mercoledì 27 febbraio 2013
Zia Maria
"Ridere... sempre così giocondo/Ridere... delle follie del mondo/Vivere... finché c'è gioventù..."
Mia zia amava la musica, e questa canzone in particolare le piaceva. Ce la cantavamo al telefono, quando mi chiamava la sera. Finiva col chiamarmi sempre lei, perché io trovavo sempre occupato per le mezz'ore di fila ("Zì, ma chi è sto logorroico? Hai voglia a chiamare!" "Uh, figlia mia, sapesse...M'ha fatt' 'na coccia, e tutù e tutù!"). Parlavamo di mille cose, e cantavamo. Sono canzoni di quand'ero giovane, però so' belle, no?, mi diceva. Sì zia, sono belle. E tu sei rimasta sempre giovane. Con la voce squillante, il sorriso, la figura snella e il tuo caschetto di capelli d'argento. Una flapper di ottant'anni.
Sempre stata una donna attiva, zia Maria. Infatti era difficile che si fermasse a parlare. Però in certi casi si sedeva sulla poltrona vicino alla stufa, e quello era il segnale che c'erano due minuti di pausa. «Facémece 'na fumatella», e uno si sedeva accanto a lei, accendeva la sigaretta e chiedeva. Zì, ma quando eri piccola come eri?
«Ero 'n' 'ndrecchiésse! Stavo sempre a curiosare e a chiedere. Avevo una sciarpa rossa a pallini neri, e jeve apprèss a tutti i funerali. E poi mi impicciavo, parlavo con questo e quello. Mia madre mi diceva sempre: sei una maleducata!»
Non eri una maleducata zì, è che hai sempre detto quello che volevi e ti comportavi come credevi. Avevi un bel caratterino. Quando mio padre andò con il suo a Campobasso e tornando disse tutto contento che aveva visto "'u mare peccerille", la grande fontana della piazza principale, la tua reazione non fu delicata. «L'haje azzeccàte nu shcàffe, a chille povere figlie», raccontavi mezza contrita e mezza ridendo. Va da sé che adoravi mio padre. «Quando è nato era tanto bello, ciabbottello ciabbottello, e aveva già un dentino...». E poi raccontavi che insieme facevate qualche marachella, e il nonno si arrabbiava e vi faceva stare nell'angolo con le braccia alzate e appoggiate al muro.
Zia Maria era bella. Non lo dico perché era mia zia. Era bella veramente. Aveva ripreso l'altezza di mia nonna, a differenza degli altri fratelli che erano rimasti tutti piuttosto piccoli. Aveva i capelli scuri, gli occhi nocciola, gli zigomi alti, il naso dritto. C'è una foto dei primi anni Sessanta scattata vicino al negozio dove è con altre persone: una ragazza che va verso i quarant'anni colta mentre sta attraversando, modernissima con le sue lunghe gambe e i capelli che le arrivano alle spalle. Potrebbe somigliare a Jane Birkin, solo che a confronto Jane Birkin è provinciale. Mia zia era di un paesino, ma non sarebbe mai stata provinciale. Lo stile è sempre stato tutto suo.
Colpiva le persone, che la ricordavano anche dopo averla vista un'unica volta, anche a distanza di anni. Mio zio Pigi racconta di una sosta al paese, di ritorno da un viaggio a Taranto. Zia preparò un pranzo memorabile, e altrettanto lo fu la conversazione durante il pasto. "Una donna arguta e intelligente, piena di spirito, sempre con la battuta pronta". La bellezza è niente senza la personalità, e mia zia aveva entrambe.
E' rimasta bella fino all'ultimo. E fino all'ultimo pareva non aver pace, aveva sempre qualcosa da fare. Girava come una trottola per tutta la casa, su e giù per le scale. Da piccola faticavo a tenerle dietro. Ogni tanto però si fermava, e mi dedicava attenzione. Non era l'attenzione morbida e piena di calore di zia Margherita: aveva sempre qualcosa di deciso e vivace.
Uno dei ricordi più belli è legato all'anno che passai interamente al paese frequentando la seconda elementare. In inverno mi venne la varicella, e zia Maria mi riportò da una vista a Campobasso Le novelle di una nonna di George Sand. La febbre mi stancava, e lei prese il libro in mano e mi sedette accanto. Ricordo la sua voce nitida, da donna assai più giovane dell'età che aveva, mentre leggeva La quercia parlante: «Voi vi starete chiedendo dov'era Emilio. Un po' di pazienza e ve lo dirò...»
Ricordo le sue fiabe, che aveva imparato da sua nonna. "C'era una volta una gatta, che scopava la chiesa. Ci ha trovato due soldi. Pensa: mi compro un nastro p'i capille e mi affaccio alla finestra, così trovo marito. Passa il cane: «Buongiorno commare gatt', che fai 'ncopp' a' fenèste?» «Me vuoglie ammaretà... Famme sentì che voce tié!» «Bau, bau!» «Passe 'nnanze che 'nzié pe mme!» e u cane ze ne va. Passa 'u puorche..." Io ridevo alla conclusione della favola, con tutti i pretendenti respinti fino a quando non passava u surge, il topo, il quale veniva invitato con «Viene 'ngoppe, marite mie!» e mangiato senza complimenti dalla gatta, che commentava «Comme sié bbuone, marite mie!». Ridevo, e zia con me.
Uno dei campi in cui la sua attività si esprimeva era la cucina. Era opinione diffusa, e a ragione, che come cucinava Maria non cucinava nessuno. In famiglia si è sempre divisa lo scettro di cuoca a pari merito con zia Lella. Ma se zia Lella era andata verso un'interpretazione più moderna e leggera, le ricette di zia Maria erano pari pari quelle della sua infanzia, soprattutto nelle feste comandate. Le quali erano scandite dalle pietanze di rito: le lasagne in brodo, l'anguilla arrosto, il pane di Pasqua, i fiadoni, la gelatina, i mestacciuole, i peccellate.
Fra i suoi cavalli di battaglia c'erano i panzerotti fritti, dalla pasta sottilissima, che mia sorella era capace di mangiare a decine, e la pasta sfoglia, preparata con la sugna fatta in casa. La ricordo china sul piano di marmo con il fazzoletto rosa scuro che le teneva i capelli e le mani che impastavano, stendevano la sfoglia, la arrotolavano come una stella filante e poi con destrezza la stendevano in un cerchio con il mattarello, in modo che la superficie si sfogliasse a perfezione. La sfoglia si trasformava in pizza rustica, in sfogliatelle di ricotta e crema.
Tutto le riusciva e tutto era squisito, ma la cosa che amava più cucinare era il pesce. Riusciva a cavare zuppe straordinarie dalle qualità più povere. Filippo lo sapeva, quanto le piacesse il pesce. Glielo donava, e a volte si cimentava lui. «Marì, questi moscardini li ho fatti io. Che ne dici?»
Della sua vita, Filippo è un capitolo speciale.
Erano fidanzati. Lui pure era bello, alto alto e sottile sottile, lui pure era elegante, e aveva un sorriso grande. Come lei aveva un romanticismo tutto suo. Zia ricordava quando partì per il militare, e dalla camionetta che accelerava si mise a cantare "Addio mia bella addio, che l'armata se ne va..."
Non si sposarono, a causa di una madre dall'anima nera, la quale non tollerava che il figlio minore si accasasse prima delle figlie. Lui aveva un carattere impulsivo. Finì con lo sposare una donna brutta e gretta, che lo irrideva per il suo mestiere di veterinario. Mia zia decise di dedicarsi alla famiglia, Filippo svanì di scena.
Tornò all'improvviso, poco dopo la morte dei miei nonni. Con discrezione, con speranza. Con un coraggio grande, perché ci vuole coraggio a dire che si è fatto uno sbaglio enorme.
Maria, non ti ho mai dimenticato. Ho divorziato. Ti voglio sposare.
Glielo chiese non una, ma mille volte. La risposta fu sempre la stessa: Filì, che vai dicendo. Siamo due vecchi, tu hai dei figli, non facciamo pagliacciate.
Noi nipoti eravamo felici. Fui io che per la prima volta lo invitai a casa, dove non osava affacciarsi. Eravamo felici delle attenzioni e del garbo che riversava su nostra zia. Eravamo felici di vederli, due ventenni con le rughe che si erano rincontrati. Lui le faceva piccoli doni (che dovevano essere piccoli, altrimenti partiva il rimbrotto), la invitava a pranzo fuori e con lei i nipoti quando c'erano ("Sei sicuro Filì? Te ne tè, a te?", "Marì, tu che dici? Sono io che t'ho invitato!"), era ospite graditissimo in casa, dove non giungeva mai a mani vuote nonostante le proteste.
Imparò presto che le cose più semplici erano le più apprezzate. Una Pasqua si presentò con un raffinato uovo Fabergé, e alla perplessità di zia Maria si precipitò in pasticceria e tornò con l'uovo di cioccolato più grande che aveva trovato. Avrebbe voluto donarle una casa a Termoli, "l'ho presa per quando ci sposeremo". Un appartamentino bellissimo in un paese vicino, piccolo ma arredato con il sommo gusto che gli era proprio, e dove su una parete spiccava il gatto di Buzzati. La risposta, sempre identica: "Filì, n' penzà a me ma ai tuoi figli".
Non volle mai sposarlo, ma gli stette accanto più di una moglie quando lui si ammalò. Il male non lasciava speranze, e quando lo portarono in ospedale zia Maria non lo lasciò solo. Non lo lasciò solo nemmeno negli ultimi momenti. Lui la guardò. "Maria, quanto sei bella, tieni ancora nu belle personale. Quando esco di qui andiamo nella boutique più bella, voglio comprare il vestito che più ti piace e tu te lo metti quando ci sposiamo." "Va bene Filippo. Mi metto il vestito e ci sposiamo..."
Morì contento.
Quanto soffrì per quella morte, zia Maria non lo disse mai. Era una donna che non amava troppe parole, ma quando parlava di lui uscivano i bei ricordi, e quelli di quando erano giovani. Ha tenuto fino all'ultimo una foto che li ritraeva entrambi, nel cassetto nel comodino, e il dono che più aveva gradito, datole per un compleanno: una lastrina d'argento con inciso un calendario, e un pallino accanto alla sua data di nascita.
Quella foto e quel calendario sono con lei.
Per lei i ricordi sono sempre stati un conforto, non una cosa in cui crogiolarsi. I lutti la colpivano, non la piegavano. Neppure il dolore fortissimo della morte di zia Margherita la fermò. Continuò a occuparsi della casa, dei parenti sparsi per il paese, dei nipoti che la andavano a trovare. Senza mai fermarsi. Era sola, ma non era sola.
La andavo a trovare quando potevo, sempre troppo poco, sempre impedita dai collegamenti risibili, da un viaggio in macchina che non finiva mai. Fra i viaggi più belli quelli fatti in occasione della Befana. Lei rideva accogliendo il carro di Tespi composto da me, amato e gatta e condotto dal mio amico Mauro su quelle strade impossibili. Mauro rimase colpito da quella signora anziana che tutto pareva fuorché anziana. E scatenò ancor più le sue risa quando, nonostante il mal di pancia, si fece fuori due piatti di pasta al forno, a riprova che la cucina di zia Maria era irresistibile e così lei.
Quest'ultima Befana non sono andata. Zia aveva un forte mal di schiena, e farle accogliere tre persone, a lei che mai avrebbe voluto essere aiutata, sarebbe stato troppo. L'ho rivista quando sono andata a prendere zia Lella, una sosta breve, troppo breve. Volevo farle una sorpresa per il compleanno, le aveva già preso un regalo, sapendo che le sarebbe piaciuto. Una scatolina di cartone disegnata con una mamma di fine Ottocento e la sua bambina, dove avevo fatto mettere dei cioccolatini Venchi, la marca che zia mangiava da piccola. Non ho fatto in tempo a portarglielo.
Oggi zia avrebbe compiuto ottantacinque anni. Auguri zia. Lucio e io festeggiamo quattro mesi di matrimonio. Stasera apriremo la scatolina, mangeremo due cioccolatini e tu sarai con noi.
Non sei sola. So che ti ha dato il benvenuto un grande comitato d'accoglienza, con zio Michelino a fare battute, zio Antonio a dargli manforte, zia Margherita con il suo sorriso e il suo sguardo. Sono certa che c'è anche Filippo, che ti ha atteso con pazienza per quasi vent'anni.
Una signora del paese ha detto che adesso Maria e Filippo hanno avuto il loro matrimonio. E' vero. Ovunque siano sono sposati, danzano insieme, lui le canta "Parlami d'amore Mariù".
Al funerale sono venuti in tanti a salutare. "Senza Maria songhe sule", senza Maria sono sola, la frase di tante donne che lei chiamava al telefono, che andava a trovare, che accoglieva in casa, una casa dove c'era sempre un piatto e una risposta a una domanda, e dove le persone di ogni età si sentivano ricevute con amore.
Maria era mia amica, ha detto il quarantenne Don Michele che ha officiato la messa: non giudicava e con lei potevi parlare, era sincera, la differenza di età non importava. Il piccolo Diego, arrivato dall'America e portato in visita dallo zio Pietro, appena la vide decise di starle attaccato tutto il tempo, trovando in lei un'istantanea corrispondenza. Rosalia dice che si sente persa ora che non può andarla a trovare la sera. "Mi sento come se avessi perso una mamma".
Siamo noi a essere soli.
Passerà del tempo prima di capire davvero che a quel numero di telefono non risponde nessuno.
Io sono qui, e per questo lei è qui. Ogni volta che preparerò una sua ricetta nelle mie mani ci saranno le sue, ogni volta che passeggerò fra il verde e i fiori primaverili che le piacevano tanto i miei piedi saranno i suoi, ogni volta che canterò una canzone napoletana o della sua gioventù nella mia voce ci sarà la sua. Ogni volta che vedrò qualcosa di cui mi piacerebbe parlarle lei sarà con me.
L'amore è più forte della morte. Non sono sola. Il suo cuore, il suo sorriso erano grandi. Sono un cuore e un sorriso che resteranno finché respiro.
venerdì 2 marzo 2012
Polenta espressa con i funghi
Ragazzi, mi vergogno.
Non che a qualcuno possa interessare che codesto blog venga trascurato, però mi vergogno lo stesso. Oltre agli strati di muffa di queste pagine, il visitatore che passa di qui e garbatamente mi lascia un commento si deve pure scontrare con la maleducazione - involontaria, per carità, ma come dicono gli stellestrisciuti innocence is no excuse - della sottoscritta, che se risponde lo fa dopo mesi.
Pertanto mi verso una palata di cenere sulla zucca (metaforica, ché mi son lavata stamane i capelli ed essendo gli stessi parecchio lunghi non c'ho il fegato di affrontare due volte nello stesso giorno la tortuna del phon), do un'altrettanto metaforica pedata alla mia proverbiale pigrizia e, profittando del fatto che il mio amato bene more solito tornerà dall'ufficio a orario improbabile, vi propongo questa ricettella che sarà forse adatta all'uopo, giacché mi si dice che il tempo questo weekend, mannaggia a lui, virerà di nuovo verso il freddo.
Detta ricetta è stata da me sperimentata nei giorni di quella bella nevicata che ha coperto la Capitale, ha messo in evidenza la bontà della macchina organizzativa dell'amministrazione comunale e ha fatto altresì modo che amici e parenti si scatenassero ai fornelli facendo polente assortite una sera sì e l'altra pure, postando appetitose foto su quel noto social network e facendomi venire un pititto lupigno ogni sera al ritorno da lavoro. Pititto lupigno destinato a rimanere insoddisfatto, giacché pure la sottoscritta torna a casa a orari improbabili, e mi era ben noto che per fare la polenta devi stare ai fornelli come un baccalà a rimestare per un'ora buona.
Poiché però si sa che miseria e fame aguzzano l'ingegno, nonostante la già citata pigrizia mi son messa a cercare per ogni dove se fosse possibile preparare la pietanza senza stare a guardia del paiolo stile strega del Macbeth. E son stata assai lieta di scoprire che sì, è possibile, e che i risultati sono sorprendenti.
Ringrazio pertanto la contadina del mio paesello che mi ha illuminato, e vi metto a parte di questo metodo geniale che costa zero fatica, e vi permetterà di servire una polenta comme il faut senza che vi vengano due avambracci da fabbro ferraio e in un'oretta o poco più di tempo.
Ingredienti & strumenti
Per la polenta:
250 grammi di farina di mais
un litro d'acqua
sale quanto basta
una pentola antiaderente con il fondo bello spesso
coperchio di vetro atto a coprire la precedente
un colino o setaccio a trama fitta
frullatore a immersione (facoltativo, ma utile assai) o una frusta
Per il contorno:
300 grammi di funghi orecchioni, o pleurotus che dir si voglia
uno spicchio d'aglio
un paio di cucchiai d'olio
un cucchiaino da tè di brodo vegetale granulare di quello buono
padella capiente e antiaderente
adeguato coperchio di vetro
Preparazione:
mettete il litro d'acqua nella citata pentola, coprite con il coperchio di vetro e mettetela su fuoco vivace. Solo dopo che si è messa a bollire aggiungete il sale (sennò per far alzare il bollore rischiate di mettere il muschio) e attendete che riprenda a borbottare con gagliardìa.
A quel punto fateci cadere a pioggia la farina facendola passare attraverso il colino o setaccio e, onde evitare la formazione dei grumi malefici, girate il composto con la frusta oppure impiegate il frullatore a immersione facendo attenzione agli schizzi bollenti.
Scrutate quindi con somma attenzione la superficie: non appena vedete il primo "pop!" abbassate la fiamma al minimo, coprite con il coperchio di vetro e lasciate la pentola in pace senza toccarla per un'ora. E non fatevi prendere dalla tentazione di alzare il coperchio perché deve essere lasciata rigorosamente per fatti suoi.
Nel frattempo preparate i funghi: togliete i gambi che sono notoriamente duri come serci, fateli a pezzetti con le mani, dategli una sciacquatina sotto il rubinetto e metteteli in padella a cuocere a fuoco minimo con l'olio, l'aglio che avrete pelato, privato del germoglio e tritato finemente e il cucchiaino di brodo vegetale in polvere. Non aggiungete acqua ché i funghi ne cacceranno a iosa, e lasciate stufare paciosamente sotto il coperchio di vetro per una ventina di minuti almeno.
Nel frattempo che il tutto cuoce voi ovviamente vi farete in santa pace i fatti vostri, ché dopo una giornata di lavoro, sia esso casalingo o d'ufficio o di qualsivoglia natura, vi spetta questo e altro.
Scaduta l'ora potete sollevare il coperchio della pentola: scoprirete che la polenta si è cotta a puntino. Ma veramente a puntino. E se non farete "uuuuh" come la sottoscritta sappiate che vi invidio perché avete evidentemente raggiunto l'imperturbabilità di un santone indiano.
A quel punto versate la polenta in un bel piatto capace, metteteci su i funghi con il loro bel sughetto e portate in tavola. E se non avete fatto "uuuh" voi prima, sappiate che lo faranno certamente i vostri commensali.
L'unica magagna che potreste incontrare è che il fondo della vostra pentola potrebbe essere coperto da una crosticina di polenta bella tosta: vi basterà riempirla d'acqua, lasciarla tranquilla una notte e al mattino dopo la laverete fischiando e cantando.
Se invece, come la sottoscritta, avete la fortuna di avere una bella pentola della Ballarini (che la mitica zia Lella mi ha regalato cinque anni fa e che, nonostante l'uso selvaggio che ne faccio, non ha un segnetto manco a pagarlo oro), sappiate che non vi sarà traccia di crosticina.
La potrete pertanto affidare a cuor leggero al lavello, alla lavastoviglie o, se avete accanto un sant'uomo come il mio, al vostro amato bene che sarà ben lieto di rigovernare i piatti visto che voi avete fatto la fatica di cucinare e dopo pochi minuti potrà raggiungervi sul divano per proseguire la serata in letizia.
Non che a qualcuno possa interessare che codesto blog venga trascurato, però mi vergogno lo stesso. Oltre agli strati di muffa di queste pagine, il visitatore che passa di qui e garbatamente mi lascia un commento si deve pure scontrare con la maleducazione - involontaria, per carità, ma come dicono gli stellestrisciuti innocence is no excuse - della sottoscritta, che se risponde lo fa dopo mesi.
Pertanto mi verso una palata di cenere sulla zucca (metaforica, ché mi son lavata stamane i capelli ed essendo gli stessi parecchio lunghi non c'ho il fegato di affrontare due volte nello stesso giorno la tortuna del phon), do un'altrettanto metaforica pedata alla mia proverbiale pigrizia e, profittando del fatto che il mio amato bene more solito tornerà dall'ufficio a orario improbabile, vi propongo questa ricettella che sarà forse adatta all'uopo, giacché mi si dice che il tempo questo weekend, mannaggia a lui, virerà di nuovo verso il freddo.
Detta ricetta è stata da me sperimentata nei giorni di quella bella nevicata che ha coperto la Capitale, ha messo in evidenza la bontà della macchina organizzativa dell'amministrazione comunale e ha fatto altresì modo che amici e parenti si scatenassero ai fornelli facendo polente assortite una sera sì e l'altra pure, postando appetitose foto su quel noto social network e facendomi venire un pititto lupigno ogni sera al ritorno da lavoro. Pititto lupigno destinato a rimanere insoddisfatto, giacché pure la sottoscritta torna a casa a orari improbabili, e mi era ben noto che per fare la polenta devi stare ai fornelli come un baccalà a rimestare per un'ora buona.
Poiché però si sa che miseria e fame aguzzano l'ingegno, nonostante la già citata pigrizia mi son messa a cercare per ogni dove se fosse possibile preparare la pietanza senza stare a guardia del paiolo stile strega del Macbeth. E son stata assai lieta di scoprire che sì, è possibile, e che i risultati sono sorprendenti.
Ringrazio pertanto la contadina del mio paesello che mi ha illuminato, e vi metto a parte di questo metodo geniale che costa zero fatica, e vi permetterà di servire una polenta comme il faut senza che vi vengano due avambracci da fabbro ferraio e in un'oretta o poco più di tempo.
Ingredienti & strumenti
Per la polenta:
250 grammi di farina di mais
un litro d'acqua
sale quanto basta
una pentola antiaderente con il fondo bello spesso
coperchio di vetro atto a coprire la precedente
un colino o setaccio a trama fitta
frullatore a immersione (facoltativo, ma utile assai) o una frusta
Per il contorno:
300 grammi di funghi orecchioni, o pleurotus che dir si voglia
uno spicchio d'aglio
un paio di cucchiai d'olio
un cucchiaino da tè di brodo vegetale granulare di quello buono
padella capiente e antiaderente
adeguato coperchio di vetro
Preparazione:
mettete il litro d'acqua nella citata pentola, coprite con il coperchio di vetro e mettetela su fuoco vivace. Solo dopo che si è messa a bollire aggiungete il sale (sennò per far alzare il bollore rischiate di mettere il muschio) e attendete che riprenda a borbottare con gagliardìa.
A quel punto fateci cadere a pioggia la farina facendola passare attraverso il colino o setaccio e, onde evitare la formazione dei grumi malefici, girate il composto con la frusta oppure impiegate il frullatore a immersione facendo attenzione agli schizzi bollenti.
Scrutate quindi con somma attenzione la superficie: non appena vedete il primo "pop!" abbassate la fiamma al minimo, coprite con il coperchio di vetro e lasciate la pentola in pace senza toccarla per un'ora. E non fatevi prendere dalla tentazione di alzare il coperchio perché deve essere lasciata rigorosamente per fatti suoi.
Nel frattempo preparate i funghi: togliete i gambi che sono notoriamente duri come serci, fateli a pezzetti con le mani, dategli una sciacquatina sotto il rubinetto e metteteli in padella a cuocere a fuoco minimo con l'olio, l'aglio che avrete pelato, privato del germoglio e tritato finemente e il cucchiaino di brodo vegetale in polvere. Non aggiungete acqua ché i funghi ne cacceranno a iosa, e lasciate stufare paciosamente sotto il coperchio di vetro per una ventina di minuti almeno.
Nel frattempo che il tutto cuoce voi ovviamente vi farete in santa pace i fatti vostri, ché dopo una giornata di lavoro, sia esso casalingo o d'ufficio o di qualsivoglia natura, vi spetta questo e altro.
Scaduta l'ora potete sollevare il coperchio della pentola: scoprirete che la polenta si è cotta a puntino. Ma veramente a puntino. E se non farete "uuuuh" come la sottoscritta sappiate che vi invidio perché avete evidentemente raggiunto l'imperturbabilità di un santone indiano.
A quel punto versate la polenta in un bel piatto capace, metteteci su i funghi con il loro bel sughetto e portate in tavola. E se non avete fatto "uuuh" voi prima, sappiate che lo faranno certamente i vostri commensali.
L'unica magagna che potreste incontrare è che il fondo della vostra pentola potrebbe essere coperto da una crosticina di polenta bella tosta: vi basterà riempirla d'acqua, lasciarla tranquilla una notte e al mattino dopo la laverete fischiando e cantando.
Se invece, come la sottoscritta, avete la fortuna di avere una bella pentola della Ballarini (che la mitica zia Lella mi ha regalato cinque anni fa e che, nonostante l'uso selvaggio che ne faccio, non ha un segnetto manco a pagarlo oro), sappiate che non vi sarà traccia di crosticina.
La potrete pertanto affidare a cuor leggero al lavello, alla lavastoviglie o, se avete accanto un sant'uomo come il mio, al vostro amato bene che sarà ben lieto di rigovernare i piatti visto che voi avete fatto la fatica di cucinare e dopo pochi minuti potrà raggiungervi sul divano per proseguire la serata in letizia.
mercoledì 12 ottobre 2011
Cotognata in barattolo e in forma
Dopo sì lunga assenza da queste blog colpevolmente negletto, mi pare cosa giusta fare una rentrée con una delle ricette più apprezzate del patrimonio familiare.
La cotognata a casa mia si fa infatti da sempre: in versione marmellata da mettere sul pane o in mezzo alle ostie o per farcire una crostata di pastafrolla, o più spesso in forma, impiegando allo scopo delle formine di latta che mi ricordo fin dalla più tenera età non solo io, ma pure le zie.
La mia prediletta è sempre stata quella che rappresenta una bella triglia, cosa che la zia Lella sa bene. Quando nell'ormai lontano anno 1994 mi trovai a passare un gelido inverno in Olanda, nella casa dove soggiornavo arrivò un bel pacco di generi vari e, davanti ai miei perplessi coinquilini batavi, dovetti spiegare la commozione che mi avevo preso a leggere su un contenitore di plastica "Cotognata (a lato c'è il pesciolino)". E per quanto possa sembrare strana ai più l'idea che la cotognata possa essere un comfort food, a me basta un morso per sentirmi di nuovo nella cucina del paese davanti alla stufa che scoppietta, mi trovassi pure a Katmandu o persino in quel dell'Olanda afflitta - la sottoscritta, non la Batavia - dall'inverno più freddo dal Dopoguerra, dalla tipica simpatia dello Jan Kaas medio e dall'irrisione dello Jan Kaas medio e non nei confronti della classe politica italiana e di un suo certo rappresentante in particolare. Ma sto divagando come di consueto.
Le ricette di cotognata più un voga suggeriscono una vagonata di zucchero e l'impiego del setaccio fine. Quella di famiglia è più spiccia e meno dolce, ma proprio per questo vi permetterà di assaporare le cotogne come si confà.
Un solo consiglio: provvedete ad avere con voi un maschio dalle mani grandi e toste, ché ne avrete bisogno, soprattutto quest'anno e alle latitudini della Capitale. Se poi disponete di una quantità notevole di frutta e la vostra cucina è da puffi come la mia, chiedete a qualche persona di buon cuore se vi può ospitare nella sua: io ho chiesto asilo alla zia Lella, altrimenti mi sarei trovata sommersa dagli scarti.
Ingredienti:
cotogne, mele o pere che siano, a volontà
zucchero, 250 grammi per ogni chilo di polpa di frutta
il succo di un limone ogni due chili di polpa di frutta
Strumenti:
un vecchio paiolo
un passaverdure
una pentola dal fondo spesso
formine di coccio o metallo per alimenti
Preparazione:
armatevi di pazienza. Tanta, tanta pazienza. E fate pace con la consapevolezza che a fine lavoro le vostre mani si lamenteranno come prefiche. Ciò perché le cotogne sono di polpa legnosa e toste da non dirsi, e dovrete usare il coltello a mo' di mannaia. Impiegate il maschio dalle mani robuste allo scopo, e voi dedicatevi allo sbucciamento e detorsolatura. Anche questa operazione vi costerà un bel po' di fatica, soprattutto come già detto quest'anno e in zona Capitale: ciò perché causa clima bizzarro le cotogne stan cadendo tutte dagli alberi senza giungere a piena maturazione e i più diversi generi di parassiti per via del suddetto clima hanno avuto bell'agio di andare all'attacco. Fate un bel respiro e andate all'attacco voi: quando si fa la cotognata resta comunque sul campo una quantità di scarto impressionante anche nelle annate migliori, per cui la differenza sarà minima.
Mettete quindi i pezzetti di cotogne pulite in un paiolo, aggiungete un mezzo bicchiere d'acqua, coprite e fate cuocere a fuoco lento finché non si ammorbidiscono. Nel caso si trattasse di mele e pere, sappiate che non c'è differenza reale fra le due se non per il tipo di innesto: a voi la scelta se cuocerle tutte assieme o separatamente, tenendo conto che secondo alcune scuole di pensiero la cotognata di pere ha un sapore e un colore più delicati, e secondo altre son sciocchezze buone solo per coloro che spacciano le pere cotogne a prezzo superiore.
Una volta che sono belle morbide toglietele dal fuoco, fatele intiepidire e quindi passatale fino a ridurle in crema. La old school dice che è necessario il setaccio di crine della nonna, secondo me se usate il passaverdure ci mettete meno tempo, vi stressate di meno e vi verranno benissimo lo stesso. E' in questo momento che avrete bell'agio di apprezzare i risultati della fatica fatta al momento della pulitura: essendo già al netto dello scarto, la polpa vi darà un'idea alquanto precisa della quantità di marmellata che potrete ricavare. In sostanza, what you see is what you get.
Pesata la polpa calcolate quindi la giusta quantità di zucchero, e una parte dello stesso (circa un terzo) mettetelo nella pentola dal fondo spesso insieme a un mezzo bicchiere d'acqua. Ponete quindi il tegame sul fuoco basso e aspettate che lo zucchero si sciolga nell'acqua: il risultato deve essere uno sciroppo piuttosto liquido.
Fatto ciò, aggiungete nella pentola la polpa di cotogne e il restante zucchero e fate amalgamare il tutto ben bene mescolando con il fedele cucchiaio di legno. Rimettete quindi su fuoco basso, aggiungete il succo di limone e rassegnatevi all'idea di rimestare di frequente il composto finché lo stesso non si appiccica con gagliardìa alla cucchiarella.
Versate quindi la marmellata nel necessario numero di barattoli, provvedendo a capovolgerli una volta chiusi perché il calore provvederà a una spiccia sterilizzazione.
La fatica termina qui se avete optato per la sola marmellata, continua invece se avete deciso di fare anche o solo le formine. Qui la faccenda si fa più complicata, perché intuire quando il composto è pronto all'uso non è immediato e ci può volere lungo tempo di cottura: sappiate comunque che un buon indicatore è quando la marmellata si stacca senza difficoltà da pareti mentre state mescolando - perché, come non mai, qui vi tocca andar di cucchiara pena orribili sentori di bruciaticcio che sciuperebbero il tutto.
Preparate tante formine quante sono necessarie (se avete quelle magnifiche di coccio che si usano in Sicilia - ricordo ancora quando le vidi a casa della mia amica Paola, con il suo papà che me ne spiegò l'impiego mentre io, che le avevo scambiate per posacenere, diventavo alta come un puffo - adoperate quelle, sennò van bene quelle di metallo), oliatele accuratamente, metteteci con l'aiuto di un cucchiaio la giusta quantità di cotognata facendo attenzione a non scottarvi e livellate la superficie con il cucchiaio stesso dopo averlo bagnato. Qui sotto vedete la parata di formine da me relizzate. E no, non c'è il pesciolino, gelosamente conservato nella dispensa del paese dove è giusto che sia.
Dopo ventiquattr'ore controllate se la cotognata si è rassodata come si confà: se così non fosse, con santa pazienza rimettete il tutto in pentola e fate cuocere almeno per mezz'ora, quindi ripetete la procedura. E non fate quella faccia, ché dopo ciò il risultato è sicuro.
La cotognata in barattolo sarà eccellente sola o come ripieno per dolci, quella in forma si presterà a diverse combinazioni, fra cui quella, di gran moda da qualche tempo (il che spiega perché le cotogne e derivati siano giunti a prezzi vertiginosi), di accompagnarla a fettine di formaggio piccante e ben stagionato.
Potrete pertanto a seconda dei casi rendere lieta una comitiva di nipotini golosi di torte, fare una bella merenda tradizionale con i vostri cari, stupire a cena il commensale che si dà arie da raffinato con un antipasto assai più fine di lui, e così via.
In frigo all'interno di appositi contenitori e separate da carta da forno, le formine si conserveranno agevolmente per più mesi.
A ridosso delle feste di Natale potete quindi, nel caso che ne aveste ancora, acconciare un regalino tipico adagiandone un tot su un piatto o vassoio di terracotta da avvolgere con carta trasparente ben infiocchettata.
I buongustai gradiranno molto, voi ci farete in figurone, e converrete che sì, fare la cotognata sarà pure una fatica belva, ma ne vale davvero la pena.
La cotognata a casa mia si fa infatti da sempre: in versione marmellata da mettere sul pane o in mezzo alle ostie o per farcire una crostata di pastafrolla, o più spesso in forma, impiegando allo scopo delle formine di latta che mi ricordo fin dalla più tenera età non solo io, ma pure le zie.
La mia prediletta è sempre stata quella che rappresenta una bella triglia, cosa che la zia Lella sa bene. Quando nell'ormai lontano anno 1994 mi trovai a passare un gelido inverno in Olanda, nella casa dove soggiornavo arrivò un bel pacco di generi vari e, davanti ai miei perplessi coinquilini batavi, dovetti spiegare la commozione che mi avevo preso a leggere su un contenitore di plastica "Cotognata (a lato c'è il pesciolino)". E per quanto possa sembrare strana ai più l'idea che la cotognata possa essere un comfort food, a me basta un morso per sentirmi di nuovo nella cucina del paese davanti alla stufa che scoppietta, mi trovassi pure a Katmandu o persino in quel dell'Olanda afflitta - la sottoscritta, non la Batavia - dall'inverno più freddo dal Dopoguerra, dalla tipica simpatia dello Jan Kaas medio e dall'irrisione dello Jan Kaas medio e non nei confronti della classe politica italiana e di un suo certo rappresentante in particolare. Ma sto divagando come di consueto.
Le ricette di cotognata più un voga suggeriscono una vagonata di zucchero e l'impiego del setaccio fine. Quella di famiglia è più spiccia e meno dolce, ma proprio per questo vi permetterà di assaporare le cotogne come si confà.
Un solo consiglio: provvedete ad avere con voi un maschio dalle mani grandi e toste, ché ne avrete bisogno, soprattutto quest'anno e alle latitudini della Capitale. Se poi disponete di una quantità notevole di frutta e la vostra cucina è da puffi come la mia, chiedete a qualche persona di buon cuore se vi può ospitare nella sua: io ho chiesto asilo alla zia Lella, altrimenti mi sarei trovata sommersa dagli scarti.
Ingredienti:
cotogne, mele o pere che siano, a volontà
zucchero, 250 grammi per ogni chilo di polpa di frutta
il succo di un limone ogni due chili di polpa di frutta
Strumenti:
un vecchio paiolo
un passaverdure
una pentola dal fondo spesso
formine di coccio o metallo per alimenti
Preparazione:
armatevi di pazienza. Tanta, tanta pazienza. E fate pace con la consapevolezza che a fine lavoro le vostre mani si lamenteranno come prefiche. Ciò perché le cotogne sono di polpa legnosa e toste da non dirsi, e dovrete usare il coltello a mo' di mannaia. Impiegate il maschio dalle mani robuste allo scopo, e voi dedicatevi allo sbucciamento e detorsolatura. Anche questa operazione vi costerà un bel po' di fatica, soprattutto come già detto quest'anno e in zona Capitale: ciò perché causa clima bizzarro le cotogne stan cadendo tutte dagli alberi senza giungere a piena maturazione e i più diversi generi di parassiti per via del suddetto clima hanno avuto bell'agio di andare all'attacco. Fate un bel respiro e andate all'attacco voi: quando si fa la cotognata resta comunque sul campo una quantità di scarto impressionante anche nelle annate migliori, per cui la differenza sarà minima.
Mettete quindi i pezzetti di cotogne pulite in un paiolo, aggiungete un mezzo bicchiere d'acqua, coprite e fate cuocere a fuoco lento finché non si ammorbidiscono. Nel caso si trattasse di mele e pere, sappiate che non c'è differenza reale fra le due se non per il tipo di innesto: a voi la scelta se cuocerle tutte assieme o separatamente, tenendo conto che secondo alcune scuole di pensiero la cotognata di pere ha un sapore e un colore più delicati, e secondo altre son sciocchezze buone solo per coloro che spacciano le pere cotogne a prezzo superiore.
Una volta che sono belle morbide toglietele dal fuoco, fatele intiepidire e quindi passatale fino a ridurle in crema. La old school dice che è necessario il setaccio di crine della nonna, secondo me se usate il passaverdure ci mettete meno tempo, vi stressate di meno e vi verranno benissimo lo stesso. E' in questo momento che avrete bell'agio di apprezzare i risultati della fatica fatta al momento della pulitura: essendo già al netto dello scarto, la polpa vi darà un'idea alquanto precisa della quantità di marmellata che potrete ricavare. In sostanza, what you see is what you get.
Pesata la polpa calcolate quindi la giusta quantità di zucchero, e una parte dello stesso (circa un terzo) mettetelo nella pentola dal fondo spesso insieme a un mezzo bicchiere d'acqua. Ponete quindi il tegame sul fuoco basso e aspettate che lo zucchero si sciolga nell'acqua: il risultato deve essere uno sciroppo piuttosto liquido.
Fatto ciò, aggiungete nella pentola la polpa di cotogne e il restante zucchero e fate amalgamare il tutto ben bene mescolando con il fedele cucchiaio di legno. Rimettete quindi su fuoco basso, aggiungete il succo di limone e rassegnatevi all'idea di rimestare di frequente il composto finché lo stesso non si appiccica con gagliardìa alla cucchiarella.
Versate quindi la marmellata nel necessario numero di barattoli, provvedendo a capovolgerli una volta chiusi perché il calore provvederà a una spiccia sterilizzazione.
La fatica termina qui se avete optato per la sola marmellata, continua invece se avete deciso di fare anche o solo le formine. Qui la faccenda si fa più complicata, perché intuire quando il composto è pronto all'uso non è immediato e ci può volere lungo tempo di cottura: sappiate comunque che un buon indicatore è quando la marmellata si stacca senza difficoltà da pareti mentre state mescolando - perché, come non mai, qui vi tocca andar di cucchiara pena orribili sentori di bruciaticcio che sciuperebbero il tutto.
Preparate tante formine quante sono necessarie (se avete quelle magnifiche di coccio che si usano in Sicilia - ricordo ancora quando le vidi a casa della mia amica Paola, con il suo papà che me ne spiegò l'impiego mentre io, che le avevo scambiate per posacenere, diventavo alta come un puffo - adoperate quelle, sennò van bene quelle di metallo), oliatele accuratamente, metteteci con l'aiuto di un cucchiaio la giusta quantità di cotognata facendo attenzione a non scottarvi e livellate la superficie con il cucchiaio stesso dopo averlo bagnato. Qui sotto vedete la parata di formine da me relizzate. E no, non c'è il pesciolino, gelosamente conservato nella dispensa del paese dove è giusto che sia.
Dopo ventiquattr'ore controllate se la cotognata si è rassodata come si confà: se così non fosse, con santa pazienza rimettete il tutto in pentola e fate cuocere almeno per mezz'ora, quindi ripetete la procedura. E non fate quella faccia, ché dopo ciò il risultato è sicuro.
La cotognata in barattolo sarà eccellente sola o come ripieno per dolci, quella in forma si presterà a diverse combinazioni, fra cui quella, di gran moda da qualche tempo (il che spiega perché le cotogne e derivati siano giunti a prezzi vertiginosi), di accompagnarla a fettine di formaggio piccante e ben stagionato.
Potrete pertanto a seconda dei casi rendere lieta una comitiva di nipotini golosi di torte, fare una bella merenda tradizionale con i vostri cari, stupire a cena il commensale che si dà arie da raffinato con un antipasto assai più fine di lui, e così via.
In frigo all'interno di appositi contenitori e separate da carta da forno, le formine si conserveranno agevolmente per più mesi.
A ridosso delle feste di Natale potete quindi, nel caso che ne aveste ancora, acconciare un regalino tipico adagiandone un tot su un piatto o vassoio di terracotta da avvolgere con carta trasparente ben infiocchettata.
I buongustai gradiranno molto, voi ci farete in figurone, e converrete che sì, fare la cotognata sarà pure una fatica belva, ma ne vale davvero la pena.
lunedì 9 maggio 2011
La gattorta di Gelsomina
Lo so: oramai aggiorno il blog ogni beatificazione di papa.
Me ne scuso ancora una volta. E' che di tempo proprio non ne ho. E quel poco tempo libero che resta dopo il lavoro e impegni vari, lo dedico alla mia famigliola. Sapete com'è, un masculo bipede e una femminella quattrozampe han le loro esigenze, e mi pare doveroso sopperirvi.
Però oggi cinque minuti me li prendo e condivido un evento assai importante per la succitata famigliola. Ieri la gatta Gelsomina ha compiuto un anno. La data l'abbiamo scelta per convenzione: Minarella la abbiamo trovata in strada lo scorso 8 luglio e il veterinario ci ha detto che l'allora cucciolina aveva due mesi. Pertanto, abbiamo fissato il suo compleanno all'8 maggio.
Una festa grande, che abbiamo condiviso gioiosamente con i nostri amici gattari.
La torta che vedete è molto semplice e lesta a farsi, con pasta sfoglia già pronta e crema chantilly: il procedimento lo trovate qui, e si presta ovviamente a infinite variazioni. Nel caso specifico, mi sono divertita con confettini e decorazioni di zucchero, e il musino micioso l'ho fatto con la nutella e della gelatina rosa impiegando una comune siringa per dolci con bocchetta liscia di piccole dimensioni: una comoda soluzione nel caso non si riesca a trovare la famosa matita del pasticcere.
Alcuni mi faranno gli occhiacci perché ho fatto una torta per festeggiare il compleanno di "una bestia". Io dal canto mio so, come sa chiunque ne abbia in casa una, che i quattrozampe sono parte della famiglia a pieno diritto, e diventano come dei figli. Gelsomina da quando è arrivata ha reso la mia vita più bella, e festeggiare il suo compleanno è solo un piccolo modo per dirle grazie di tutto quello che mi ha donato e mi dona ogni giorno.
E grazie a Giulia, Paolo, Marco, Cionzo e al leggendario Dottor P (il quale ha partecipato nonostante con i gatti vada non proprio d'accordo) per aver condiviso la festa, e per i bellissimi regali che hanno fatto alla nostra amata "mina vagante", e ai suoi genitori.
Me ne scuso ancora una volta. E' che di tempo proprio non ne ho. E quel poco tempo libero che resta dopo il lavoro e impegni vari, lo dedico alla mia famigliola. Sapete com'è, un masculo bipede e una femminella quattrozampe han le loro esigenze, e mi pare doveroso sopperirvi.
Però oggi cinque minuti me li prendo e condivido un evento assai importante per la succitata famigliola. Ieri la gatta Gelsomina ha compiuto un anno. La data l'abbiamo scelta per convenzione: Minarella la abbiamo trovata in strada lo scorso 8 luglio e il veterinario ci ha detto che l'allora cucciolina aveva due mesi. Pertanto, abbiamo fissato il suo compleanno all'8 maggio.
Una festa grande, che abbiamo condiviso gioiosamente con i nostri amici gattari.
La torta che vedete è molto semplice e lesta a farsi, con pasta sfoglia già pronta e crema chantilly: il procedimento lo trovate qui, e si presta ovviamente a infinite variazioni. Nel caso specifico, mi sono divertita con confettini e decorazioni di zucchero, e il musino micioso l'ho fatto con la nutella e della gelatina rosa impiegando una comune siringa per dolci con bocchetta liscia di piccole dimensioni: una comoda soluzione nel caso non si riesca a trovare la famosa matita del pasticcere.
Alcuni mi faranno gli occhiacci perché ho fatto una torta per festeggiare il compleanno di "una bestia". Io dal canto mio so, come sa chiunque ne abbia in casa una, che i quattrozampe sono parte della famiglia a pieno diritto, e diventano come dei figli. Gelsomina da quando è arrivata ha reso la mia vita più bella, e festeggiare il suo compleanno è solo un piccolo modo per dirle grazie di tutto quello che mi ha donato e mi dona ogni giorno.
E grazie a Giulia, Paolo, Marco, Cionzo e al leggendario Dottor P (il quale ha partecipato nonostante con i gatti vada non proprio d'accordo) per aver condiviso la festa, e per i bellissimi regali che hanno fatto alla nostra amata "mina vagante", e ai suoi genitori.
domenica 20 marzo 2011
Caveciune (ravioli fritti ripieni di ceci)
Questa ricetta, lo dedurrete dal ripieno, è un dolce contadino di origine secolare.
Da noi, come saprà chi dei miei ventiquattro lettori ha avuto occasione l'anno scorso di leggere la descrizione della festa di san Giuseppe al mio paese, si fanno per l'appunto in occasione della ricorrenza del santo falegname.
Ricorrenza a cui quest'anno avevo tutta l'intenzione di partecipare. C'erano tutte le condizioni per farlo, visto che cadeva in corrispondenza del ponte, ed erano mesi che mi preparavo giuliva. Peccato che la legge di Murphy abbia ben pensato di dire la sua sotto forma di uno di quei bei raffreddori di fine inverno. Cui, per gradire, si è sommata la schiena che ha fatto cilecca.
Sicché, anziché un bel viaggetto in quel del paesello (il quale viaggetto, mi è stato riferito, sarebbe stato funestato dal fatto che il trenino spolmonato sulla linea Urbe-Sannio ha fatto cilecca peggio della mia schiena: ma questo fra parentesi), mi son goduta quattro giorni in puro stile lazzaretto. E prima o poi qualcuno mi dovrà spiegare perché nove volte su dieci mi ammalo in corrispondenza delle ferie, ma pure questo fra parentesi, e fine della geremiade.
Se non altro, mi sono goduta i piatti tipici della festa grazie alla zia Lella: maccarun' c'a meglìche, pezzènd, sc'rpèll e non da ultimo i caveciune. Questi ultimi li ho fatti con la gentile collaborazione della zia lo scorso weekend in un momento di rara libertà, per fare in modo che pure i miei potessero gustarseli, se non nella data canonica, almeno a ridosso: è infatti una di quelle pietanze che se si fanno in almeno due persone è meglio, giacché la preparazione se non è lunga una quaresima poco ci manca. Visto che il viaggio al paese almeno a questo giro è andato giù per il secchio, è stata occasione perché li gustassimo pure io e l'amato bene. Ed è stata consolazione non magra: perché i caveciune sono buoni da non dirsi.
La ricetta che vi propongo è quella della mia famiglia, e tradisce le sue origini borghesi nell'impiego del cacao: quelli contadini, ovviamente, non lo prevedevano causa i costi proibitivi dello stesso. Va detto che un purista ad assaggiare quelli che escono oggi dalle cucine del mio paese verrebbe colto da catalessi: causa il benessere seguito al boom economico il ripieno prevede ora, a seconda dei casi e dei gusti, l'aggiunta di noci, nocciole, mosto cotto, cioccolato fondente e cioccolato bianco (ingrediente, quest'ultimo, da far venire la catalessi anche a chi non sia purista). Personalmente ritengo che miele e cacao bastino e soperchino per arricchire i ceci, pertanto la ricetta della mia nonnina resta a mio avviso insuperabile: e chi arriccia il naso al pensiero di mangiare un dolce ripieno di legumi, sia pronto a stupirsi.
Ingredienti:
300 grammi di farina
4 cucchiai di olio
2 cucchiai di olio
una tazzina da caffè scarsa di vino bianco
acqua tiepida quanto basta
olio di semi per friggere
500 grammi di ceci da lessare
un cucchiaio di cacao amaro
un cucchiaio colmo di miele
Preparazione:
per iniziare mettete a bagno i ceci col solito pizzico di bicarbonato, lasciateli ammollo una notte intera, quindi lavateli per bene sotto l'acqua corrente e metteteli a lessare (se disponete di una pentola a pressione usatela, ché vi risparmierà di tempo e di bolletta) fino a quando non sono ben cotti. Qualcuno osserverà che impiegare i ceci in lattina accorcerebbe di gran lunga la preparazione, ma le mie zie gli farebbero giustamente gli occhiacchi, giacché i legumi già cotti sono gustosi quanto il polistirolo: armatevi di santa pazienza e seguite il metodo classico.
Cotti i ceci, s'ha da ridurli in crema: e allo scopo una volta tanto non vi suggerisco l'amato frullatore a immersione, bensì il setaccio o meglio ancora il passaverdura. In tal modo eliminerete le bucce dei legumi (operazione che, vi avverto, tramuta anche il più educato in un camallo genovese e produce una quantità inverosimile di scarto), ottenendo un passato che vi permetterà di incorporare il miele e il cacao senza problemi.
Alla fine, la crema di ceci doverosamente addizionata dovrà essere cremosa ma bella compatta, come da foto: lasciatela riposare e dedicatevi alla preparazione della pasta.
Mettete la farina a fontana con all'interno l'uovo, l'olio, il vino e l'acqua tiepida e attaccate a impastare con gagliardìa. Quando sentite che la pasta è liscia ed elastica potete smettere di manipolarla: prendete un coltello e dal panetto tagliate via man mano delle fette per stendere la sfoglia, provvedendo ad appiattirle prima di andare all'attacco, a seconda della perizia e dell'abitudine, o con il matterello o con l'apposita macchinetta (in questo secondo caso partite dal primo buco, passate poi al secondo e da ultimo impiegate il quinto).
Stesa la sfoglia (che dovrà essere spessa un millimetro) tagliatela in tanti quadrotti di circa dieci centimetri di lato, tirate lievemente la pasta per allargarla appena badando bene a non romperla, quindi poggiate al centro un cucchiaino di ripieno.
Il procedimento è tal quale quello per fare i ravioli: ripiegate il lato inferiore sul ripieno e saldate quindi entrambi i lati premendo delicatamente con le dita.
In ultimo rifilate con la rotella tagliapasta, e se volete essere sicuri che il ripieno non scappi via al momento della frittura pressate con la parte piatta della stessa intorno ai bordi. Voilà!
Dopo tanto faticare è arrivato il momento della frittura: e per non perdere il tempo e il ritmo, è santa cosa se qualcuno vi si dedica man mano che voi approntate i caveciune. Detta frittura è meglio farla con olio di semi anziché di oliva, o i dolci vi verranno leggeri come i sassi che costellano il letto del torrente Cigno.
Per far sì che la cottura venga a puntino impiegate una pentola e non la solita padella, in modo che il caveciune al momento del tuffo si trovi completamente immerso: quando salirà su bello panciuto, rigirandosi stile cetaceo in vena di giocare e dorato come una giornata estiva, è pronto per essere preso con la schiumarola (attenzione allo schizzo in agguato) e deposto su un bel letto di carta assorbente.
Con le dosi prescritte vi verranno una quarantina di caveciune, quantità che non basterebbe mai a sopperire alle esigenze di chi prepara la tavola di San Giuseppe ma che sarà più che sufficiente nel caso vogliate proporli come dessert a una bella tavolata di amici per coronare una cena tipica.
Avrete il duplice piacere di un applauso, e di una pletora di facce basite quando rivelerete l'ingrediente principale di quel dolce così gustoso.
Da noi, come saprà chi dei miei ventiquattro lettori ha avuto occasione l'anno scorso di leggere la descrizione della festa di san Giuseppe al mio paese, si fanno per l'appunto in occasione della ricorrenza del santo falegname.
Ricorrenza a cui quest'anno avevo tutta l'intenzione di partecipare. C'erano tutte le condizioni per farlo, visto che cadeva in corrispondenza del ponte, ed erano mesi che mi preparavo giuliva. Peccato che la legge di Murphy abbia ben pensato di dire la sua sotto forma di uno di quei bei raffreddori di fine inverno. Cui, per gradire, si è sommata la schiena che ha fatto cilecca.
Sicché, anziché un bel viaggetto in quel del paesello (il quale viaggetto, mi è stato riferito, sarebbe stato funestato dal fatto che il trenino spolmonato sulla linea Urbe-Sannio ha fatto cilecca peggio della mia schiena: ma questo fra parentesi), mi son goduta quattro giorni in puro stile lazzaretto. E prima o poi qualcuno mi dovrà spiegare perché nove volte su dieci mi ammalo in corrispondenza delle ferie, ma pure questo fra parentesi, e fine della geremiade.
Se non altro, mi sono goduta i piatti tipici della festa grazie alla zia Lella: maccarun' c'a meglìche, pezzènd, sc'rpèll e non da ultimo i caveciune. Questi ultimi li ho fatti con la gentile collaborazione della zia lo scorso weekend in un momento di rara libertà, per fare in modo che pure i miei potessero gustarseli, se non nella data canonica, almeno a ridosso: è infatti una di quelle pietanze che se si fanno in almeno due persone è meglio, giacché la preparazione se non è lunga una quaresima poco ci manca. Visto che il viaggio al paese almeno a questo giro è andato giù per il secchio, è stata occasione perché li gustassimo pure io e l'amato bene. Ed è stata consolazione non magra: perché i caveciune sono buoni da non dirsi.
La ricetta che vi propongo è quella della mia famiglia, e tradisce le sue origini borghesi nell'impiego del cacao: quelli contadini, ovviamente, non lo prevedevano causa i costi proibitivi dello stesso. Va detto che un purista ad assaggiare quelli che escono oggi dalle cucine del mio paese verrebbe colto da catalessi: causa il benessere seguito al boom economico il ripieno prevede ora, a seconda dei casi e dei gusti, l'aggiunta di noci, nocciole, mosto cotto, cioccolato fondente e cioccolato bianco (ingrediente, quest'ultimo, da far venire la catalessi anche a chi non sia purista). Personalmente ritengo che miele e cacao bastino e soperchino per arricchire i ceci, pertanto la ricetta della mia nonnina resta a mio avviso insuperabile: e chi arriccia il naso al pensiero di mangiare un dolce ripieno di legumi, sia pronto a stupirsi.
Ingredienti:
300 grammi di farina
4 cucchiai di olio
2 cucchiai di olio
una tazzina da caffè scarsa di vino bianco
acqua tiepida quanto basta
olio di semi per friggere
500 grammi di ceci da lessare
un cucchiaio di cacao amaro
un cucchiaio colmo di miele
Preparazione:
per iniziare mettete a bagno i ceci col solito pizzico di bicarbonato, lasciateli ammollo una notte intera, quindi lavateli per bene sotto l'acqua corrente e metteteli a lessare (se disponete di una pentola a pressione usatela, ché vi risparmierà di tempo e di bolletta) fino a quando non sono ben cotti. Qualcuno osserverà che impiegare i ceci in lattina accorcerebbe di gran lunga la preparazione, ma le mie zie gli farebbero giustamente gli occhiacchi, giacché i legumi già cotti sono gustosi quanto il polistirolo: armatevi di santa pazienza e seguite il metodo classico.
Cotti i ceci, s'ha da ridurli in crema: e allo scopo una volta tanto non vi suggerisco l'amato frullatore a immersione, bensì il setaccio o meglio ancora il passaverdura. In tal modo eliminerete le bucce dei legumi (operazione che, vi avverto, tramuta anche il più educato in un camallo genovese e produce una quantità inverosimile di scarto), ottenendo un passato che vi permetterà di incorporare il miele e il cacao senza problemi.
Alla fine, la crema di ceci doverosamente addizionata dovrà essere cremosa ma bella compatta, come da foto: lasciatela riposare e dedicatevi alla preparazione della pasta.
Mettete la farina a fontana con all'interno l'uovo, l'olio, il vino e l'acqua tiepida e attaccate a impastare con gagliardìa. Quando sentite che la pasta è liscia ed elastica potete smettere di manipolarla: prendete un coltello e dal panetto tagliate via man mano delle fette per stendere la sfoglia, provvedendo ad appiattirle prima di andare all'attacco, a seconda della perizia e dell'abitudine, o con il matterello o con l'apposita macchinetta (in questo secondo caso partite dal primo buco, passate poi al secondo e da ultimo impiegate il quinto).
Stesa la sfoglia (che dovrà essere spessa un millimetro) tagliatela in tanti quadrotti di circa dieci centimetri di lato, tirate lievemente la pasta per allargarla appena badando bene a non romperla, quindi poggiate al centro un cucchiaino di ripieno.
Il procedimento è tal quale quello per fare i ravioli: ripiegate il lato inferiore sul ripieno e saldate quindi entrambi i lati premendo delicatamente con le dita.
In ultimo rifilate con la rotella tagliapasta, e se volete essere sicuri che il ripieno non scappi via al momento della frittura pressate con la parte piatta della stessa intorno ai bordi. Voilà!
Dopo tanto faticare è arrivato il momento della frittura: e per non perdere il tempo e il ritmo, è santa cosa se qualcuno vi si dedica man mano che voi approntate i caveciune. Detta frittura è meglio farla con olio di semi anziché di oliva, o i dolci vi verranno leggeri come i sassi che costellano il letto del torrente Cigno.
Per far sì che la cottura venga a puntino impiegate una pentola e non la solita padella, in modo che il caveciune al momento del tuffo si trovi completamente immerso: quando salirà su bello panciuto, rigirandosi stile cetaceo in vena di giocare e dorato come una giornata estiva, è pronto per essere preso con la schiumarola (attenzione allo schizzo in agguato) e deposto su un bel letto di carta assorbente.
Con le dosi prescritte vi verranno una quarantina di caveciune, quantità che non basterebbe mai a sopperire alle esigenze di chi prepara la tavola di San Giuseppe ma che sarà più che sufficiente nel caso vogliate proporli come dessert a una bella tavolata di amici per coronare una cena tipica.
Avrete il duplice piacere di un applauso, e di una pletora di facce basite quando rivelerete l'ingrediente principale di quel dolce così gustoso.
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