gene Genie!", una cosa è sapere che sta facendo un gioco di parole su Jean Genie di Bowie, ben altra cosa è rendere la frase comprensibile al pubblico italiano. Ma una cosa è, con un gran sospiro, rinunciare a rendere ciò che non si può rendere. Altra cosa è, per pigrizia, alzare subito bandiera bianca. Risultato è che il pubblico italiano si perde scambi scoppiettanti come quelli in cui Tyler e Hunt bisticciano sull'omicidio di un pachistano (Sam osserva "This must be a hate crime" e Gene, con spregio giacché l'espressione "crimine d'odio" era ben lungi dall'essere nota negli anni Settanta, ribatte "Oh, as opposed to 'I really really love you crime'?"), o qui pro quo al limite del delirio (al collega, che gli chiede il motivo per cui Sam non ha dormito la notte intera, questi risponde "migraine": al che l'altro, che deve avere un vocabolario di cento parole scarse e pensa di tratti di una donna, osserva 'Oh, german bird?', scambiando un'emicrania per una fanciulla teutonica).
Ne potrei citare altri di casi, ma ci rinuncio. In primis, perché dovrei rivedere tutti gli episodi in italiano oltre quelli che ho guardacchiato di tanto in tanto in tv, e non ho voglia di fornire a Lello ulteriori crostate. E last but not least, perché mi dovrei scontrare con un altro aspetto che rende la versione italiana abominevole: il doppiaggio.
Come sia nata la leggenda che noi abbiamo i migliori doppiatori del mondo, vorrei saperlo. Perché a parte casi rari (con i quali sono parziale, per affetto mio e talento loro: per me Woody Allen è Oreste Lionello, come De Niro è Ferruccio Amendola), la scelta delle voci fa spesso cadere le braccia. Così come l'intonazione, la recitazione, tutto. Life on Mars, come tante serie britanniche e non solo, rifugge dal pathos e dagli eccessi. Anche nei momenti più drammatici, gli attori mantengono un invidiabile senso della misura, con il risultato che la tensione arriva alle stelle. Non si capisce pertanto perché i nostri debbano calcare il pedale nel momento di dargli voce. Nella versione italiana Sam Tyler sembra perennemente sull'orlo della crisi di nervi, Gene Hunt risulta sempre e comunque una carogna senza un filo di sottigliezza, Annie è lilì per franare a terra con tutta la tenda cui si è aggrappata, gli altri paiono usciti da una sceneggiata di terz'ordine.
Guardando tutto ciò, si direbbe mai che Life on Mars è stato uno dei più grandi successi di critica e pubblico della Perfida Albione?
No.
Pertanto rivolgetevi al vostro Lello di fiducia.
Quando sarete finalmente in possesso della serie originale, preparatevi a gustarla sedendovi sul divano in posizione comoda. Magari, per fare una cosuccia a tema, con la compagnia di una tazza di tè e un pacchetto di Garibaldi.
Non fate quella faccia basita: non vi sto proponendo del cannibalismo. I Garibaldi sono un tipo di biscotti, celeberrimi in Gran Bretagna, chiamati così proprio per via dell'eroe dei due mondi. Se non lo sapevate, siete in buona compagnia con il 90% degli italiani, a giudicare dalle reazioni che ho avuto al riguardo dai miei colleghi.
Il fatto che chi ha adattato Life on Mars abbiamo lasciato nei dialoghi "Garibaldi" anziché tradurre con "biscotti" è forse la migliore dimostrazione del livello di accuratezza con cui ha compiuto il lavoro.
Evitate di pensare che quel lavoro, probabilmente, è stato pagato anch'esso con il vostro canone.
Evitate anche di pensare che, mentre i britannici pagando il canone hanno avuto e hanno in cambio, a parte Life on Mars, cose come Doctor Who, Inspector Morse e Absolutely Fabulous, noi foraggiando Mamma Rai ci becchiamo perle come Incantesimo 4 o l'ennesima fiction su Padre Pio.
Buona visione.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Jessie, you rock!!! osservazioni giustissime sulla "lameness" qualità scadente di doppiaggio e sottotitolaggio di certi sensi sottili (e intelligenti) che purtroppo non vengono trasmessi in programmi Ango traslati per il mercato Italiano. E' un peccato perchè c'è tanto TV bella (senza parlare della musica) là fuori e per averla bisogna prostituirsi con crostate o farne a meno. Se non la conosci già ti consiglio vivamente THE WIRE che ti costerà un anno di lavori forzati al forno e pacchi di biscotti (Garibaldi o Newton ai fichi) per i sottotitoli (necessari per via dello slang da ghetto che rende il linguaggio intelligibile anche ai madre lingua non di colore)
RispondiEliminaBuongustaia!!! Di The Wire ho sentire dire cose meravigliose e sto provvedendo a farmi fornire la prima stagione... A questo giro, grazie al cielo, senza fatiche con matterello e forno: Lello si è beccato una fornitura di prelibatezze del mitico bar pasticceria Ermete di Trevignano Romano, pertanto sono largamente in credito :D
RispondiEliminaI Fig Newton, però, che bella idea... Vista la stagione, mi metto a caccia della ricetta: mi sa che è arrivato il momento di ricominciare a darsi da fare :)