domenica 7 marzo 2010

Le confessioni di una piccola italiana

Ci sono alcuni libri che, dopo averli letti, per un motivo o per l'altro non ti abbandonano. Arriva sempre il momento di rileggerli oppure quello in cui, per qualche motivo, ti tornano in mente e sai che dovrai riprenderli in mano.
Questo è uno di quei libri. Mi è tornato in mente quando, forse in virtù della data di domani, ho scelto di vedere un documentario sul rapporto fra il pelato di Predappio e le donne. No, non quella che ebbe la sventura di finire con lui a Dongo, non la moglie pluricornificata Rachele Guidi, non quella poveraccia di Ida Dalser (mai sentita nominare? Andate su Google, potreste scoprire cose interessanti), men che meno amanti celebri almeno all'epoca come Margherita Sarfatti e Angelica Balabanoff. O almeno non solo loro. Bensì proprio le donne italiane in genere.
Sono uscita dalla visione con neri pensieri, e non in virtù del periodo storico. Non che il documentario mostrasse qualcosa che non mi fosse già noto: c'era tutta la nota tiritera sulla donna a casa a far la calza, la costruzione del consenso, la madre prolifica, il culto del focolare, eccetera eccetera. E' che tutto ciò, per l'appunto, mi ha riportato alla mente come sono entrata in contatto con la condizione femminile nel Ventennio: ovvero, con Le Confessioni di una piccola italiana.
Le quali, sottolinea la stessa autrice, come quelle di un mai divenuto ottuagenario che avrebbe guadagnato assai a non imbarcarsi su una certa nave, iniziano in una cucina, luogo deputato per l'altra metà del cielo all'epoca e non solo. E poi si spostano in altri luoghi frequentati da donne: la scuola nei suoi vari ordini e gradi, i temibili sabati fascisti, le case degli amici dove si balla, l'università (quest'ultima cosa invero rara per il sesso definito debole).
E poi?, chiederete forse voi. E poi basta. Chiuso. Schluss. Fine. Non ci sono altri posti per le donne. Se provano a frequentarli, sicuramente vanno a finire come l'Isolina Canuti (mai sentita nominare? Ricordate che Google è vostro amico, e vi fa scoprire cose che nemmeno immaginate), la quale viene usata come spauracchio dalla mamma della protagonista.
La mamma, come altre donne che hanno un ruolo nel libro, è personaggio assai interessante. All'inizio curatissima, tutta cipria e profumi Coty. Bellissima voce, che negli incontri con gli amici vien costretta a dispiegare sulle note di canzoni della Grande Guerra di un'allegria unica ("sol-da-to ignoto tu!, sperduto nei meandri del destino, mucchio senza piastrino..."). Poi, per cause non meglio spiegate, si lascia imbruttire e diventa sempre più aggressiva nei confronti di figlia, marito, familiari vari. Il motivo, forse, è intuibile da una ramanzina inflitta proprio alla figlia, che deve capire come "la vita è una cosa seria", e in cui racconta le sue origini: disastrosamente povere, da cui esce con la ferocia di una che no, non vuole essere povera. Con capacità e determinazione, trova un posto da segretaria, per l'epoca il non plus ultra nel suo strato sociale. E sta per mettere a punto le sue capacità nel disegno tecnico quando incontra il futuro marito, rispettabile avvocato. Sposarlo o non sposarlo? Lo sposa, ovviamente: perché è rispettabile, e "vent'anni cominciavano già a essere molti".
Lui la sposa, si intuisce, perché è decorativa. Lei assai presto smette di essere decorativa. Lui tace, purché il cibo sia buono e la moglie, tutto sommato, presente. Il livello di stima che lei nutre nei confronti del marito lo si intuisce dall'insulto peggiore che può rivolgere alla figlia: di essere tale e quale a suo padre.
Personaggio altrettanto interessante, anche se meno flamboyant, è la zia zitella. Che passa il tempo a pregare, leggere la Filotea (raccolta di norme di vita per il buon cristiano) e fare meravigliosi ricami, finché la cognata le proibisce di sprecare soldi per le sete colorate. Ha un vezzo, quello di farsi crescere i capelli fin oltre i piedi: "In città solo la signora Negri li ha più lunghi dei miei, e però l'hanno messa sulla Domenica del Corriere". Dopo le leggi razziali e lo scoppio della guerra, la si sospetta di aiutare un parroco locale a nascondere degli ebrei: il fratello, nonché padre dell'autrice, a muso duro la costringe a smettere dietro minaccia di cacciarla di casa.
E la protagonista?
Ha un difetto capitale per una donna, durante il Ventennio e non solo. Pensa.
Per cui, da quando è alta così, coglie tutte le contraddizioni che si celano in quello che dagli altri viene reputato un vivere civile e normale. La grettezza dell'insegnamento in cui fosse mai si esca un filo dal seminato, ad esempio. Le inutili e interminabili marce del sabato fascista cui non si può non partecipare ("con il mio passato..." ripete sempre il padre, ex socialista da salotto). La rigida separazione sessuale fra maschi e femmine, con le ragazze riunite in un'unica classe del liceo e costrette a entrare un quarto d'ora prima per non avere il minimo contatto con le classi maschili. Quella non meno rigida fra classi sociali, con la divisione netta e feroce fra le massaie rurali, ovvero le contadine della provincia, e le donne fasciste della borghesia cittadina, una rappresentante assai in vista delle quali, nonostante l'aria di grandeur conferitale dalla sahariana nera, in occasione di una visita del Duce si slancia verso il fondatore dell'impero per baciargli letteralmente le chiappe. Eccetera eccetera.
Dalla prima infanzia all'università, periodo in cui si situa l'ultima parte delle memorie, la voce narrante continua in sintesi a sentirsi un pesce fuor d'acqua, e a scontrarsi con le follie di un mondo che alle altre rappresentanti del suo sesso pare funzioni benissimo nonostante per le donne vi siano prospettive nulle. Studiare sì, ma solo lettere o farmacia. E comunque, se di classe medioalta, non per esercitare la professione: fosse mai che la gente pensi che il marito non può provvedere da solo alla famiglia (marito che non può non esserci perché, ovviamente, un donna non può non voler sposarsi: se il motto è credere, obbedire, combattere, per le donne diventa credere, obbedire, procreare). Se poi una è così matta da voler studiare giurisprudenza, unica donna o giù di lì in tutta la facoltà, abbia almeno il buon gusto di sapere che le si prepara un radioso futuro da dattilografa laureata nello studio paterno. In tutto ciò, gli unici svaghi sono i film con Greta Garbo, i romanzi russi, le vacanze estive al mare o in montagna come si conviene nella buona società, qualche ballo a casa di amici.
Un quadro di una noia mortale.
O almeno lo sarebbe. Se non fosse che l'autrice, complice la follia della società dell'epoca, lo fa diventare un capolavoro di umorismo. Le occasioni sono molteplici: l'analfabetismo linguistico tanto alto quanto accuratamente gestito del popolo italiano, con il celeberrimo "Give me a whisky" pronunciato dalla Garbo in Mata Hari che diventa "Da-a-a-ammi una sigaretta"; la tendenza della protagonista ad arrivare a scuola in ritardo perenne il che, la rimprovera severissimo il preside, causa l'ingresso posticipato "di tutte, e dico tutte, le classi maschili"; l'amica Flavia cui sembra assai normale che una quasi trentenne, pur di accalappiare uno scapolo, quasi faccia finire in un burrone una potenziale rivale che sta chiacchierando con il succitato scapolo durante un'escursione in montagna; le compagne di studi che nonostante sia scoppiato il conflitto passano i pomeriggi a pelarsi le sopracciglia e a truccarsi per andare in centro dove non c'è oramai più nessuno; gli oscuri conciliaboli delle donne di ogni ceto che, se avevano accettato di dare l'oro alla patria in occasione delle sanzioni, sono assai meno liete alla prospettiva di consegnare le pignatte ("se le tolgono il paiolo, dove la messiela ela la polenta?", dice la domestica Vittoria traducendo le imprecazioni in walser di sua madre, montanara dei Lessini); le ore perse a rammendare le calze di seta perché non è decente che una ragazza esca con le calze rotte e con quel che costano non si può buttarle (se poi un ragazzo inciampa nelle gambe di una ragazza e le rompe malamente le calze, lei con un sorriso agonico risponderà "per carità non scusarti, non è niente!", ma questo fra parentesi). E così via. Si ride amaro, ma si ride. Più o meno ad ogni pagina.
Le confessioni di una piccola italiana è un ottimo libro. Di quelli che consiglierei a chiunque, e per come è scritto, e per ciò che narra. Di libri sul Ventennio ne sono stati scritti a bizzeffe, ma quelli da un punto di vista femminile sono un unicum (del resto, lo sono per qualunque periodo storico si voglia prendere in esame). Sono ancor più un unicum quelli che, anziché far di tutta un'erba un fascio (no pun intended), mostrano quanto possa essere sfaccettata una condizione all'interno anche di una singola classe sociale. E lo sono ancora di più quelli che lo sanno mostrare senza appesantire la lettura. E' un peccato che questo libro sia noto a pochi, se non fra gli addetti ai lavori: l'ho visto ampiamente saccheggiato da Gian Franco Venè (giornalista noto per i suoi libri e articoli di costume, nonché per essere stato il beau di Nilla Pizzi) nel saggio divulgativo Mille lire al mese, ma assai poco citato altrove.
Alla scarsa conoscenza ha probabilmente contribuito il fatto che sia stato pubblicato anonimo per una piccola casa editrice di Verona, la Essedue. Pur essendo assai giovane quando lo lessi (mi venne regalato da mia zia Rosetta, che proprio a Verona aveva concluso la sua carriera di insegnante), capii immediatamente il motivo dell'anonimato: in diversi casi vengono fatti nomi e cognomi, immediatamente riconoscibili per chi vive in una piccola città. Come immediatamente riconoscibile era probabilmente l'autrice, almeno per i veronesi. Per anni mi chiesi chi fosse, ma non c'era verso di venirne a capo.
Solo all'università, senza volerlo, mi trovai il suo nome davanti. Durante un corso di letteratura tedesca incentrato sul periodo fra le due guerre venne affrontata fra l'altro l'opera di Gertrud Kolmar, che solo di recente era stata parzialmente tradotta e pubblicata in italiano. La traduttrice si chiamava Giuliana Pistoso.
Anni più tardi, grazie a Internet scoprii che la piccola italiana era lei.
Probabile che non conosciate chi sia Gertrud Kolmar. Ma dal Veneto provinciale del Ventennio a una delle più intense e insolite voci della letteratura contemporanea, vi assicuro che la strada non è breve. E non è da tutti farla.
Col tempo ho scoperto anche che Giuliana Pistoso è stata una delle protagoniste dell'editoria femminile e femminista fra gli anni Ottanta e Novanta, e anche oltre. La sua casa editrice ha pubblicato, oltre alla Kolmar, altre opere inconsuete, come i racconti di Elizabeth Brown e persino un saggio sulla presenza delle donne nella corsa all'oro in California.
Lo so, il concetto di letteratura al femminile puzza di vecchio, o di risibile: si pensa agli Harmony, o peggio ancora a Susanna Tamaro. Non parliamo poi del femminismo. Sento a ogni piè sospinto donne e uomini che lamentano come quelle tizie con zoccoli e gonnelloni abbiano rovinato tutto, cosicché adesso la donna non è donna e l'uomo non è uomo.
Ora, che gli uomini (o almeno parte di loro) si lamentino del fatto che le donne non stiano a casa a far la calza, lo posso pure capire, perché che qualcuno dia una pedata alla sedia su cui si è svaccati da secoli con il rischio che essa sedia parta da sotto il posteriore è cosa che non piace a nessuno.
Che però si lamentino le donne, le quali dimenticano che è anche grazie alle tizie in gonnellone in ogni loro forma e di ogni periodo se oggi hanno accesso allo studio e a un tot di professioni lavorative (con stipendi di media più bassi, ma questo en passant), o la possibilità di mollare il marito che rende loro la vita impossibile senza beccarsi stigma vita natural durante, o di vivere sotto lo stesso tetto con un uomo senza anello al dito, e l'elenco potrebbe continuare per lunga pezza, mi fa un pochino imbestialire.
A scuola mi piaceva studiare storia. La storia mi ha insegnato che nessun diritto è acquisito per sempre. Per cui è sano ogni tanto ricordarsi di come eravamo. Così magari facciamo che quell'eravamo resti, per l'appunto, un eravamo. Magari è pure uno stimolo a portare avanti il lavoro altrui.
Vorrei tanto che ci pensassero le amene comitive di fanciulle d'ogni età che domani 8 marzo, senza manco sapere perché la festa della donna si celebra proprio quel giorno, avranno per una sera il via libera dal marito o fidanzato di turno per andarsi a fare la pizzata tutte assieme e poi, per le più trasgressive, assistere allo spettacolo di qualche clone dei Chippendales. Ma mi sa che chiedo troppo, nel paese in cui la massima aspirazione è fare la velina.
Sarà per quello che l'opinione di tanti maschi sulle donne rispecchia fedelmente un aforisma di Pitigrilli, scrittore assai in voga nel Ventennio, citato all'inizio delle Confessioni.
"L'intelligenza nella donna è un'anomalia come l'albinismo o il mancinismo".
Domani è la nostra festa.
Io cercherò di darle un senso, a modo mio.
Fatelo anche voi, a modo vostro. E' il più bel regalo che vi potete fare.
E al diavolo le mimose.

2 commenti:

  1. Questo articolo l'hai scritto forse tanto tempo fa ma mi hai fatto un bellissimo regalo,io conoscevo Giuliana Pistoso personalmente,l'ho tradotta in serbocroatoecon rammarico non ho trovato possibilita' di farla conoscere in allora Jugoslavia, sono subbentrati altri problemi (guerra) e il paese si e'sfasciato. Giuliana era davvero una persona speciale,diversa,anchi'io adoro quel suo libricino leggero ma tanto profondo.Due anni dopo Daccia Maraini ha scritto il libro pluripremiato "Isolina", sicuramente prendendo la trama dal libro di Giuliana Pistoso.

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  2. Perdonami se ti rispondo solo ora, purtroppo per mancanza di tempo non sto più aggiornando il blog e controllo i commenti molto di rado... Grazie a te, di cuore, per il tuo commento, e per il tuo ricordo di Giuliana Pistoso. Non ho avuto la fortuna di conoscerla, ma leggendo ciò che scriveva si comprende che era una persona davvero speciale. E' un peccato che in Italia la ricordino in pochi, ed è scandaloso che il suo libro sia stato saccheggiato da altri autori che non l'hanno nemmeno ringraziata. E' bello sapere che al di fuori dell'Italia il suo ricordo è vivo. Grazie ancora e, se mi è concesso, un abbraccio.

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