sabato 29 agosto 2009

Venuto al mondo

"Guarda che mi aspetto di leggere presto qualche ricetta nuova. Di cartoni, film, fumetti, quello che ti pare ne puoi sempre parlare, tanto dopo aver fatto a pezzi Yoshiyuki Tomino dovresti essere soddisfatta per un bel po', no?"
Cara Tania, sono costretta a deluderti. Spero che mi perdonerai, visto che parlo di un libro che mi hai regalato proprio tu. Un libro così bello che, visto che l'ho letteralmente divorato, oggi porterò a mia madre, che poveraccia ancora deve cibarsi il gesso, in modo che possa leggerlo anche lei, e si immerga a tal punto nella storia, come è successo a me, da scordarsi quel gesso della malora.
Come potete leggere dalla copertina, questo libro è un romanzo. L'autrice è Margaret Mazzantini, che i più probabilmente conoscono per essere la moglie di un attore noto e bravo. E come succede a tante mogli di uomini noti e bravi, corre già solo per quello il rischio di essere oscurata dal marito. E nel suo caso, persino di essere rampognata dalla stampa perché il citato marito, presentando il concerto del Primo Maggio, si è permesso di leggere un brano tratto dal romanzo. Ora, io non so quale sia il contesto in cui ciò è avvenuto, e nemmeno se si sia trattata di promozione sfacciata. So però che questo libro è bello, molto bello. E sicuramente, se sta godendo di successo editoriale (cosa che ignoro, perché non ho l'abitudine di vedere le classifiche di vendita dei libri), ciò non è dovuto alla pubblicità fornita da un marito famoso.
La storia è allo stesso tempo molto comune e per niente comune. Non ne rivelo che poco per non rovinarvi la lettura, nel caso decideste di acquistarlo. La protagonista è una donna, una donna qualsiasi con un desiderio che molte donne hanno: quello di avere un figlio. Un figlio che, all'inizio della narrazione, già ha. E che, come si spera siano almeno la maggior parte dei figli, è il risultato di un grande amore. Oltre al grande amore, il filo conduttore della narrazione è una guerra piuttosto recente, che come tutte le guerre è stupida e insensata, e come tutte le guerre è stata dimenticata, nascosta sotto il tappeto, conseguenze e tutto, non appena i fucili e i cannoni hanno smesso di sparare. Ma le conseguenze restano.
Alla fine, si scoprirà che quel figlio (un ragazzo comunissimo, che litiga con la madre e ascolta Vasco Rossi come qualunque adolescente) è sì il frutto di un grande amore, ma di natura alquanto diversa da quella che sua madre aveva sempre creduto. Un finale sorprendente, in cui, nonostante tutto, si trova un senso di pace. Un giusto climax per un libro in cui di pace non se ne trova, e non solo perché la guerra vi ha un ruolo così importante.
Per me è stata una di quelle letture che capitano esattamente nel momento in cui dovevano capitare. Non mi interessa farne un'analisi critica, esaminarne la struttura, stare a cincischiare sul linguaggio che, si vede (e a volte lo si vede pure troppo, il che è uno dei pochi difetti che riesco a trovarvi), è stato scelto parola per parola. Mi interessa la sensazione che ne ho tratto, una bella sensazione, e la lezione, se così si può definirla, che ne ho ricavato. E che provo a sintetizzare in breve.
La prima è che è inutile tentare di avere il controllo delle cose, e per averlo rinunciare a vivere, perché comunque la vita prenderà sempre il sopravvento.
A seguire, che nessuno appartiene a nessuno. Cosa di cui ci si dovrebbe ricordare, soprattutto se si afferma di amare una persona, che sia un familiare, un compagno, un figlio, o un amico. Non si hanno diritti su nessuno.
L'ultima, forse la più importante, è che si ha il diritto di stare al mondo come si è, per quello che si è, persino se si è venuti al mondo nelle condizioni peggiori, portandosi addosso dalla nascita un marchio di infamia.
Alla fine del romanzo mi è venuta in mente una frase che diceva mia nonna, e che ho sempre trovato bellissima: i figli non appartengono ai genitori, ma al mondo.
E giacché ciascuno di noi è comunque figlio in qualche modo, ciascuno di noi appartiene al mondo.
Ovvero, ha la potenza di essere libero, purché lo voglia. E giacché è venuto al mondo, ha diritto a vivere per come è.
Porterò il libro a mia madre e la ringrazierò di avermi messa al mondo, letteralmente.
Vivere è una faticaccia, ma ha almeno una cosa bella.
C'è sempre qualcosa da imparare.
E già solo per quello, vivere vale la pena.

sabato 15 agosto 2009

Scusate il ritardo

"Ma che fine hai fatto? Ma ti pare modo? Almeno augura buone ferie, no?"
La sempre squisita Tania ha ragione. Mea culpa. Avrei dovuto fare un post prepartenza per salutare, ma un po' per impegni di lavoro, un po' per fiacca, un po' perché tutti gli amici scelgono la stessa settimana per invitarti a cena, e soprattutto perché mi stavo macerando per la mi' mamma, proprio non ho avuto modo. E una volta partita, la mancanza assoluta di connessione ha fatto il resto.
Rimedio ora, che di connessione ne ho, anche se non per molto.
Cari tutti, buone ferie. Se avrò occasione posterò qualcosa di mangereccio incontrato nel mio girovagare, altrimenti avrò di che proporre a partire dalla fine del mese.
E in omaggio a Tania, il post non poteva che avere il titolo di quello che forse è il film più bello realizzato da uno dei suoi attori e registi prediletti.
Scusate il ritardo. E, se anche voi siete in partenza, buone vacanze.

giovedì 6 agosto 2009

Cappellucci del cardinale

Gentili lettori, oggi sono nera.
Ma veramente nera.
La mia mamma, dopo un anno intero in cui ha lavorato peggio di un ciuco, si era finalmente presa un po' di vacanza.
Arriva al mare.
E dopo due ore, si rompe un polso.
Il che riprova, come dice Freak Antoni, che la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede benissimo.
La mamma ha pertanto mollato i progetti marini e se ne è tornata al paesello. Dovrà portare il gesso per un mese.
Direi che mi è lecito alterarmi.
Anche perché, con un bel po' di chilometri pe' mmiézze, non posso fare il proverbiale tubo per aiutarla.
Confido nell'affetto delle mie vecchine, del mio babbo, degli amici che, grazie al cielo, sono tanti.
Però sono, mi si scusi il francesismo, incazzata come un'ape.
Quindi vi propongo un dolce. Che si sa, migliora sempre l'umore. E poi è un dolce che prevede adeguata manipolazione della pasta, cosa che per me è un antistress senza pari.
Il nome gliel'ha dato il mio compagno di casa e di vita, perché sostiene che la forma ricorda alquanto quella dei copricapi cardinalizi. Quindi è ancor più adeguato alla bisogna, visto che c'è un alto prelato che, pari alla mia mamma, si è scardinato un polso in vacanza. La qual cosa, per inciso, non mi consola per niente. E comunque, ci tengo a sottolinearlo, è l'unica cosa che accomuna un pastore tedesco e una volitiva signora amante del mare, che almeno per quest'estate il mare lo vedrà solo in cartolina.
E su ciò sarebbe opportuna quell'espressione in romanaccio pretto che coinvolge persone non più in vita, ma non voglio scadere nel triviale e quindi passo alla ricetta.

Ingredienti:
cinque mele golden (o pesche, o albicocche, o prugne o altra frutta non troppo acquosa in quantità paragonabile)
450 grammi di farina
due uova
150 grammi di zucchero
160 grammi di burro
buccia grattugiata di un limone
un cucchiaio di rum da cucina
cannella in polvere

Preparazione:
con farina, uova, burro, zucchero, rum e buccia di limone fate una bella pasta morbida e compatta e mettetela a riposare in frigo per una mezz'ora.
Nel frattempo sbucciate le mele o pesche o quel che l'è (lasciate le albicocche o prugne come sono, a meno che non vogliate dilettarvi in un esercizio zen che fiaccherebbe la volontà del più tosto sensei), fatele a spicchi e ponetele in una ciotola, quindi dategli una bella spruzzata di cannella in polvere, mescolate e lasciatele lì ad aromatizzarsi per benino.
Tirate la pasta fuori dal frigo, mettetela sull'asse apposita (o arrangiatevi con il piano di lavoro della cucina mugugnando sulla iattura dell'angolo cottura e dei suoi vergognosi spazi da puffo) e stendetelo con il matterello fino allo spessore di un paio di millimetri.
Ponete quindi una fila di spicchi di frutta (o di frutti a metà se si tratta di albicocche e simili) adeguatamente distanziati, avendo cura di metterli con il lato tondeggiante rivolto all'estremità opposta sulla pasta e di lasciare un bordo di pasta sul basso che sia di altezza superiore a quella dei frutti stessi. Rivoltate quindi il succitato bordo sugli spicchi stessi, tagliate delle mezzelune che comprendano ciascuna uno spicchio e un adeguato bordino di pasta, e premete il bordino con le mani in modo da sigillare. Continuate fino ad esaurimento della frutta, e con la pasta eventualmente avanzata mettete una pallottola su ciascun cappelluccio a mo' di decorazione.
Mettete con delicatezza i cappellucci su una placca o in una teglia ben foderata di carta da forno. Fate cuocere per una ventina di minuti in forno già caldo a 200°, quindi spegnete e lasciate raffreddare.
I cappellucci sono ottimi da accompagnare a tè o caffè, o con un bel bicchiere di latte se siete nervosi come la sottoscritta.
E hanno pure il vantaggio che sono piuttosto celeri da fare.
Quindi cimentatevi pure: vi garantirete una merenda con i fiocchi.
E quando state per azzannare il primo, per cortesia mandate un in bocca al lupo alla mia mamma, e auguratele una pronta guarigione.

mercoledì 5 agosto 2009

Sformato di riso e cucuzze

"Cara... Ma il sale?"
"Dici che è sciapo? Eppure il sale ce l'ho messo... E ci sta pure quello del parmigiano, in teoria."
"Le zucchine mi sembrano un po' crude..."
"Davvero? Boh, a me sembrano cotte... Sarà che la verdura mi piace al dente."
"Mah, come piatto è interessante, ma secondo me dovresti ritentare con un po' di condimento in più e facendo cuocere le zucchine per qualche altro minuto..."
"Ehm, è una maniera gentile per dirmi che 'sto sformato dovrei proporlo alla mensa del Quinto Cardiopatia?"
A tavola si consumano i peggiori scontri relativi agli assiomi del mangiare, e della vita stessa. Me ne sarei dovuta ricordare al momento di cucinare questo piatto, che per inciso è frutto di ispirazione del momento, e sempre per inciso mi sarei dovuta ricordare pure che quando si sta cucinando per ospiti non è il caso di farsi prendere dall'estro creativo. Men che meno quando uno degli ospiti è la leggendaria Tania, dea dei fornelli e mestolo d'oro nel consesso amicale che pure di mestoli comme il faut ne vanta parecchi. Fatto sta che codesto sformato ha suscitato pareri contrastanti: promosso dall'amato bene, la cui opinione è però sicuramente biased, rimandato con garbo a settembre da Tania. Ai lettori l'ardua sentenza: lo propongo come l'ho fatto, suggerendo però anche le opportune modifiche per chi voglia un piatto molto saporito (secondo me) o che, a seconda dei gusti, non sia nel menù del Quinto Cardiopatia. E lo archivio alla voce "disastri gastronomici".

Ingredienti:
200 grammi di riso per risotti
tre belle zucchine
un mazzetto bello cospicuo di foglie di basilico
quattro cucchiai d'olio (in alternativa otto)
quatto cucchiai di parmigiano (in alternativa dieci)
uno spicchio d'aglio (facoltativo)

Preparazione:
per cominciare, affettate le zucchine per il lungo in fette sottilissime - per farlo vi sarà assai utile il pelapatate - e mettetele a cuocere in padella con il coperchio di vetro insieme a un cucchiaio scarso d'olio per una decina di minuti, giusto quanto serve ad ammorbidirle un po', quindi travasatele in un piatto e tenetele lì in attesa. Alternativa: mettete due cucchiai d'olio a soffiggere con uno spicchio d'aglio, e quando questo si è imbiondito buttate in padella le zucchine, fatele allegramente soffriggere fino a quando non sono ben cotte a vostro gusto, quindi mettetele in un piatto e condite bene con sale e pepe.
Lessate quindi il riso molto al dente (con il sistema solito, oppure con quello che prevede l'impiego del coperchio di vetro sulla pentola e una quantità d'acqua equivalente a una volta e mezzo quella del riso) e mettete da parte pure lui.
Armatevi quindi di frullatore a immersione e in un contenitore alto e stretto (così parate gli immancabili schizzi) riducete in crema il basilico ben lavato e l'olio e il parmigiano nelle quantità desiderate. Quindi condite il riso semplicemente con la crema di basilico, oppure per farlo ulteriormente insaporire saltatelo in padella per un paio di minuti con la salsina stessa.
Adesso arriva la parte seccante, o più divertente se vi dilettate di lavori manuali: la costruzione dello sformato.
Prendete una ciotola (se siete più raffinati, uno stampo da zuccotto, ma sappiate che qualunque scodella regge benissimo la prova), date una passatina d'olio sul fondo e le pareti - se poi avete modo di ricoprirli con un foglio di pellicola per alimenti meglio ancora - e con santa pazienza foderatela con le strisce di zucchina in modo che non restino buchi.
Quindi mettete il riso condito, pigiando per bene in modo da non lasciare vuoti. Se vi è avanzata qualche striscia di cucuzza mettetela sul riso, che male non ci sta, oppure acchiappate un pezzo di pane e approfittatene per farvi un antipastino.
Se volete fare le cose per bene, mettete quindi un foglio di pellicola o di carta da forno a coprire la superficie, poneteci dei pesi (ad esempio della frutta) e infilate nel frigo per una mezz'ora almeno. Se invece come me fate sempre le cose come se foste inseguiti dal drago, incrociate le dituzze e capovolgete la scodella in un piatto. Se è andata bene, il risultato sarà un perfetto zuccotto verde. Se è andata male, sembrerà un campo da golf dopo uno smottamento a catena. Nel qual caso, pazienza: avete fatto lo sforzo di stare ai fornelli, che i commensali abbiano il buon gusto di aprire la bocca solo per mangiare.
Se vi è avanzato un cucchiaio di salsina al basilico e la mettete sulla cupola di cucuzze quale ulteriore condimento, non farete un soldo di danno.
E alla fine del pasto sappiatemi dire se questo sformato può essere una degna pietanza estiva, o se devo proporlo a qualche azienda ospedaliera della Capitale.

lunedì 3 agosto 2009

Un paese normale

La foto che vedete è stata scattata ad Amsterdam dalla mia amica Paola, che si è trasferita da circa un anno fra mulini e tulipani. Non sempre ho invidiato la sua scelta: avendo avuto a che fare con i batavi per tutto il periodo dell'università e anche dopo, ho avuto modo di riscontrarne numerosi difetti, e di avere la prova provata che la Libera Olanda così libera e accogliente non è. Ma poi arrivano cose come queste a scaldarmi il cuore.
Questa foto, come potete leggere sull'edipèo enciclopedico, che è il blog dove Paola narra le sue esperienze nederlandesi e non solo, ritrae un momento della recentissima sfilata del Gay Pride. Che in Olanda è una festa grande che coinvolge tutti, senza polemiche, senza anatemi, e soprattutto senza la stampa che fa vedere le solite foto della manciata di partecipanti en travesti trascurando le decine di migliaia di persone che sfilano mostrando la loro normalità (ma si sa, da noi basta ben poco per essere diversi e quindi condannabili).
Se cliccate sull'immagine, potrete vedere in dimensioni adeguate chi ci sia sulla barca che sfila sul canale, e quale sia la barca. A chi è pigro, lo dico io: è l'imbarcazione ufficiale con cui la polizia olandese prende parte al corteo, e a bordo si trovano poliziotti e poliziotte dichiaratamente omosessuali.
Riuscite a immaginare una cosa del genere qui da noi?
Non credo.
Il nostro non è un paese normale.

domenica 2 agosto 2009

Fritto misto di guerra: Mobile Suit Gundam

La cucina è sempre stata, almeno secondo me, un'eccellente metafora anche per creazioni che con il cibo hanno poco a che fare.
Nell'editoria, ad esempio, si parla di cucina di redazione, che è quell'ambito in cui redattori e altre sfortunate creature che hanno a che fare con i testi lavorano a ritmi che voi umani non potreste immaginarvi, finché comunicati stampa scritti con aggettivi un tanto al chilo e terrificanti contributi di sedicenti giornalisti che sono la sagra dell'anacoluto diventano un prodotto digeribile. Oppure no, visto che a mia esperienza in diverse redazioni anziché lavorare indefessi ci si limita a ripubblicare paro paro quanto fornito dall'esterno: sicché gli articoli si rivelano nella loro natura di marchette, e la cucina si tramuta in casino, non inteso come luogo caotico. Ma questo fra parentesi.
Come si sarà desunto dall'immagine che apre il post, qui si parla però non di cucina di redazione, bensì di animazione. Di questo argomento non sono particolarmente esperta, ma so per racconti di persone amiche e per curiosità mia che i ritmi di lavoro sono se possibile ancora peggiori. Immaginatevi dei nevrotizzati tapini impegnati come formiche a creare per ogni scena i diversi fondali su cui poi si muoveranno i personaggi, oppure a disegnare i famigerati intercalatori, ovvero quei disegni intermedi che sono alla base della fluidità dell'animazione. Già di per sé, un lavoraccio. Se poi a dirigere il lavoraccio è uno come Yoshiyuki Tomino, immagino che il tapino nevrotizzato sia colto ogni tre per due da un lancinante desiderio di fare seppuku. Solo che dato il ritmo di lavoro non ne ha il tempo. Semmai lo farà a casa, se ci arriva: ma si sa che chi lavora in quest'ambito a casa non ci va se non per firmare le carte di divorzio che il partner, stufo per le continue assenze, gli porgerà al posto della cena.
Per i pochi appassionati di anime che non lo sapessero, Yoshiyuki Tomino è uno dei padri riconosciuti dell'animazione giapponese, e unisce a un notevole talento un'altrettanto notevole depressione bipolare. Ovvero, quel tipo di depressione per la quale a irregolari intervalli ti senti di volta in volta king of the world, o il peggio verme che strisci sulla terra. Basti pensare a due delle serie da lui prodotte e sceneggiate: Zambot 3, di gran lunga la serie robotica più crudele che mai sia stata trasmessa (gli venne assegnata già iniziata e nel caos più completo una roba di terz'ordine destinata a un pubblico di bambini, e lui pensò bene di tramutarla in un terrificante dramma denso di dolore, razzismo e con il tocco di finesse dei civili tramutati in bombe umane dai nemici), e Daitarn III, vivacissima e ricca di un sense of humour piuttosto insolito per i nipponici, e in cui la generale leggerezza di tono veniva scalfita solo da alcune puntate.
Il suo opus magnum è considerato però Mobile Suit Gundam, che al momento attuale vanta più serie di quante se ne possano contare. Dalla prima, andata in onda nel 1979 (l'anno successivo in Italia), è stato un susseguirsi di saghe e modelli, a cura di Tomino stesso o realizzati con il suo placet: Mobile Suit Z Gundam, Mobile Suite Gundam ZZ, Mobile Suite Gundam 0080 - La guerra in tasca, e mi fermo qui , ma sappiate che si è arrivati ad oltre venti e ancora non se ne vede la fine. Io, che come dice l'amato bene ho una parola buona per tutti e due per chi se lo merita, osservo sempre che Gundam oramai ha più versioni della Barbie, e che attendo con ansia l'uscita di Mobile Suit Gundam: Nonna Papera astronauta, perché oramai ci manca solo una versione disneyana e siamo a posto. Sarò carogna, ma ho l'impressione che il signor Tomino Ammazzatutti - così ribattezzato perché i personaggi delle sue serie prima o poi si ritrovano tutti in una bara, beninteso se ne resta qualche pezzo da raccogliere - campi di rendita da lunga pezza, e che sia divenuto l'equivalente di Francis Ford Coppola, un director for hire che si limita a mettere il pilota automatico e a ripetere se stesso in sedicesimo. Un buon modo certamente per guadagnarsi la pagnotta senza sforzo, ma se si considera il talento mostrato in precedenza a me viene da mettere il broncio.
Gli aficionados del robottone bianco, che già dopo quanto sopra avranno la tentazione di mettermi sul rogo dopo avermi cosparso di pece, osserveranno: va bene, ma almeno la serie primigenia devi lasciarla stare. E' un capolavoro.
Io ne convengo. E' un capolavoro. E lo posso dire senza che il mio giudizio sia inficiato da alcun rigurgito nostalgico. Perché io, la serie originale, all'epoca mi rifiutai di vederla.
I motivi sono diversi. Uno, il doppiaggio vergognoso, che rendeva o assolutamente idioti o assolutamente incomprensibili la maggior parte dei dialoghi. Due, la sigla orribile, dal testo clamorosamente imbecille persino per un bimbo, condita perdipiù da terrificanti sovracuti in accento pseudopadano ("perchèèè, qui c'è chi pensa a tèèè...": sì, con i biscotti). E chi mi voglia rampognare per ciò, sappia che anche il Maestro condivide la mia opinione: tant'è che ha fatto ridoppiare tutto per l'edizione in DVD e ha eliminato la sigla.
Il terzo motivo, che è poi quello che, suppongo, vinse su tutto, era la serie in sé. Che era un bel po' diversa da tutte quelle che avevo visto e vedevo. Mancava il monster-of-the-week. I nemici non erano né mostri né alieni, e nemmeno venivano da un pianeta lontano lontano o da un'era diversa: erano esseri umani, tali e quali agli eroi. Gli eroi, poi, di eroico non avevano un bel niente: a cominciare dal protagonista principale, un nerd a malapena sedicenne pilota per caso del robot eponimo. Il succitato robot, poi, lungi dall'essere unico e inimitabile, era stato ideato per essere prodotto in serie. Il teatro di guerra, anziché essere il solito Giappone bucherellato come una groviera dagli assalti del nemico di turno, era lo spazio, ma soprattutto il mondo: Stati Uniti, America Latina, Europa. E come se non bastasse, i civili morivano. I combattenti morivano. E non nella maniera asettica delle altre serie (tutte tranne una, guardacaso la succitata Zambot 3): si vedono corpi che saltano in aria, e rimangono a terra, o esplodono all'interno dei veicoli. E sono tanti e tanti, non solo il comandante nemico di turno. Gundam è stato per le serie robotiche quello che i film dei Sergio Leone sono stati per il western: lo spettatore scopre che le armi feriscono, troncano arti, uccidono.
In sostanza: la guerra è vera. Ci sono navi spaziali e si lotta con robot antropomorfi, ma a differenza del solito le navi si danneggiano e non si ritrovano integre e perfette dopo un paio di minuti o nella puntata successiva, e i robot sono fragili, hanno autonomia limitata, le munizioni non durano all'infinito. E i militari se ne sbattono dei civili, e i civili sono queruli, ed entrambi o subiscono passivamente i dettami del potere o sono ben disposti a far da carne da cannone per le gloriose sorti future, combattendo fino alla vittoria.
Tutto è reale. Fin troppo. Il pilota del Gundam, protagonista fra tanti protagonisti, a un certo punto di rifiuta di combattere perché, cosa inaudita in qualunque serie robotica classica, ha paura di morire. E all'inizio non riesce a colpire Char Aznable, la sua nemesi, perché sta fuggendo del tutto disarmato, e un conto è distruggere un veicolo, un conto uccidere un uomo.
Bastano questi dettagli a far capire la rilevanza fondamentale che nella serie ha un aspetto per poco considerato in altri cartoni: il fattore umano. I personaggi sbagliano, temono, sono pieni di difetti e di passato. Amuro Ray, eroe controvoglia, è un ragazzino abbandonato da una madre vigliacca e con un padre gelido completamente preso dalla progettazione di quel potente robot che dovrebbe risolvere le sorti della guerra. Il suo nemico Char Aznable, i cui cari sono stati sterminati dalla potente famiglia Zabi di Zeon, la colonia che si è ribellata alla terra e vuole l'indipendenza, sotto falso nome scala i ranghi dell'esercito zeoniano divorato da un lucido desiderio di vendetta. Mirai, timoniera della Base Bianca, la nave spaziale che ha il Gundam in dotazione e che per necessità ha combattenti tutti civili provenienti dalla colonia distrutta di Side 7, compie il suo dovere con zelo silenzioso, per la prima volta individuo e non più figlia di una facoltosa famiglia. Garma, il più giovane degli Zabi, vaso di coccio fra vasi di ferro, tenta disperatamente di non essere considerato un ragazzino idiota che ha fatto carriera grazie al padre dittatore, e per questo morirà.
Tanti altri aspetti, alcuni di finezza straordinaria (basti pensare all'episodio in cui la Base Bianca e gli zeoniani si ritrovano a far battaglia fra le nuvole e vengono terrorizzati dai fulmini che, essendo tutti nati in colonie artificiali, non hanno mai visto), rendono memorabile la prima serie di Gundam. Continua a non scaldarmi il cuore per motivi che non hanno nulla a che vedere con la sua qualità, non da ultimo il fatto che Yoshiyuki Tomino umanamente mi è antipatico. Mi si dirà che l'antipatia come strumento di analisi è altamente opinabile. Ma visto che questo è il blog di una cuoca a tempo perso e non quello di un critico, ne faccio uso senza problemi. Tomino è una di quelle persone che, probabilmente per eccesso di sofferenza (mai conosciuto un depresso che fosse insensibile o stupido), ha scelto di mettere un muro fra sé e il mondo, e nel caso di Gundam fra sé e le sue creature. Un atteggiamento molto sano, per certi versi. Facendo così si soffre molto meno. Ma alla lunga, rifiutarsi di sentire fa morire. E pure le creature ne risentono.
Fatta salva l'antipatia, Tomino è straordinario. La sua meticolosità è ammirevole, e rende tutto ferocemente reale. Non da ultimo, perché in alcuni casi gli avvenimenti che mostra nelle sue opere sono reali. Sono infatti già accaduti.
Prima che qualcuno mi consigli di rivolgermi a un apostolo di Jung: no, non ho avuto esperienza di universi paralleli in cui basi bianche svolazzino nell'aere e colonie artificiali ruotino bellamente nello spazio in tutto simili a salsiccioni ripieni di verzura.
Semplicemente, il mio compagno di casa e di vita (che oltre a essere un ingegnuro, e programmatore di professione, e ad aver imparato il giapponese da solo, è pure appassionato di storia) mi ha fatto notare alcune cose interessanti relativamente alla trama di Mobile Suit Gundam - Il contrattacco di Char. Il cui poster è quella bella immagine che trovate in cima, qualche migliaio di caratteri fa.
Nonostante mi sia rifiutata di vedere qualunque cosa esulasse dalla prima serie, che per me è una e unica, non potevo lisciare questo lungometraggio che almeno in teoria dovrebbe tirare le fila dell'epocale scontro fra Char Aznable e Amuro Ray, i quali avevano, ça va sans dire, amenamente latitato in ogni serie seguita alla prima.
Il film, lo dico subito, ha un numero infinito di difetti. Il character design è decisamente peggiorato, e Char dal freddo bastardo con chioma bionda lunga fino alle spalle è divenuto nell'aspetto un bagnino californiano, mantenendo grazie al cielo una robusta dose di doppiogiochismo e carognaggine. La scena, anziché da lottatrici tese e toste come Sayla Mass o indefesse versioni di Florence Nightingale come la coraggiosa e delicata Fraw Bow, è popolata di meste donzelle in panta-minigonna che si aggirano in assenza di gravità negli hangar onde offrire supporto tecnico (ché si sa, se non mostri le gambe i bulloni mica si avvitano) o tentano di supplire al vuoto della scatola cranica esibendo ciocche di capelli verdognoli tenute su in codini da scolaretta. La complessità psicologica dei personaggi è andata a farsi benedire, in compenso ci sono una serie di cascami psicoanalitici che sembrano un bignamino di Freud messo insieme da un curatore particolarmente svogliato. La trama, poi, è il supermarket della banalità: Char vuole far piazza pulita dei terrestri scagliando sul pianeta un asteroide che causerà un inverno nucleare. Dire che è già visto, è un eufemismo.
Ma è il modo in cui la trama si sviluppa che è degno di nota.
Essendo in pericolo la Terra, perdipiù fiaccata da anni di guerra e bisognosa di risorse per la ricostruzione, di nascosto il governo tenta di negoziare. Adenauer Paraya, bieco politico rappresentante della Federazione (e per inciso afflitto da una giovane figlia stupida e stereotipata cui nella prima serie nessuno avrebbe dato manco un'occhiata, ma che nel film diventa oggetto di desiderio per personaggi maschili ancora più stereotipati e stupidi di lei), si reca nella colonia Londenion, e lì con un manipolo di generali incontra di nascosto Char Aznable, nel frattempo divenuto leader degli zeoniani. Char esige di avere Axis, asteroide ricco di risorse minerarie e un tempo base di Zeon. La Federazione si dichiara pronta a venderlo in cambio di svariati lingotti d'oro, nonché della promessa di consegnare la flotta zeoniana. Lo scambio avviene con soddisfazione e sollievo dei terrestri.
Vedendo la scena, il mio amato bene ha rischiato di strozzarsi con la cocacola dal gran ridere. E alla mia domanda, ha risposto con un'altra domanda: "Tesoro, proprio tu che hai studiato storia e letteratura della Grande Germania mi dimentichi i Sudeti?"
Ho avuto un'agnizione. La quale, per i pochi che fossero a digiuno delle guerre del Secolo Breve, è questa.
I Sudeti erano quella amena porzione di territorio incastrato fra Germania e Slovacchia che quel tale crucco baffuto di bassa statura iniziò a pretendere con furibonde minacce nel 1938, giacché vi era una nutrita popolazione tedesca che era il caso di "far tornare a casa nel Reich". L'alternativa era la guerra, cosa che l'Europa, ancora con le gambe malferme dopo la buriana del 1929, aveva tutta l'intenzione di evitare. Ci fu una conferenza a Monaco in cui il primo ministro inglese, Chamberlain, concesse a Hitler i Sudeti in cambio dell'assicurazione che ci sarebbe stata la pace. Non gli chiesero la consegna dell'esercito. Ma quella era già stata chiesta in altra occasione alla Germania, ovvero alla fine della Grande Guerra.
Anche il nome del politico della Federazione contiene allusioni: Konrad Adenauer fu il cancelliere tedesco passato alla storia quale personaggio di rilievo nella ricostruzione della Germania postbellica; Paraya, nome di chiara origine indiana, allude alla Gran Bretagna quanto Londenion, visto che durante la Seconda Guerra Mondiale la patria del Mahatma era ancora parte dell'impero di Sua Maestà.
Tale e quale al crucco nano, Char Aznable (che, ironia della sorte e certamente non a caso, deve il suo nome a Charles Aznavour, forse il più famoso degli armeni, ovvero di un popolo quasi cancellato dalla faccia della terra) non rispetta i patti: come la Germania se ne infischiò delle promesse e invase la Polonia, lui finge di consegnare la flotta, e con perfetta strategia fa strage degli schieramenti nemici. Per farlo, utilizza i dummies, ovvero finte astronavi in cui se ne cela una sola vera e un paio di mobile suit a dare manforte: un trucco largamente impiegato durante il secondo conflitto mondiale, con gli alleati a creare finte basi con finti aerei e finti carri armati (una leggenda metropolitana dice addirittura che una volta i tedeschi, accortisi dell'inghippo, bombardarono una finta base con bombe a salve) e i russi che coniarono un apposito nome, maskirovka, per definire la strategia.
Tale e quale al crucco nano, alla fine gli va male. La Base Bianca intuisce i progetti del dittatore zeoniano, che ha intenzione di far cadere sulla terra l'asteroide Axis causando morte e distruzione, e converge sul posto per dare battaglia. Nella quale, ovviamente, si consuma lo scontro finale fra Amuro e Char, con il primo che si sacrifica in stile Pietro Micca per salvare i terrestri anche se non se lo meritano, e porta con sé il suo nemico primigenio.
Per inciso, non si vede fisicamente la morte di nessuno dei due. Per cui c'è da aspettarsi, quando si sarà raggiunto il fondo del barile e toccherà scavare e scavare, che nel prossimo Mobile Suite Gundam: La sciatica di Char (non ne avete mai sentito parlare? Tranquilli, capiterà) troveremo la Cometa Rossa e il Diavolo Bianco ormai ottuagenari che se le danno di santa ragione con i loro robot armati di deambulatori in alluminio.
L'attenzione per la storia è l'unica cosa che rimane di un film che, nato per risolvere una trama rimasta in sospeso, non risolve niente. Ma non è cosa da poco. Tomino ancora una volta usa Gundam per mostrare che la guerra è stupida e crudele, che i civili e i militari muoiono per colpa di governanti egoisti e inetti, e che soprattutto vicende del passato si possono ripetere. Ovvero, che il passato è presente. Per cui, non è opportuno dimenticare. Se non si è attenti e non si ricorda, orrori già successi possono succedere di nuovo.
Cosa quanto mai vera. Soprattutto in una data come oggi.
Mi direte: perché, cosa è successo oggi?
2 agosto 1980. Bologna.
E' importante, non dimenticare.
E non far dimenticare.
Buona domenica.
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