giovedì 6 maggio 2010

Troppa carne al fuoco

Chiedo perdono ai benevoli lettori se negli ultimi giorni ho latitato, e lo farò anche nei prossimi.
Sto strafogata di lavoro. Sto correndo appresso a pasticci vari ed esigenze dei miei. E non mi sono manco fatta mancare un viaggetto in ospedale per gentile concessione dell'amato bene, il quale ha ben pensato dopo mesi di lavoro matto e disperatissimo di crollare stile sacco di patate, con la differenza che i sacchi di patate non soffrono di dolori sospetti al petto e allo stomaco e non si prendono cazziatoni dai medici di pronto soccorso perché hanno la pressione vergognosamente alta, nonché un vagone di altre cose che richiedono un tir di analisi.
Insomma, diciamo che c'è un bel po' di carne al fuoco. E magari fosse un asado argentino.
Rifaccio capolino appena posso. Nel frattempo, se volete ditemi una preghierina, e soprattutto ditela per il mio compagno di casa e di vita. Ne ha bisogno.
Molti saluti,
Jessie

sabato 1 maggio 2010

Ignominiosa voluptas: the Rome series

Non so chi dei miei benevoli lettori ha fatto il liceo classico.
La sottoscritta sì. Veramente avevo scelto il linguistico, ma poi è successo che il fato, ammantato per l'occasione dei panni del mio babbino, ha deciso altrimenti.
Ricordo l'esperienza come una malattia. Ancora adesso mi capita a intervalli regolari di svegliarmi urlando "Nooooo!!! L'aoristo cappatico nooooo!!!"
Chi non sa cos'è un aoristo cappatico, sappia che è fortunato. E' una delle dimostrazioni che il greco classico non è una lingua, ma un maledetto calderone di dialetti che si somigliano fra loro quanto il cuneese e il tarantino, e in cui l'apax legomenon è pane quotidiano (non sapete manco cos'è un apax legomenon? Ribadisco, siete fortunati).

Non che avessi un rapporto migliore con il latino. Per i cinque anni prescritti mi sono guardata in cagnesco con quella lingua maledetta, la sua ripugnante sintassi e la sua abbondanza di falsi amici con l'italiano. Non parliamo poi della letteratura: se quella greca ha diverse cosucce interessanti, fatte salve due o tre eccezioni quella dei patres causa o abissale sconforto, o il desiderio di montare sulla macchina del tempo per suggerire al calvo adultero di compiere tutte le marce forzate che volesse ma di non scriverne in quel falsamente asciutto stile attico, dire a Tacito che avrebbe fatto meglio a onorare il suo nome anziché sfornare Annales come fossero pagnotte o fare a Cicerone il servizietto che gli riservò quella simpaticona della moglie di Marco Antonio, ma da vivo.
Sicché, una volta conseguito il diploma, ho allegramente fatto scivolare tutto ciò nel dimenticatoio, e le uniche toghe che non mi spingessero alla fuga erano quelle di Animal House.
Con siffatti presupposti, una serie dedicata all'antica Roma mi dovrebbe far mettere mano al gladio, o meglio ancora a una falcata iberica.
Invece è diventata un guilty pleasure dalla prima volta che, ormai cinque anni fa, mi è capitata sotto gli occhi.

Il concetto di guilty pleasure non è facilissimo da tradurre. Designa quelle cose che ci piacciono, e che ci fanno provare vergogna per il fatto che ci piacciono. Non perché siano peccaminose beninteso: perché non dovrebbero interessare persone elevate quali noi siamo. Gli esempi sono infiniti, dalla intellettuale di sinistra che sfoglia Chi dal parrucchiere al cultore del cinema impegnato che con fare da carbonaro sbircia il Grande fratello.
Io non vado dal parrucchiere, e il mio televisore ha smesso di fungere nel Pleistocene. Per cui il mio guilty pleasure, o se volete ignominiosa voluptas, è diventata Rome.
Per chi non lo sapesse, Rome è una serie in due stagioni prodotta da un improbabile trittico composto da HBO, BBC e Rai. Ha debuttato sugli schermi americani nel 2005 e si è distinta per diverse cose, non da ultimo il fatto di essere costata una barca di quattrini. Ed è un piacevolissimo exemplum di tutti i pregi e tutti i difetti che sogliono avere le coproduzioni affette da gigantismo.

Un par di scelte sono da applauso, per quanto scontate. In primis, aver deciso di incentrare la narrazione su quello che è forse il periodo più interessante, se non il più noto, dell'Urbe antica: ovvero, per dirla in buona lingua, il grandissimo casino che vide la Repubblica tirare le cuoia. I personaggi coinvolti li conoscono anche i sassi: il già citato calvo adultero Cesare, il suo degno compare Marco Antonio, un verminaio di senatori simpatici quanto un raffreddore (dall'odioso arpinate a quel Catone paladino del mos maiorum ma noto per prestare denaro a usura e, all'occorrenza, pure la moglie), un discreto numero di nobildonne intriganti che chiunque mastichi appena un po' la storia del periodo ha perlomeno sentito nominare. Basta sfogliare una cronaca dell'epoca e si ha materiale a iosa per tenere lo spettatore incollato allo schermo: saccagnate reciproche fra legioni e mute di barbari, congiure assortite, voltafaccia e colpi di scena a pioggia. La gioia di qualunque sceneggiatore, che non deve temere momenti di stanca: un pettegolezzo di Svetonio, un'allusione di Cassio Dione, una soffiatina di Plutarco e la ricetta è bell'e pronta.

Ulteriore scelta scontata ma geniale, mettere la classica strana coppia a far da filo conduttore della narrazione: nella fattispecie Lucius Vorenus, un soldato della XIII legione flessibile quanto un baccalà e afflitto da un fervente credo stoico, e il suo commilitone Titus Pullo, che è ça va sans dire il suo esatto contrario nel fisico e nel carattere. Con queste premesse le occasioni per scontri gustosi sono lì a ogni piè sospinto, e gli autori non se ne fanno scappare una. Tocco di classe, i due saranno strana coppia, ma hanno nel pedigree una ricca citazione nel De bello gallico: fiction sì, ma con i quarti di nobiltà. E pazienza se la stessa idea l'aveva avuta Turtledove in La legione perduta: i patres sono sempre patres, che siano scrittori di ucronie o gente che alle Idi di marzo avrebbe fatto bene a starsene a casa.

Con buona pace del mos maiorum, anche le donne si danno da fare. E visto che le matrone coinvolte nella storia hanno biografie ufficiali da sbadiglio (spose virtuose, esempi di pietas, madri esemplari e via ronfando, se si esclude l'abitudine a trescare con l'alta politica), gli sceneggiatori pensano bene di appozzare da quelle di signore assai poco matronali. Atia della gens Julia, nipote di Cesare e affettuosa mammina di Ottaviano, è una stampa e una figura con Clodia Pulchra, quella che è passata alla storia come musa di Catullo - il quale, ahimè, è assente dalla fiction in quanto già defunto quando la vicenda inizia, ma si allude a lui e alla sua poesia in più di un momento - e come campionessa di salto in letto. Servilia, amante del pelato conquistatore delle Gallie, mostra una ferocia sì corrusca e vendicativa che appetto a lei la già citata consorte di Marco Antonio, cui deve più di qualche turba, pare una dama di San Vincenzo. Va da sé che essendo in campi avversi se ne combinano di tutti i colori: e giacché fra i produttori c'è John Milius, regista noto per la sua passione per l'antica Roma quanto per la delicatezza da camionista, i loro scontri abbinano in eguale misura verosimiglianza storica e modalità degne di uno spettacolo del grand guignol. O di una telenovela.

Visto che la serie è coprodotta dallo stesso network che ci ha gentilmente donato The Sopranos, è ovvio e sottinteso che a grand guignol non ci facciamo mancare niente e a telenovela men che meno. Altrettanto ovvio che, trattandosi di una fiction destinata in primis a un canale americano, vi sia sesso a palettate. A intervalli di un quarto d'ora fa mostra di sé una coppia, o più d'una, che indulge con ampia messe di grugniti da parte di lui e di strilletti in sovracuto da parte di lei nelle più diverse declinazioni dell'ars amandi. Ora non è che gli antichi romani fossero noti per la loro pudicizia (il già citato mos maiorum all'epoca, anzi ben prima, era oramai un fossile vivente), però lo spettatore europeo alla terza copula sbadiglia a mo' di ippopotamo e coglie l'occasione per andarsi a fare una passeggiatina verso il frigo in attesa che la trama ricominci a scorrere.

Sempre per via della repressione sessuale anglosassone ci si becca, con la gentile collaborazione del clan dei Julii, anche un discreto repertorio di quelle cosette che fanno sentire molto naughty gli spettatori d'oltreoceano: la tenera Ottavia pensa di bene di darsi del tu sotto le lenzuola sia con Servilia che con il fratellino Ottaviano (va da sé che qui le scene di sesso sono a malapena suggerite: naughty sì, ma con giudizio), mentre il futuro pater patriae durante una sessione con la moglie Livia si fa prendere a sberloni in faccia e indulge nelle delizie dell'asfissia erotica. Simpatico com'è l'Ottaviano della serie, si rimpiange che la consorte non usi allo scopo un tirapugni o non porti l'asfissia al degno finale: in compenso ciò che si vede, stavolta con ricchezza di dettagli perché trattasi di rapporto eterosessuale fra agenti non consanguinei, è bastevole a far arrossire il teledipendente americano medio, e a suscitare l'ilarità di tutti gli altri.
Quanto all'omosessualità maschile, nonostante fosse lietamente praticata nella storia reale da almeno uno dei protagonisti (un altro celebre pelato, che aveva appioppato a Cesare la tessera di prefascista numero uno, si guardava bene dal ricordare alle italiche masse che il condottiero era noto come "il marito di tutte le mogli e la moglie di tutti i mariti"), in Rome pare guardacaso non interessare nessuno dei personaggi principali: semmai la pratica il servo di turno, e ovviamente con le telecamere posizionate in modo che non si veda un bel nulla dell'atto in sé.

Se però di amor fra uomini nulla si vede esplicitamente, di sottointeso ve ne è a profusione: in uno scenario di adulteri, intrighi e scambismi vari, la vera love story della serie è quella che per tutte le puntate si dipana fra Vorenus e Pullo. Bisticciano come due fidanzati, hanno crisi di gelosia in piena regola, son sempre lì l'uno per l'altro a costo di rimetterci la rude pellaccia da milites. Le loro mogli e compagne di volta in volta li cornificano, si suicidano, muoiono avvelenate per mano dell'amante ambiziosa, nell'ipotesi migliore fanno la lagna perché i due le trascurano causa la missione di turno. Vorenus e Pullo, loro, non si lasciano mai: e fra sguardi silenti e virili abbracci, chi guarda si chiede perché le soste davanti all'ennesimo fuoco da campo non diano adito a una notte di passione. Che ovviamente non arriva mai, e semmai si compie per interposta persona: quando Pullo ha un incontro ravvicinato con Cleopatra e ritorna alla tenda con una faccia da schiaffi, Vorenus lo accoglie rivolgendogli la schiena e azzittendolo con un ruggito. Nelle intenzioni la causa della mutria è la fortuna sfacciata del commilitone, allo spettatore pare piuttosto che Vorenus rimpianga che il compagno anziché scegliere lui abbia optato per quella egizia tutt'ossa. Tu chiamale, se vuoi, repressioni.

Se lo sviluppo narrativo è roba da baraccone, a rendere il tutto piacevolissimo sono i veri punti di forza di Rome: un cast favoloso, l'attenzione per le ambientazioni e i dettagli, e non da ultimo un perfido umorismo britannico. Strana coppia a parte, interpretata magistralmente da Kevin McKidd (che i più ricorderanno come il drogato sfigato di Trainspotting) e da un Ray Stevenson che rende il suo Pullo un miles romanus nel senso più corposo dell'espressione, tutti gli altri spiccano sia per somiglianza con i personaggi storici che per la capacità di renderli vivi e reali. Cesare è un affascinante e viscido carrierista, non privo di sussulti etici, capace di unire tenerezza e crudeltà. Marco Antonio è perfettamente reso nella sua sfacciataggine, idiozia e ferocia animale, con il plus di un cinismo ironico che lo rende persino simpatico. Cicerone è un misto di furbizia da homo novus e vigliaccheria congenita, ma non privo di dignità. A Lyndsey Marshal basta uno sguardo per mostrare come una ragazzina piatta come un asse da stiro e dal naso tutt'altro che greco abbia sedotto due fra i potenti più famosi del mondo antico. E la lista potrebbe continuare all'infinito. Tutti o quasi, dai personaggi principali alle comparse, sono stati scelti con amorevole cura, e tutti o quasi sono da applauso.

Altrettanto da applauso chi ha curato scenografia, arredamento e costumi. Il mio amato bene, che a differenza della sottoscritta è un cultore di storia romana, è andato in visibilio di fronte ai "muli di Mario", ovvero i legionari che in marcia portano appeso tutto il loro bagaglio su due bastoni a spalla e ben diversi dai soliti soldati che nei peplum sogliono andare a passeggio facendo unò-duè con il solo peso dell'elmo. La riproduzione delle insulae con le loro malsane case in legno e i cortili invasi di galline danno una giusta spallata alla consueta iconografia dell'Urbs tutta marmi. I muri delle abitazioni traboccano di graffiti in perfetto latino da strada, accuratissima riproduzione di quelli reperiti negli scavi pompeiani. Il lavoro delle maestranze e la computer graphics restituiscono il pigro Tevere ancora privo di argini e la magnificenza di palazzi e templi dai colori vivacissimi. E se quando Ottavia si spoglia mostra un tristissimo monokini uscito dal peggior catalogo Yamamai, pettinature e indumenti sono in genere riscontrabili negli innumerevoli esempi di arte statuaria dell'epoca. Fin dai titoli di testa, con il memento mori della Casa degli Architetti pompeiana a dare il benvenuto, si entra nella morente Repubblica che sta diventando Impero. Ed è una vera goduria.

Mai quanto lo è però l'ironia tagliente di certi dialoghi, cui l'accento britannico del cast dona una sfumatura da black comedy davvero deliziosa. Gli esempi sono virtualmente infiniti: uno dei miei prediletti è quello che si svolge fra Bruto e Cassio in occasione della battaglia di Filippi, quella che per la cronaca segna il trionfo della trimurti composta da Ottaviano, Marco Antonio e dal terzo incomodo Lepido. Di fronte a una parata di legioni pronte a farli a pezzettini, i due scambiano con faccia imperturbabile battute adatte più a una conversazione in salotto che a un procinto di massacro: "Uh, mi pare che sia il tuo compleanno. Tanti auguri. Però non ti ho fatto la torta." "Rimedi l'anno prossimo con una gigante. Niente cannella però. Mi fa starnutire." Il meglio arriva al momento della sconfitta, con Cassio che torna al quartier generale in barella e coperto di sangue, lilì per esalare gli ultimi. A Bruto che gli chiede che cosa stia accadendo sul campo, risponde: "A essere onesto, non ne sono sicuro. Bel compleanno, eh."
La capacità di unire dramma e ironia ha forse il suo culmine nel momento che mi ha fatto decidere all'epoca che Rome avrebbe avuto un posto d'onore nella mia collezione di serie: il salvataggio di Cleopatra da parte di Pullo. Il rude legionario irrompe nella tenda della regina che sta per essere sgozzata e comincia a darsi botte da orbi con il sicario sotto lo sguardo stupefatto di Cleopatra e della sua nutrice. Solo mentre sta infierendo sul cadavere si accorge che le due lo stanno guardando in assoluto silenzio: resta interdetto un secondo, e poi se ne esce con un candido "Salve, signore". E' uno di quei momenti che chi scrive sceneggiature dovrebbe vedere e rivedere: soprattutto chi lavora per Raiset, dove l'umorismo è questo sconosciuto mentre, mai quanto nei polpettoni che ci vengono propinati, sarebbe un much needed refreshment. Ma del resto, quando mai il dinosauro di Viale Mazzini o il mammatrone del Cavaliere possono sognare di produrre serie del genere.

In effetti Mamma Rai ci ha pensato, a produrre serie del genere: e nel triumvirato produttivo di Rome, ovviamente, fa la parte di Lepido. Come abbia deciso di farsi coinvolgere nell'avventura me lo spiego solo con l'ignoranza dei dirigenti, ai quali sarà preso un colpo quando si son resi conto che mai ci sarebbe stata chance di proporre la fiction in prima serata (si potrebbe anche malignamente pensare che i suddetti dirigenti fossero ben consci di ciò e siano saliti in barca per personale guadagno, visto che la serie stessa si è fermata a due stagioni sulle cinque programmate per lo spaventoso e imprevisto lievitare dei costi: ma ciò è indubbiamente una cattiveria da parte mia). Per ovviare al problema, si è ben pensato di censurare sia le scene ritenute troppo oscene o violente, e per gradire pure i dialoghi.
Vi lascio immaginare il risultato visto che sesso, violenza e scurrilità a manetta sono spesso parte integrante nel definire i personaggi. Un Pullo che non si lamentasse del fatto che il deserto "è più caldo dell'uccello di Vulcano" non sarebbe Pullo. I "porca Giunone" sibilati da Cesare quando il rivale di turno ne combina una delle sue non sono un optional. Men che meno lo è il fatto che Atia, nella sua ansia di scalata al potere, si dia biblicamente del tu con la Roma che conta, e anche con quella che non conta. La pruderie italica raggiunge il top nella scena in cui Marco Antonio offre a Vorenus un posto da praefectus, in modo da legarlo a sé: nella versione originale il triumviro è completamente nudo, e ciò è funzionale. E' il segnale che Vorenus è niente, uno zero, e che Marco Antonio non necessita di presentarsi in abiti che gli conferiscano un ruolo: è una potenza a prescindere, e lo dimostra proprio il fatto che si stia facendo tranquillamente il bagno di fronte a quel nulla che, volente o nolente, finirà prima o poi sul suo libro paga. Nella versio expurgata, il triumviro viene ovviamente mostrato solo dalla cintola in su. Viene privato dei suoi attributi. E così la serie.
Sicché, come è successo in fin troppe occasioni, un prodotto che è stato un enorme successo altrove, da noi lo hanno visto in numero equivalente agli iscritti del Partito monarchico.
Mi è stato riferito che, con il coraggio che contraddistingue l'emittente di Stato, la versione non censurata di Rome è stata riproposta qualche mese fa in versione integrale su un canale della tivù digitale. Lieta di non averla vista. Il massacro compiuto nell'adattamento e doppiaggio della versione censurata era agonia sufficiente, e nulla mi fa credere che la nuova versione sia in qualche modo migliorata, viste le meraviglie che la tradizione di doppiaggio più famosa del mondo ci propina.

Pertanto vi do il solito consiglio: se non avete visto Rome, o se l'avete vista all'epoca sui canali Rai e vi ha comprensibilmente fatto schifo, fate in modo di procurarvela in originale. Non fatevi spaventare dal fatto che l'inglese non sia la vostra lingua madre: i sottotitoli sono stati inventati per quello. Magari vi ci vorrà più di una visione per fare rodaggio. Avrete così più di un'occasione per apprezzare i dettagli piccoli e grandi e i momenti che rendono questa serie, nonostante i suoi innumerevoli difetti, un classico: il funesto conservatorismo di Vorenus nel suo atteggiarsi a pater familias di antico stampo con potestà di vita e morte su moglie e figli, la gelida ferocia di Pullo che butta il cadavere dell'amante in una pozza d'acqua anziché seppellirla in modo che la sua anima sia condannata a vagare per l'eternità, la figlia di Vorenus che per annullare un augurio fa di nascosto il gesto delle corna (dai Romani non abbiamo ereditato solo un po' di sassi, signori), la stoica consapevolezza di Marco Vipsanio Agrippa che accetta l'impossibilità di sposare Ottavia in quanto pur generale è nipote di schiavo, l'infiltrarsi dei culti di salvazione individuale che dopo qualche secolo avrebbero cambiato la faccia dell'Impero decretando la sua fine, e così via.
Puntata dopo puntata, scoprirete probabilmente che Rome è diventata una ignominiosa voluptas anche per voi.
Bona visio.
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