giovedì 7 gennaio 2010

Come eravamo, come siamo: Mussolini's Italy di R.J.B. Bosworth

Faccio una necessaria premessa: io di economia non capisco un beneamato zero.
Mi consola il fatto di essere in buona compagnia: i giornalisti italiani che si occupano della materia pare ne capiscano altrettanto.
Questo, quantomeno, a giudicare dai commenti al vetriolo con cui su Noise from Amerika, blog cui ho già fatto accenno altrove, si fanno a brani le articolesse sull'argomento che compaiono sui quotidiani dello Stivale.
Per chi non lo conoscesse, il blog succitato è curato da un gruppo di economisti italiani che hanno ben pensato di veleggiare altrove, e che a intervalli regolari infilzano le prodezze delle classi dirigenti nostrane. Lo fanno con maestria, con notevole sense of humour e con sufficiente chiarezza da rendere gli argomenti digeribili e comprensibili persino a chi, come me, non ne capisce un'acca.
Sicché leggo sempre con gran goduria i loro post, e ancor più i commenti ai suddetti, in cui spesse volte si scatena un tale ping pong di colpi di mortaio a cura dei partecipanti alla discussione che le malcapitate classi dirigenti si ritrovano alla fine con più buchi di un calzino dopo un trekking.
Di recente ho letto un commento in cui Michele Boldrin, uno dei padri fondatori del blog, suggeriva la lettura di Mussolini's Italy, saggio sul Ventennio di R.J.B. Bosworth.
Il nome mi era del tutto nuovo. Per cui sono andata a ravanare in Internet e ho scoperto che l'autore è un professore australiano che, oltre a insegnare in patria, ha una cattedra all'università di Reading, e ha pubblicato diversi libri sul Novecento italiano.
La nazionalità era un punto a favore: il Ventennio ancora oggi scatena in Italia in ambito accademico e non solo polemiche querule e farraginose in cui si prende di mira non la qualità del lavoro ma l'orientamento politico di chi ha prodotto il saggio o l'articolo di turno (e prendendo di mira l'orientamento politico, per inciso, quasi sempre ci si azzecca: la qual cosa è per me, che ho il livello di interesse per qualsivoglia schieramento politico pari a quello che può manifestare un gatto, sommamente irritante), per cui c'era la speranza che l'opinione di un autore nato a qualche miglio di distanza dal cosidetto Bel Paese non fosse biased.
Altro punto a favore era che a consigliare il libro fosse Boldrin. Il quale, per quel che ne posso capire io, è un signore di acuta intelligenza, delicato quanto un maglio nell'esprimere i suoi giudizi, e capace di squisite analisi letterarie. Pertanto, se dà consigli di lettura, per quanto mi riguarda è opportuno prendere nota.
Mussolini's Italy è uscito anche in italiano per la Mondadori. Visto che però sulle traduzioni proposte negli ultimi anni da questa casa editrice mi sono trovata spesse volte a tirare santioni da far concorrenza a un coltivatore diretto del Triveneto, ho preferito acquistarlo in inglese.
E' stata una lettura molto interessante. Per cui a chi non sa l'inglese consiglio comunque la traduzione, e pazienza per i santioni.
Non faccio un riassunto, ché con un testo di seicento pagine circa sarebbe cosa ben al di là delle mie povere forze, e men che meno provo a farne un'analisi. Non è il mio mestiere. E poi, perché rovinarvi la sorpresa.
Io, che sono una capra in storia quasi quanto in economia, di sorprese ne ho avute parecchie.
Per la prima volta sono riuscita a sistemare quel poco che sapevo in un contesto che avesse un filo logico. Questo perché il signor Bosworth, come tutti i benedetti studiosi di scuola anglosassone, spiega le cose con chiarezza adamantina.
Così ho potuto finalmente capire come dall'Italia liberale ma tutt'altro che libera che ha preceduto l'ascesa del pelato di Predappio si sia arrivati al Ventennio. Nonché come il succitato pelato abbia provato a fascistizzare la società, e del perché gli sia andata male nonostante le apparenze. E come mai, una volta caduto il fascismo, gli italiani si siano buttati tutto alle spalle fischiettando come se niente fosse.
La società pre-Ventennio, mostra il signor Bosworth dati alla mano, era caratterizzata da un clientelismo assai ben radicato: ovvero, non si poteva far nulla o ottenere nulla se non si era amici di, figli di, parenti di. Strumento principale per ottenere un lavoro o fare carriera, la raccomandazione. Le alte sfere dell'industria andavano a braccetto con la classe politica, giocando sottobanco, distribuendo denaro e favori e ottenendo la controparte. Gli uomini di potere si comportavano da ras nelle zone territoriali che governavano, con le autorità che chiudevano un occhio e spesso entrambi perché le ramificazioni clientelari favorivano anche loro, assicurando fra l'altro un capillare controllo del territorio.
Un vero orrore, converranno tutti, e di qualunque opinione politica siano.
Dopo la Grande Guerra tutta una serie di tensioni rimaste più o meno latenti scoppiano. Il che, per dirla in buona lingua, causa un gran casino.
E qui sale alla ribalta Benito Mussolini da Predappio, che dopo una serie di triccheballacche con ampio spargimento di sangue e un discreto numero di morti ammazzati, dà il via alla Rivoluzione Fascista.
Rivoluzione, mi insegna il vocabolario, vuol dire "mutamento improvviso e profondo che comporta la rottura di un modello precedente e il sorgere di un nuovo modello".
Pertanto uno si dovrebbe aspettare un cambiamento radicale rispetto alla zozzeria descritta poco sopra. Cambiamento che il fascismo proclama a destra e a manca.
Bosworth, sempre dati alla mano, descrive la società del Ventennio con minuzia certosina.
La descrizione si può egregiamente riassumere come segue: chiacchiere e camicia nera.
Perché non cambia un amato zero. Clientelismo, gestione della cosa pubblica come cosa propria da Milano alla Calabria e connivenza fra alte sfere economiche e politiche continuano esattamente come prima.
In certe occasioni, non cambiano nemmeno i nomi di chi è coinvolto. Tipo un alto papavero responsabile della disastrosa conduzione dell'esercito italiano nella Grande Guerra, che si ritrova amenamente in sella per tutto il Ventennio, e se per questo anche oltre. Ricchi premi e bacio accademico a chi sa dirmi chi è senza aver letto prima il libro.
Bosworth non prende parti. E, fra un documento e l'altro, contribuisce anche a sfatare un po' di miti. Ad esempio, il debellamento della malaria grazie alla bonifica delle paludi pontine. Peccato che la zanzara anofele abbia deciso di sloggiare solo nel Dopoguerra grazie al DDT gentilmente fornito dagli americani. Oppure la vulgata che nelle colonie gli italiani si siano comportati in maniera assai più umana rispetto a inglesi, francesi, tedeschi e quant'altro. Le tonnellate di armi chimiche con cui Etiopia e Libia sono state bombardate a tappeto e la presenza di campi di concentramento per la popolazione locale non danno esattamente questa impressione.
La parte più interessante del libro riguarda l'indefesso martellare del pelato di Predappio per fascistizzare l'italica società e creare l'uomo nuovo, il tutto con il contributo di un tot di cortigiani che tramite stampa e altri organi di informazione o intrattenimento gli davano manforte spesso con untuoso ossequio, di rado per autentico credo e assai più di frequente nel tentativo di far carriera (e anche qui, niente di nuovo sotto il sole). Il motivo del fallimento è già nelle premesse descritte sopra: dove conta il rapporto clientelare e la fitta rete di relazioni parentali, amicali o con personaggi di riferimento al comando, lo Stato - di qualunque natura esso sia - non può arrivare. Arriva al massimo in superficie, ma la sostanza non cambia.
Il che, per un motivo o per l'altro, non mi suona esattamente nuovo.
E forse spiega anche perché, arrivato il Dopoguerra, gli italiani si siano buttati il Ventennio dietro le spalle come se niente fosse, facendolo diventare di volta in volta occasione di schermaglia politica, di nostalgia appesantita da paccottiglie varie ramazzate senza un minimo di cognizione (i buontemponi che hanno per suoneria del cellulare "Faccetta nera" resterebbero di sale nello scoprire che il Duce detestava quella canzone: fosse mai che l'italico soldato figliasse con la bella abissina inquinando la razza) o di sfogo per dementi che di professione danno mazzate allo stadio e fuori.
Ci sono molte altre cose interessanti nel libro. Vi lascio il piacere di scoprirle da voi.
Io solo solo che, finita la lettura, ho chiuso il libro con una sensazione non esattamente gradevole.
Quella che la malaise della società italiana sia ben più vecchia del Ventennio, e che sia viva e vegeta.
Magari mi sbaglio.
Dimenticavo: buon anno.

2 commenti:

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