lunedì 21 giugno 2010

Ritorna Sant'Onofrio

Chi mi legge sa che se c'è una cosa che mi ruga sono le tradizioni che vanno scomparendo. Che si tratti di cucina, di feste, di linguaggio o altro, ogni volta è un pezzettino di identità che si perde.

Non sono una di quelle che rimpiange i prischi valori del passato. E tutti i vantaggi della società moderna & globale li vedo benissimo. Sarò sempre l'ultima a lamentarmi del fatto che le trattorie vengono sostituite da rivendite di kebab. Soprattutto se le succitate trattorie son lì a spennare i turisti proponendo fettuccine dell'hard discount a prezzi proibitivi. E soprattutto se c'è gentaccia pronta a mestar nel torbido e a portar acqua al proprio mulino con la scusa che il suolo italico è invaso dal barbaro straniero. La succitata gentaccia farebbe meglio a preoccuparsi per il fatto che, ad esempio, oramai sia nella periferia milanese che nel borghetto del Salento si vedano ovunque le stesse torme di genti (italianissime, ça va sans dire) con gli stessi mesti tatuaggi, gli stessi calzonacci a vita bassa con il pezzo di mutanda che pietosamente spunta dalla cinta e la stessa abitudine a stare attaccati per ore consecutive al telefonino di ultima generazione. Ma questo, come sempre, fra parentesi.

Va da sé che se uno ha da pensare al calzonaccio a vita bassa e al telefonino nuovo di pacca, di mantenere in vita seccanti tradizioni che prevedono un mucchio di impegno non ha nessuna voglia. Per cui, se proprio si deve, si fa a tirare via.

La tendenza è vecchia, va detto. E' cominciata con il benessere economico. Benedetto, il benessere economico. Che fra i miei compaesani non ci sia più nessuno costretto a vivere in casolari diruti con il riscaldamento fornito dalle bestie nella stalla sottostante la camera da letto (e non sto parlando del Medioevo, ma dei tardi anni Settanta) o che debba chiedere i soldi in prestito per comperare un po' di ricotta ai figli, mi sembra cosa bellissima. Il benessere si è però portato appresso anche la vergogna per la povertà del passato. Una delle conseguenze, ad esempio, è stata che nessuno voleva più scarpinare appresso a un carro per cinque chilometri e ritorno per andare a prendere la statua del patrono e portarla in paese. Vuoi mettere quanto è più comodo farlo con un camioncino, che è pure più moderno. Anzi, facciamo una sfilata con un tot di camioncini. Non hai il camioncino? Va benissimo la jeep. E la decorazione di fiori? E chi ha il tempo di coglierli, mettiamo qualche festone. E visto che non ci sono più i campanacci dei buoi, suoniamo i clacson. Come, ci sono le vecchie che si lamentano per "chille puovere Sante Nuofrie tutto sballottato" e per il rumore? Sono vecchie, lasciale dire.

Tutto ciò per quasi quarant'anni.

Vi lascio perciò immaginare la mia sorpresa quando sabato ho visto la scena che potete vedere in alto. Sant'Onofrio orgogliosamente sul suo carro adorno di ginestre appena colte, trainato dai buoi con le fasce rituali sulle corna.
Come da tradizione, lo seguiva il carro con Sant'Antonio, anche lui trainato dai buoi. E 'a bandarella, la banda musicale in divisa. E tanta, tanta gente, di tutte le età, pronta a farsi i cinque chilometri fino al convento.

Zia Maria mi ha detto che il merito è del nuovo parroco. Il quale, dopo essersi speso insieme a un bel gruppo di volenterosi per far rivivere la tradizione di San Giuseppe, ha ridato alla festa di Sant'Onofrio l'importanza che le spetta.

Io non sono granché di chiesa, e spesse volte ciò che dicono e fanno le alte sfere della gerarchia d'Oltretevere mi causa un vivo desiderio di passare alle schiere della Chiesa vetero cattolica dell'Unione di Utrecht.
Per questo, la mia riconoscenza a Don Michele per tutto ciò che sta facendo per la comunità del mio paesello è ancora più grande.

Viva Sante Nuofrie. E arrivederci al prossimo anno.

mercoledì 9 giugno 2010

Carciofi imbottiti di riso

Lo so. Nell'ultimo periodo sto vergognosamente latitando. A mia scusante, ho a malapena tempo per respirare. Manco per cucinare, se è per questo: la sera ammannisco all'omarello meste insalate con tonno e verdure che il tapino sopporta stoicamente senza mai lagnarsene. Ma ciò fra parentesi. Pertanto le sessanta ricette in archivio arriveranno, temo, con il contagocce. Intanto vi propongo questa, che è in bozza dal tempo di nonna Berta: trattandosi di carciofi, che sono oramai agli sgoccioli al mercato, o la posto ora o mi tocca aspettare l'anno prossimo. E sarebbe un peccato, perché è buona veramente.

Ingredienti:
cinque bei carciofi
cinque cucchiai rasi di riso da risotti
uno spicchio d'aglio
un paio di cucchiai d'olio
un po' di capperi sotto sale, preventivamente sciacquati
una manciata di foglie di menta

Preparazione:
pulite i carciofi more solito badando a decorticare e fare a rondelle i gambi anziché buttarli: se con la pulitura dei simpatici fiorelloni siete all'abbiccì, vi rimando alle ricette carciofesche qui già pubblicate che vi daranno tutte le istruzioni utili. Metteteli quindi a bagno in acqua acidulata con limone.

Nel frattempo tritate l'aglio preventivamente privato del germoglio, i capperi dissalati e qualche foglia di mentuccia, indi conditeci il riso crudo e amalgamate con i due cucchiai rasi d'olio.

Acchiappate quindi i carciofi, sgrullate via l'acqua in eccesso, riempite ciascuno con una cucchiaiata di riso condito e metteteli a capa su dentro una bella pentola antiaderente dove stiano comodi ma affettuosamente vicini; condite la superficie con qualche rondella di gambo, aggiungete quindi due bicchieri d'acqua o quanto basta perché la stessa arrivi alla metà dei carciofi e buttateci dentro il resto delle rondelle.
A questo punto accendete il fuoco ben vivace, coprite la pentola con il solito coperchio di vetro e state lì pazienti e armati di cucchiaio. Non appena l'acqua bolle, scoperchiate e iniziate con santa pazienza a versarla a cucchiaiate sui carciofi: ciò aiuterà a far cuocere il riso, nonché a insaporirlo ulteriormente visto che l'acqua più bolle più si aromatizza grazie alle rondelline di gambo e ai carciofi stessi.
Continuate a intervalli regolari. Se fosse necessario, aggiungete altra acqua, possibilmente non gelida. Andate avanti finché il riso non è al dente, al che spegnete il fuoco.
Lasciate riposare qualche minuto, quindi preparatevi a mettere i carciofi imbottiti sul piatto di portata: per fare ciò vi serviranno due cucchiai con cui prenderli uno per uno a pinza, nonché un filino di destrezza (così evitate magari di spataffiarli come è successo a me con i primi due, prima di prenderci la mano). Sistemati i carciofi decorate quindi con le rondelle di gambo lesse, un'ulteriore manciatina di foglie di menta tritate se gradite, e portate in tavola.

Vista la caldazza che fa potete però anche comportarvi come segue: lasciate raffreddare, cacciate quindi il piatto dentro al frigo, lasciate lì per un paio di orette e quindi servite dopo aver lasciato i carciofi una decina di minuti a temperatura ambiente. I commensali gradiranno assai e, giacché il piatto è sostanzioso e appetitoso, basterà un po' di formaggio ad accompagnare il tutto e a farvi, come si suol dire, svoltare la cena senza tema di lagne altrui.

lunedì 7 giugno 2010

Le fettuccine di Dottor P

A casa mia si usa fare diversi tipi di pasta fresca: le lasagne, i cavatelli, gli gnocchi, i sagnetelle, i quadrucci, i taccozze, e chi più ne ha più ne metta. Le fettuccine, o tagliatelle che dir si voglia, no. Nel Sannio non ve ne è traccia. Per cui io non ho mai imparato. Ovvero, non avevo imparato fino a poco tempo fa, quando Dottor P (giovine ingegnere gastronomo che i miei lettori già conoscono assai bene) si è gentilmente offerto di farmi da maestro.

Dottor P come sfoglina è formidabile. Ha avuto come insegnante la sua nonnina. Lavora con un mattarello lungo quando la Statale Braccianese, che in famiglia si tramandano da un secolo o giù di lì. E fa delle fettuccine paurosamente buone. Le potete vedere nella foto che adorna l'inizio del post. Sfido chiunque ad affermare che non gli vien fame a guardarle. C'è chi si contenta delle tagliatelle di nonna Pina, chi invece può deliziarsi con le fettuccine di Dottor P. Non c'è paragone.

Quanto segue è il resoconto del fettuccine workshop che si è tenuto nel mio puffesco appartamento una assolata domenica primaverile. Ammirate, prego. E prendete nota, perché scoprirete che tirare una sfoglia come si confà non è così diabolicamente difficile come può sembrare a tutta prima.

Ingredienti per ciascun commensale:
un uovo
80 grammi di semola di grano duro di quella buona
buona volontà, leggerezza d'animo e allegria

Preparazione:
in primis si fa la classica fontana sulla spianatoia, e al suo interno si pongono le uova: badate di sgusciarle in un piatto una alla volta, fosse mai che un uovo fosse partito e vi costringesse a rifar tutto da capo.
Acchiappate quindi una forchetta, e sbattete le uova come se steste facendo una frittata, provvedendo a incorporare pian piano la farina.
Quando il composto di uova e farina è diventato ben cremoso, è arrivato il momento di darsi da fare con le mani.
Impastando con gagliardìa fare incorporare il resto della farina e continuate finché la pasta è diventata ben liscia, quindi dividetela in adeguato numero di pallotte grandi più o meno quanto una palla da baseball.
Adesso arriva il bello: lavorando con le mani appiattite le pallottole di pasta fino a dargli una forma di pizzetta con spessore uniforme, cospargetene la superficie di semola, ponetele sul piano ben infarinato pure lui, mettete mano al matterello e iniziate a stenderle, alternando i lati in modo che venga una sfoglia il più possibile uniforme e quadrotta.
Continuate lavorando con attenzione e vedrete che la pasta diventa man mano sempre più sottile: andate avanti finché non è diventata trasparente, cosa che potrete verificare o con la "prova mano", o meglio ancora con la "prova canovaccio" (se si vedono i disegnini sottostanti lo stesso, è stesa a sufficienza).
Lasciate quindi riposare la sfoglia per una mezzoretta sul citato canovaccio, finché non si è asciugata per bene. Fatto ciò, è arrivato il fettuccina moment: rimettete la sfoglia sul piano ben infarinato, cospargetela parimenti di semola, e iniziate a ripiegarla su se stessa arrivando fino al centro. Lo spessore delle pieghe deve essere di circa due dita. Giunti al centro, ripiegate l'altra metà nello stesso modo.
Munitevi quindi di un coltello che sia a lama liscia, e tagliate delle strisce della larghezza di mezzo centimetro scarso badando di fare un taglio il più possibile dritto. Se non vi riesce, le fettuccine vi verranno a fisarmonica. Poco male: Dottor P assicura che è sufficiente un po' di allenamento per ottenerle come si confà, e comunque son buone lo stesso.
E' arrivato il momento del trucco dello sfoglino ingegnere. Passate con delicatezza il coltello sotto la parte centrale delle striscette, e sollevate: vedrete le fettuccine che si dipanano da sé. E vi sembrerà un gioco di prestigio. Voilà!
Le fettuccine sì ben realizzate van quindi lasciate asciugare per un'oretta circa sul piano di lavoro, delicatamente allargate in modo che non si appiccichino.
A questo punto siete pronti per il gran finale. Mettete a scaldare adeguata quantità d'acqua addizionata di sale in capace pentolone, e quando essa bolle, giù le fettuccine. Saranno pronte, come da tradizione, quando salgono a galla: voi però assaggiatele prima di scolarle, in modo che siano cotte esattamente a vostro gusto.
Scolate le fettuccine, c'è ovviamente da condirle. Nonna Pina se non erro per le sue tagliatelle usava il ragù. Io ho usato il classico sughetto della tradizione familiare, a base di pelati casalinghi, foglie di basilico e filino d'olio, lasciato sobbollire a fuoco bassissimo per un paio d'ore. Vi assicuro che ha retto la prova, con o senza l'aggiunta della palata di cacio che io sul mio piatto non faccio mai mancare.
Alla fine di tutto ciò Dottor P, l'amato bene e io ci siam seduti solennemente a tavola, e abbiamo dato il via alla danza delle forchette. E vi assicuro che di rado un pranzo domenicale mi ha dato altrettanta soddisfazione.
Cimentatevi anche voi. La riuscita è sicura: garantisce Dottor P :)

domenica 6 giugno 2010

Guappi di cartone, mostri di plastica: Beowulf al cinema

Lo so: sono stata assente per parecchio. Giustificata, va detto. Sono indietrissimo con cose di cucina. Ho in archivio almeno una sessantina di ricette da postare. E mi arrivano rampogne da per ogni dove. Soprattutto da Tania, che proprio l'altroieri mi ha benevolmente cazziato su quel social network tanto famoso quanto barboso per la mia latitanza qui sopra.
E allora, mi chiederete forse, perché anziché postare una bella ricetta ti dedichi a quella che fin dal titolo si preannuncia come una stroncatura di quelle co' tutto 'o sentimento?
Semplice: lo devo a Tania. Tania si diverte come una matta agli scherzucci da dozzina con cui la sottoscritta riduce a macinato il film o la serie di turno. Per cui, cara Tania, eccomi qui: e propongo a te e ai benigni lettori un rant con tutti i crismi della legalità sul fatto che, mannaggia alla miseria, sono arcistufa di vedere massacrati sul grande schermo i classici della letteratura.

Chi ha l'abitudine di andare al cinema si sarà accorto che da lunga pezza gli studios sono, per dirla con un eufemismo, un po' a corto di idee. Mi si dirà che son ben scema a sperare qualcosa di nuovo dagli sfornatori di blockbuster a stelle e strisce, e che farei bene a rivolgermi altrove: ma capita una volta ogni tanto che uno gradisca, anziché il capolavoro iraniano di turno o quel classico del cinema americano anni Settanta, uno di quei bei filmoni stracolmi di effetti speciali da guardare mentre si dà fondo alla vaschetta del gelato. Alcuni, va detto, sono ottimi: The dark knight l'ho trovato splendido quanto il suo cast, e mi sono assai divertita con i primi due X-men. Guardacaso, si tratta di due film tratti da fumetti. E i fumetti, in genere, si prestano piuttosto bene a una trasposizione cinematografica, purché uno sappia il suo mestiere e l'argomento: non a caso, negli ultimi anni ne sono usciti a palate. Il problema è quando i produttori, giacché pure le decine di personaggi gentilmente forniti da Marvel e DC Comics si stan pian piano esaurendo, decidono che è il caso di andare a ravanare altrove.
I più pavidi fanno mesti remake di serie televisive o film usciti lunga pezza fa, con risultati sempre disastrosi.
Poi ci sono quelli che prima di vendersi alla satanica mecca losangelina han fatto un paio di esami di letteratura al college e se ne escono con idee meravigliose cui non ha pensato nessuno.

Una di queste idee meravigliose cui non aveva pensato nessuno è stata quella di fare un film sul Beowulf.

E che roba è, mi chiederà più d'uno.
E' roba che se non siete studenti di anglistica potete tranquillamente ignorare. Se poi nonostante ciò volete farvi del male, sappiate che è il primo epos nato in terra britannica, composto nel sesto secolo o giù di lì e messo su carta intorno all'anno Mille. Se poi volete farvi ancora più male potete leggerlo, e magari scoprire che è un testo ricchissimo di motivi di interesse.

La storia è così classica che di più non si può: un eroe sconfigge in successione due temibili avversari, diviene re, poi ne sconfigge un terzo e assurge alla gloria suprema. In teoria, ideale per chi cerca materiale per un cosiddetto high concept movie, di quelli cioè la cui trama si può agevolmente riassumere su un post it.
In pratica, visto che come diceva il principe è la somma che fa il totale, e nel Beowulf oltre alla trama spicciola ci sono un po' di altre cosette, no.
Ma andiamo con ordine.

Beowulf è un testo densissimo. Ci sono una marea di elementi fondamentali per capirne il contesto, che è parecchio specifico. Tratta di un eroe il cui nome vuoi dire "orso" - beo-wulf, lupo delle api o nemico delle api -, e vi risparmio tutti i significati che ciò può assumere, nonché il valore di questo nome come kenning (che cos'è una kenning? Non ve lo dico: scoperchierei un barattolo di vermi. Ma sappiate che sull'elemento formulare nella poesia germanica sono state scritte pagine a milioni). La psicologia di Beowulf è, cosa tutt'altro che strana per la produzione letteraria dell'epoca, un filino scarsa: è un guerriero, e prima di ogni altra cosa desidera la fama. Il che è giusto, in quanto ai tempi era il non plus ultra il fatto che il proprio nome venisse tramandato alle future generazioni. Fama e gloria si acquisiscono ovviamente sul campo, mica facendo la calzetta: per cui l'eroe eponimo tanto per cominciare fa secco un essere di nome Grendel (pure qui vai di metafora: il nome vuol dire "lo stritolatore" o "colui che digrigna i denti") il quale sta facendo strage dei guerrieri di re Hrothgar.

I più curiosi si chiederanno: ma Grendel chi è, e perché fa quello che fa?
Cominciamo dalla seconda: Grendel è inferocito nero perché re Hrothgar ha fatto costruire una hall, ovvero un luogo di ritrovo, per sé e i suoi. Lì bevono e cantano e fanno chiasso, cosa che lo infastidisce mortalmente. Tutto lì? Tutto lì. Ed è tantissimo. In primis, Grendel è l'antitesi perfetta di ciò che è un guerriero: è uno che non ha patronimico, si muove da solo (non ha un comitatus ovvero, per così dire, un gruppo di riferimento), non ha armi, mentre in genere un guerriero che si rispetti l'arma ce l'ha e ha pure un nome lungo un chilometro. Avrebbe pure il marchio di Caino a renderlo ancora di più un outcast, ed è dimostrazione di come la successiva tradizione cristiana si sia innestata bellamente su quella germanica. E il riso e il canto, probabilmente, lo infastidiscono per un ulteriore motivo: ride e canta chi è vivo. Grendel è altro non solo perché è tutto ciò che un guerriero non è (ovvero, non ha nessun ruolo nella società), ma perché è legato al mondo della morte: non a caso, divora gli uomini.

Ma che essere mostruoso, si dirà.
Nella valenza sì, sicuramente. Nell'aspetto, vai a sapere. L'unica cosa sicura del testo è che deve essere piuttosto grande, visto che ci vogliono quattro uomini per portare la sua testa. Ma qualunque dettaglio mostruoso sul suo aspetto è frutto, guarda un po', di traduzioni sbagliate. In tempi neanche troppo recenti fior di studiosi si son scagliati contro traduttori disinvolti che, tanto per premere sul pedale del gore, rendevano ad esempio "mani" con "artigli" o "avversario" con "mostro".
Lo stesso vale per sua madre. La quale manco è così alta come il figliolo. E le varie formule che la definiscono sono "signora (donna) del lago" (è infatti una creatura acquatica) o "donna guerriera". E' proprio quest'ultimo aspetto, per inciso, a renderla un mostro - nel senso classico - agli occhi della società germanica: la donna deve stare a casa, porgere la coppa all'uomo ed essere tessitrice di pace, ovvero fungere in quanto potenziale sposa da elemento per dirimere senza sangue le controversie fra i clan. Fosse mai che si azzardi a combattere. Vorrà mica far l'uomo? Orrore.

Assai interessante pure il modo in cui Beowulf li fa secchi. Visto che è in cerca di fama, e che Grendel combatte senza armi, ci sarebbe ben poca gloria a lottare contro di lui con la spada: pertanto si spoglia ignudo e ignudo lo sconfigge, strappandogli un braccio con conseguente morte dell'avversario per dissanguamento. Ovviamente gli si fa gran festa, la quale viene rovinata dal fatto che l'acquatica mammina decide di recuperare il braccio del figliolo e ammazza uno dei guerrieri del re. Beowulf decide di lottare ignudo anche qui? Macché: sai che gloria uccidere una donna. Va armato di tutto punto onde risolvere la faccenda nel più breve tempo possibile e liberarsi di quella rompiballe che gli ha interrotto la festa sul più bello. Poi ci mette un pochino visto che la signora è un po' difficile da ammazzare e un sospetto consigliere del re gli ha dato un'arma che non serve a niente, ma questi son dettagli.

Con quanto sopra ho scalfito appena la superficie del pozzo senza fondo che è il Beowulf, e ci è voluto un papiro. Avrete notato che è tutta roba magari assai interessante, ma che dal punto di vista dello spettacolo ci si fa la birra. In compenso, la trama vabè che è il sogno del produttore di high concept movies, ma magari è un po' scarniccia. L'eroe, come dire, manca un pochino di profondità. E le motivazioni, sia dell'eroe che del suo oppositore, non paiono molto polpose.

Per cui che fa il produttore hollywoodiano?
Un casino.
E come se non bastasse si fa pure battere sul tempo.
Un film hollywoodiano sul Beowulf era infatti in programma da diversi anni, ma si sa che lì le cose vanno per le lunghe. Sicché tal Sturla Gunnarsson, che nonostante il nome è canadese, ha ben pensato di fare il suo. Ha messo insieme un buon cast, e per girare Beowulf e Grendel nell'anno di grazia 2004 ha fatto rotta per l'Islanda. Sì, l'Islanda. Ci teneva all'autenticità dell'atmosfera.
Gunnarsson ci tiene a tal punto, all'autenticità dell'atmosfera, da usare addirittura una nave di epoca vichinga (che toccava svuotare con la pompa onde non andare a fondo visto che faceva acqua da tutte le parti, sgradevole anche a Fregene, ma un po' peggio se si è in un posto dove la temperatura va sotto zero). Ha fatto realizzare costruzioni in tutto rispondenti a quelle dell'epoca, ed è un piacere vedere una rozza hall fatta di tronchi e non di pietra. Abiti e acconciature hanno la loro rispondenza. Guardando il film si rabbrividisce insieme ai personaggi martellati dal gelo (le riprese, per una serie di sfortunate circostanze, si sono infatti svolte in autunno inoltrato). I paesaggi tolgono il fiato, e così la fotografia.
L'autenticità va però a farsi benedire causa la trama.

In primis, Beowulf è un uomo tanto, tanto sensibile. Si aggira con sguardo profondo e melanconico per verdi colline e acque ghiacciate, tentando di capire perché Grendel si comporti sì malamente. Scoprirà solo verso la fine ciò che lo spettatore sa dall'inizio, ovvero che il poveretto si vuol vendicare del malvagio re e dei suoi scherani che gli hanno ammazzato il padre. Nel film si dice che è un troll, cosa da far piangere a calde lacrime anche chi non sia un anglista. In compenso in nome del realismo è solo un uomo un po' più grosso del normale (però barbuto fin dal piccolo) che Beowulf riesce a sconfiggere, vestito e munito di armi, per il rotto della cuffia. In tutto ciò ci si mette anche la strega del villaggio, tale Selma, la quale è ovviamente rossa di capelli e predice il futuro. Il climax arriva quando Beowulf sconfigge la mamma di Grendel: scopre che Grendel ha un figlio. Ebbene sì, un figlio. La madre, ça va sans dire, è la strega Selma, e lo spettatore lo capisce ben prima di Beowulf (che sarà tanto sensibile ma è evidentemente un po' scemo, e l'espressione immobile che gli conferisce Gerard Butler non aiuta) dai capelli color carota. Beowulf fa in modo che entrambi si salvino dalla furia dei guerrieri di Hrothgar e riprende il mare, non senza aver prima eretto una bella tomba a tumulo per il povero Grendel sotto l'occhio umido del di lui creaturo.
Se la trama fa pena, il dialogo è semplicemente risibile. Per motivi non chiari, le parolacce sono elementi chiave della sintassi: cavi il fuck e la frase non scorre. Immaginatevi i coattoni del New Jersey trapiantati in Scandinavia e con barbe e capelli fluenti al posto dei chili di gel e potete avere un'idea dell'effetto. Il regista avrà probabilmente pensato che la coprolalia in quel mondo di rozzi guerrieri contribuisse all'autenticità. Anche in questo caso, si sbagliava.

Il risultato è poco meno che un disastro, o un'occasione molto, molto persa se si vuol essere gentili. L'idea di fare di Grendel un incompreso farebbe cappottare dal ridere i germanici del quinto secolo come quelli dell'anno Mille a qualsivoglia gruppo appartenessero, e se si voleva fare un apologo sulla difficoltà di essere diversi e per questo sacrificabili (un tema che viene più volte adombrato: Grendel è abbigliato come quei poveracci che nell'antica società scandinava venivano uccisi quali capri espiatori, Selma è vittima degli stupri di coloro che l'hanno cacciata dal villaggio, e Grendel è il solo che non la violenta) non si comprende perché fosse necessario andare a scomodare un classico letterario che con tutto ciò non ha un bel niente a che fare.

Per carità: poteva essere peggio.
Poteva essere il Beowulf firmato nel 2007 da Robert Zemeckis.
Che fa pena. Senza appello. E quel poco dell'originale che c'è, lo rende ancora più ridicolo.

La storia, sempre quella è. Qui però Beowulf somiglia molto a quello letterario. Profondità psicologica prossima allo zero. Perfettamente espressa da una faccia immobile. La quale è immobile perché Zemeckis ha ben pensato di realizzare il film in motion capture. E per fare un film in motion capture, coinvolge attori come John Malkovich, Crispin Glover e Robin Wright (ci sarebbe anche Anthony Hopkins, ma ha smesso di recitare trent'anni fa per cui non lo considero) appiattendone completamente movenze, sfumature e quant'altro. Una pensata geniale. Ed è solo la prima.

La seconda è quella di tramutare il Beowulf in una storiaccia fantasy che pare partorita dal più tonto degli aficionados sedicenni in una serata in cui era particolarmente gonfio di birra.

E cosa non può mancare in una storiaccia fantasy come dio comanda.
Ma è ovvio, il mostro. Anzi, mettiamocene più d'uno, ché tanto il testo originale si presta così bene. Voilà!
Dubito assai che riconoscereste l'attore sotto tutti codesti dentoni e artigli. Per inciso, è Crispin Glover, e il fatto che Zemeckis lo impieghi per dar corpo a ciò che pare una mummia abortita in CGI va al di là della comprensione. I cultori del folklore britannico apprezzeranno il fatto che sia privo di pelle e abbia un testone gigante e zannuto come lo spaventoso Nuckelavee, uno dei mostri più orrendi mai partoriti dalla fantasia locale. Il quale ovviamente con il Beowulf non ci azzecca niente. E se il suo aspetto è risibile, altrettanto lo è la motivazione del suo attacco ai guerrieri: il rumore di canti e risate gli dà fastidio in quanto ha un timpano esterno, che gli rende sofferenza qualunque suono. Ovviamente quello è il punto debole grazie al quale Beowulf lo sconfigge: e lo fa lottando ignudo come testo comanda. Con vari oggetti che si frappongono fra le sue parti intime e lo spettatore, ovviamente. E' pur sempre Hollywood, e se viene adattato il testo alle esigenze, figurati se non lo vengono le inquadrature.

Fatto a pezzi il povero Grendel, che torna da mammà frignando e parlando in inglese antico mentre agonizza, Beowulf affronta la di lui genitrice. Che non è per niente mostruosa: ha infatti le sembianze di Angelina Jolie. La quale è ignuda, ma convenientemente coperta di vernice d'oro, così la famiglia non si scandolezza. In compenso ha i tacchi a spillo, che sono il non plus ultra se devi aggirarti in un antro umido, ed erano di gran moda nella società germanica altomedioevale. Non mi credete? Ammirate, prego.
Uno che si trova di fronte Angelina Jolie può ragionevolmente dirle di no? Sarebbe follia. E infatti l'eroe le casca ai piedi come un baccalà. La cosa farebbe scuotere la testa a qualunque sassone antico, ma è ben funzionale per metterci qualche bella palettata di psicologia spicciola freudiana che nel blockbuster americano che si rispetti non può mancare: Beowulf, che millanta di aver ammazzato la maliarda, scoprirà che Grendel era il bel frutto della succitata maliarda e di re Hrothgart. Quali funeste conseguenze avrà il suo accoppiamento con la bellona tacco dodici?
Ma è ovvio, il mostro di fine livello.
Ovvero il drago. Che nell'originale è un worm, ovvero un enorme serpente, e qui diventa il classico dragone alato e sputafuoco come nel peggior fantasy. Vi risparmio la valenza che aveva il drago nel Beowulf originale: è in sintesi un simbolo di tutto ciò che può essere un pessimo re. Sai che noia. Vuoi mettere renderlo un simbolo della debolezza dell'eroe, il quale assai convenientemente non fa che ribadire a ogni piè sospinto che gli eroi non sono mai esistiti? Non dimentichiamolo, con il plus della caduta sessuale nelle braccia della maliarda mostruosa. Un Freddy Kruger in salsa letteraria. Cosa volere di più?

Ad esempio, che Beowulf si spicci a spacciare lo scaglioso figlioletto. La scena della lotta è infinita, fra fiammate, torri che crollano e tuffi nel profondo del mare. Beowulf pare il cugino scemo del capitano Achab, e se il corrusco comandante della baleniera ci rimetteva una gamba lui per ammazzare il drago deve sacrificare un braccio, quale giusta punizione, of course, per aver mutilato il povero Grendel. Alla fine, muoiono tutti e due. Beowulf, ovviamente, con infinita agonia in cui dice cose tanto tanto profonde. Il figlio, altrettanto ovviamente, riassumendo l'aspetto umano, che è quello del papà da giovine, però pelato e tutto tinto d'oro.

Nel finale, che mutua il funerale con assoluta banalità dal ciclo arturiano (a chi interessasse, il Beowulf originale veniva come d'usanza seppellito sotto un tumulo), vengono pure date le premesse per il necessario sequel. Ve le risparmio, come spero che ci venga risparmiato un Beowulf 2. Il primo ha già fatto tutti i danni che era possibile fare. Ma si sa che le vie dello schifo formato blockbuster sono infinite.

Voi mi direte: uh, e quante storie. Hanno semplicemente ripreso della fuffa vecchia di mille anni e l'hanno adattata per fare due film. Sai che problema.

Sì. E' un problema.

Perché prendere qualsivoglia materiale, che ha una specifica valenza ed è stato creato in un determinato contesto e per un determinato motivo, snaturandolo completamente per farci in un caso un filmetto abortito, nell'altro una cazzata pazzesca, è cosa che grida vendetta.

E' cosa che grida ancora più vendetta se, come nello specifico caso, si tratta di uno dei capisaldi della letteratura medioevale, non solo britannica.

Per immaginare che cosa significhi, provate a trasporre la cosa nel nostro ambito. Ve la immaginate, non so, una Divina commedia in cui Dante deve prendere a mazzate diavoli e mostri di turno per salvare Beatrice che è nelle grinfie di Lucifero giù nel fondo dell'inferno?

Cosa dite? Ci hanno fatto il videogame?

Vado a rileggermi la Vita Nova. E se sento dire che qualche producer vuole trarci un film o un videogioco, appetto a me Grendel parrà la vispa Teresa, e sarà il miglior reality blockbuster di tutti i tempi.
Paperblog