venerdì 10 luglio 2009

Il pane e le ginestre

Questi dolci avrebbero meritato ben altra cornice, e ben altro fotografo. Solo che ho avuto appena il tempo di ritrarli prima di regalarli al mio amico Mauro, che ne è diventato un grande estimatore dalla prima volta che li ha assaggiati. Ovviamente non sono opera delle mie inesperte manine, ma frutto della sapienza di più generazioni di fornai: nella fattispecie, quelli che tengono la miglior panetteria del paesello delle ginestre. La quale panetteria, come tutti i luoghi che custodiscono cose squisite (ricordate il capitolo "Conosco un posticino" del Bar Sport di Stefano Benni?), è ben nota alla popolazione locale ma si lascia trovare da turisti e viaggiatori di passaggio solo a prezzo di inenarrabili scarpinate in centro storico, fra salite e discese a strappo che si concludono inevitabilmente di fronte a cortili deserti, strapiombi sul vallone sottostante a malapena protetti da una rete o buie cantine da cui escono zaffate di mosto irracindito dai secoli.
Gli amici che sono andati da soli in paese sono tornati tutti a mani vuote, maledicendomi per l'imprecisione delle mie indicazioni. Le quali, per inciso, a me sembrano più che chiare. Giudicate voi, dalla telefonata-tipo che ricevo con voce alterata e conversazione che va e viene causa presenza dell'interlocutore nelle più profonde viscere del borgo.
"Ahò, ma dove sta questo posto?"
"Ma dove sei?"
"In centro!"
"Ma in centro dove?"
"E che ne so! Sti vicoli so' tutti uguali! Porticine, loggette, cambiano solo i colori dei gatti!"
"Ma salendo dalla Porta sei andato a sinistra o a destra?"
"Dritto! Sono andato dritto! Come avevi detto tu!"
"Eh, e infatti hai fatto bene. Hai tenuto come riferimento il campanile?"
"Quale campanile? Qui si sprecano, i campanili!"
"Te l'avevo detto: quello romanico. Arrivato al campanile prendi la salita a destr..."
"Non lo so come è campanile romanico! Sono un matematico, non un architetto!"
"Male. Vedi che le cosiddette scienze dure non sono tutto? Così impari a prendermi in giro perché non so fare le frazioni."
(Rumori incomprensibili inframmezzati dalla vocina alterata dell'interlocutore)
"Pronto? Che hai detto, non si sente niente!"
"Meglio per te. Senti, io sto davanti a un vicolo cieco. Mo' provo a tornare indietro e ti richiamo!"
"Guarda che è semplice, te l'ho detto... Devi prendere come riferimento il campanile romanico, che è quello quadrato, non quello a punta che per inciso è in stile gotico. Lì prendi la salita a destra, e dopo qualche decina di metri trovi la panetteria sempre sulla destra, è una porticina verde, si scendono le scale, sta vicino a un negozio di rigattiere... Ma basta che segui il profumo e la trovi."
Passa qualche minuto. Driiiiinnn.
"Pronto?"
"Sto in uno slargo e sopra c'è un ponte di ferro che sta in mezzo fra un palazzone tipo un castello e una specie di parco. Cè vicino un vicoletto e c'è scritto su un pezzo di legno "Da Terremoto - il sabato prenotazione obbligatoria", è quello giusto?"
"No."
Io ritengo che i miei amici e conoscenti non riescano a trovare la panetteria perché impediti dal fatto di essere matematici, informatici, ingegneri, studiosi di filologia germanica oppure montatori, registi di cortometraggi, musicisti, psicologi reichiani: ovvero, tutte categorie che o hanno la testa fra le nuvole, o sono "de coccio" come si suol dire nell'Urbe, o tutt'e due. In genere c'è pure l'aggravante che sono maschi, per cui non chiedono mai la strada.
Fatto sta che si perdono le squisitezze malamente ritratte nella foto in cima, e che ora vado a descrivere.
A sinistra un grande classico: ciambelline all'anice, ottime da sole, squisite da pucciare nel vino per chi non è astemio come la sottoscritta. Se ne possono comperare a cuor leggero grandi quantità, da stoccare in scatole di latta per tante e tante merende: mantengono la fragranza per settimane, ma non riuscirete a farle durare così a lungo.
Al centro, uno dei cavalli di battaglia del forno: pasticcini di pasta di mandorle e di nocciole. Si troveranno magari anche altrove, ma buoni così, compatti e morbidi al tempo stesso, no. Tocco di finesse, la cottura su un foglio di ostia, come si usava un tempo: la zia Lella quando li ha assaggiati ha decretato che erano buoni quasi quanto quelli fatti da mia nonna, un complimento che dice tutto.
In alto, un piccolo capolavoro di raffinatezza: le medaglie, biscottini che prevedono una base di pasta frolla, un ripieno di marmellata di prugne locali (i cosiddetti prungancini) e un cerchietto di pasta di mandorle a chiudere il tutto. Sono di quei temibili dolcetti che si mangiano a nastro, manco fossero ciliege: ci si rende conto di aver esaurito il sacchetto quando oramai è troppo tardi.
In ultimo, uno dei simboli gastronomici del paesello delle ginestre. Sono le barachìe, il dolce che ho assaggiato quando, sbuffando appresso al mio compagno di casa e di vita, mi sono inerpicata per la prima volta sulla salita che taglia in due il paese per visitare il centro storico. Sono semplicissime, ma perfette: pasta frolla fatta come una volta, con lo strutto anziché il burro, e farcite di marmellata di prugne. Mi è bastato un assaggio per ordinarne subito una ventina da portare a casa, e per prenderne poi altre e altre ogni volta che faccio tappa nel natio borgo selvaggio dell'amato bene. Sono la mia merenda preferita. E di Mauro, e di tutti coloro che le hanno assaggiate.
Oltre a quanto descritto, al forno troverete ben altro: i giglietti a base di farina e uova che sembrano leggerissimi savoiardi e devono il nome alla forma di fiore. I biscotti da latte, che basta addentarli per sentir nostalgia delle colazioni che si facevano in quel tempo in cui i mulini erano veri, e i sapori pure. Poi gli amaretti, fatti alla vecchia maniera, che profumano come una drogheria ottocentesca. Sotto Natale il temibile pangiallo e gli altrettanto temibili murzelli, squisiti e duri come sassi perché a base di micchi (frutta secca) e canditi fatti in casa tenuti insieme da farina e miele in un impasto a dir poco roccioso. E tutti i giorni una pizza bianca soffice come una nuvola, che vengono anche dai paesi vicini a comperarla.
Per questo e tanti altri ottimi motivi, vale la pena di varcare la Porta (che è quella, ce n'è una: non ci si può sbagliare), sbuffare su una salita che ha una pendenza da far impallidire la buonanima di Ginettaccio, tenere ben d'occhio il campanile romanico che scompare e rispunta da dietro i tetti e, per i signori maschi, anche patire l'umiliazione cocente di chiedere la strada.
Quando finalmente avrete trovato il forno, fate una bella scorta e non dimenticate di portare qualcosa agli amici. Vedrete che, quando gli chiederete "com'erano i dolcetti?", vi risponderanno come sempre mi risponde il mio amico Mauro.
"Erano. Deliziosi!"

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