domenica 28 febbraio 2010

Life on Mars: la tv italiana è matta, in coma, o indietro nel tempo?

Chi mi conosce sa che non sono facile agli entusiasmi, e che nulla mi garba di più del sublime piacere di una stroncatura.
Per cui, se putacaso mi lascio andare a lodi sperticate nei confronti di qualsivoglia opera, che si tratti di un libro, di un film o di una serie televisiva, i miei amici corrono alla finestra perché, sostengono, sicuramente sta per cadere la luna o giù di lì.
Questo è uno di quei casi.
E, ovviamente, non si tratta di una produzione italiana.
La si è vista anche da noi, si fa per dire.
Ciò perché, dopo il necessario passaggio sulla pay tv di turno, Mamma Rai l'ha acquistata e mandata in onda prima la scorsa estate in seconda serata (per inciso, sbagliando pure l'ordine delle puntate), poi su un canale del digitale terrestre che si distingue per un ampio numero di fetecchie, in orario altrettanto infelice e la domenica per giunta.
Il che è un bel modo per promuovere una serie che in patria ha fatto sfracelli, e il cui acquisto deve essere costato a noi contribuenti qualche soldino.
Ma questo fra parentesi.
Io ci son capitata su per caso, durante una di quelle infelici trasmissioni domenicali. Mi son bastati dieci minuti, poi ho alzato il telefono.
"Pronto Lello? Ti propongo un equo scambio."
"Crostata. Formato ruota di camion."
"Va bene. Conosci Life on mars? E' una serie della BBC."
"Ce l'ho. Fanno due crostate."
"Avido. Perché due?"
"Due stagioni, due crostate. Con marmellate diverse, eh."
"..."
"Se aggiungi un po' di biscottini ci metto pure i sottotitoli."
"..."
"Ci vogliono, i sottotitoli. L'accento di Manchester è tosto."
"Potresti essere gentile e darmeli gratis et amore dei."
"Come dicono i tuoi amati britannici, business is business."
"Carogna. Passa fra tre ore."
Ho messo giù il telefono e mi sono diretta in cucina. E a chi mi volesse fare la consueta ramanzina sul fatto che i prodotti vanno acquistati originali, rispondo che concordo in pieno, ma con eccezioni. Primo, quando mi permetteranno di vedere direttamente sul mio pc nel momento in cui voglio e dietro prezzo equo ciò che mi interessa anziché costringermi ad acquistare pacchi di DVD che grazie alle poste italiane arrivano dopo un mese, sarò ben lieta di farlo. Secondo, perché se detti DVD non sono provvisti dei necessari sottotitoli, cosa che spesso succede per prodotti della Perfida Albione, io pur sapendo quel po' di inglese che so ci posso giusto giocare a frisbee col cane: sono stata fra gli sfortunati acquirenti di Queer as folk (sì, quella serie che in Italia non è mai andata in onda in chiaro causa pressioni politiche), la quale ben mostra la tostaggine dell'accento mancuniano, e ancora aspetto al varco gli imbecilli di Channel 4 che l'hanno messa in commercio in versione studiata esclusivamente per anglofoni dall'udito perfetto.
In attesa di tempi migliori, posso dire che mai tre ore ai fornelli furono più ben spese.
Perché Life on Mars è una delle serie migliori che abbia visto negli ultimi anni.
Ammetto di essere biased: è ambientata a Manchester, per me uno degli ombelichi del mondo. E' una serie poliziesca ma con tocchi inconsueti, e io sono cresciuta a pane e X-files. Ha un cast di attori eccezionali, fra cui John Simm, che avevo già avuto modo di apprezzare in quel gioiello, ignorato da noi, che è 24 hour party people di Michael Winterbottom. E prende il nome da una delle più belle canzoni di David Bowie. C'erano tutti gli elementi per attrarmi.
A ciò si aggiunge che personaggi e trame sono un mix quasi perfetto di tensione e umorismo britannico.
Lo spunto per tutto ciò è tanto in apparenza semplice quanto geniale. L'ispettore capo Sam Tyler, che vive e lavora nella Manchester del 2006, ha un incidente di macchina. Perde i sensi. E si risveglia esattamente nello stesso luogo in cui è stato investito.
Solo che è il 1973.
Life on mars
, che stava ascoltando in auto con il suo Ipod di ultima generazione, esce gracchiante da un mangianastri. Viadotti e palazzi sono scomparsi. E quando Tyler si reca alla stazione centrale di polizia, scopre che è un coacervo di bestioni rozzi, razzisti e fumatori a catena, con le poche donne impegnate a controllare scartoffie e fornire tè ai colleghi fra una battutaccia sessista e l'altra. A capo del dipartimento, il poster boy del politicamente scorretto: Gene Hunt, altresì detto "the Guv" dai suoi sottoposti, uno che conduce gli interrogatori a suon di sganassoni, beve come un tombino e quando parla scartavetra le orecchie per il volume e gli insulti nei confronti di qualsivoglia gruppo che sia di etnia, genere e orientamento sessuale diversi da quelli del maschio bianco inglese medio. A confronto, Marte è terra cognita.
Tyler, che lo voglia o no, è costretto a interagire con loro, e con un mondo che non conosce. Deve reinventarsi il lavoro. Qualsiasi ricerca di archivio sottointende ore di imprecazioni in mezzo alla polvere anziché cinque comodi e asettici minuti al computer. Il concetto di preservare la scena del crimine è non pervenuto, e men che meno quello di fare un profilo del malvivente di turno, roba da strizzacervelli. Ogni due per tre gli tocca scontrarsi con i pregiudizi di colleghi e superiori. Come se non bastasse, ogni tanto sente le voci manco fosse Giovanna d'Arco, e suoi incubi vengono tormentati dalla odiosa ragazzina con il pagliaccio che negli anni Settanta adornava il monoscopio della tivù di Sua Maesta Britannica: sicché il tapino si chiede se davvero è tornato indietro nel tempo, o se piuttosto è in coma o sta diventando matto.
Una vitaccia, si dirà.
Non poi troppo.
Uno, perché Tyler trova una paziente confidente in Annie Cartwright, una collega che, complice il fatto che Tyler a differenza degli altri la consideri un essere pensante, diventa un pezzo di roccia abbastanza solida su cui poggiare i piedi fra le sabbie mobili marziane. E prima che arricciate il naso, no, non è la storiella d'amore di cui abbondano le serie nostrane e non. E' in primis un rapporto di lavoro e umano, che si sviluppa come i rapporti umani e di lavoro sogliono svilupparsi. E nella serie ha il peso che gli spetta: un dieci per cento, né più ne meno, che non va mai a discapito della trama.
Due, perché la Manchester di trent'anni e passa fa ha i suoi elementi interessanti. E' malconcia, zozza, provinciale, niente a che vedere con i fulgori di due decenni dopo, o quelli che inizieranno da lì a cinque anni soltanto. Ma proprio per questo è in grado di sorprendere Sam, e anche gli spettatori.
Tre, perché la vecchia Manchester sarà pure sorprendente, ma mai quanto lo è Gene Hunt. E non solo per Tyler.
Magistralmente interpretato da Philip Glenister, l'ispettore capo è di gran lunga il personaggio più attraente della serie: rozzo, manesco, sessista, razzista, alcolizzato, corrotto e ricolmo di mille altri difetti (Tyler aggiungerebbe anche quello di essere un supporter del Manchester City), di episodio in episodio rivela tratti che lo rendono insopprimibilmente likable. Fra questi, un ferocissimo e talvolta sbilenco sense of humour, che si manifesta nei suoi perenni scontri con Tyler e che sottolinea la frattura fra la sua mentalità di rude poliziotto maschio degli anni Settanta e quella politically correct del suo collega e sottoposto. I loro scambi sono fra le cose migliori di Life on Mars, e li rendono una delle coppie più riuscite che si siano viste di recente sul piccolo schermo e non solo.
A questo punto, chi ha visto la serie sui canali di Mamma Rai e prima ancora sulla pay tv probabilmente si chiederà basito: e com'è che io di codesta brillantezza nei dialoghi non mi sono accorto per nulla?
Semplice: perché l'ha vista alla tivù anziché rivolgersi al suo Lello personale.
Se l'avesse fatto, si sarebbe accorto di ciò che io ho sospettato nei citati dieci minuti prima di chiamare il mio amico divoratore di crostate.
Ovvero, che la versione italiana fa pena.
Ora, io mi rendo perfettamente conto di quanto sia complicato tradurre una serie del genere, in cui i riferimenti alla cultura britannica si sprecano. Quando the Guv replica a un perplesso Sam "always trust de Gene Genie!", una cosa è sapere che sta facendo un gioco di parole su Jean Genie di Bowie, ben altra cosa è rendere la frase comprensibile al pubblico italiano. Ma una cosa è, con un gran sospiro, rinunciare a rendere ciò che non si può rendere. Altra cosa è, per pigrizia, alzare subito bandiera bianca. Risultato è che il pubblico italiano si perde scambi scoppiettanti come quelli in cui Tyler e Hunt bisticciano sull'omicidio di un pachistano (Sam osserva "This must be a hate crime" e Gene, con spregio giacché l'espressione "crimine d'odio" era ben lungi dall'essere nota negli anni Settanta, ribatte "Oh, as opposed to 'I really really love you crime'?"), o qui pro quo al limite del delirio (al collega, che gli chiede il motivo per cui Sam non ha dormito la notte intera, questi risponde "migraine": al che l'altro, che deve avere un vocabolario di cento parole scarse e pensa di tratti di una donna, osserva 'Oh, german bird?', scambiando un'emicrania per una fanciulla teutonica).
Ne potrei citare altri di casi, ma ci rinuncio. In primis, perché dovrei rivedere tutti gli episodi in italiano oltre quelli che ho guardacchiato di tanto in tanto in tv, e non ho voglia di fornire a Lello ulteriori crostate. E last but not least, perché mi dovrei scontrare con un altro aspetto che rende la versione italiana abominevole: il doppiaggio.
Come sia nata la leggenda che noi abbiamo i migliori doppiatori del mondo, vorrei saperlo. Perché a parte casi rari (con i quali sono parziale, per affetto mio e talento loro: per me Woody Allen è Oreste Lionello, come De Niro è Ferruccio Amendola), la scelta delle voci fa spesso cadere le braccia. Così come l'intonazione, la recitazione, tutto. Life on Mars, come tante serie britanniche e non solo, rifugge dal pathos e dagli eccessi. Anche nei momenti più drammatici, gli attori mantengono un invidiabile senso della misura, con il risultato che la tensione arriva alle stelle. Non si capisce pertanto perché i nostri debbano calcare il pedale nel momento di dargli voce. Nella versione italiana Sam Tyler sembra perennemente sull'orlo della crisi di nervi, Gene Hunt risulta sempre e comunque una carogna senza un filo di sottigliezza, Annie è lilì per franare a terra con tutta la tenda cui si è aggrappata, gli altri paiono usciti da una sceneggiata di terz'ordine.
Guardando tutto ciò, si direbbe mai che Life on Mars è stato uno dei più grandi successi di critica e pubblico della Perfida Albione?
No.
Pertanto rivolgetevi al vostro Lello di fiducia.
Quando sarete finalmente in possesso della serie originale, preparatevi a gustarla sedendovi sul divano in posizione comoda. Magari, per fare una cosuccia a tema, con la compagnia di una tazza di tè e un pacchetto di Garibaldi.
Non fate quella faccia basita: non vi sto proponendo del cannibalismo. I Garibaldi sono un tipo di biscotti, celeberrimi in Gran Bretagna, chiamati così proprio per via dell'eroe dei due mondi. Se non lo sapevate, siete in buona compagnia con il 90% degli italiani, a giudicare dalle reazioni che ho avuto al riguardo dai miei colleghi.
Il fatto che chi ha adattato Life on Mars abbiamo lasciato nei dialoghi "Garibaldi" anziché tradurre con "biscotti" è forse la migliore dimostrazione del livello di accuratezza con cui ha compiuto il lavoro.
Evitate di pensare che quel lavoro, probabilmente, è stato pagato anch'esso con il vostro canone.
Evitate anche di pensare che, mentre i britannici pagando il canone hanno avuto e hanno in cambio, a parte Life on Mars, cose come Doctor Who, Inspector Morse e Absolutely Fabulous, noi foraggiando Mamma Rai ci becchiamo perle come Incantesimo 4 o l'ennesima fiction su Padre Pio.
Buona visione.

venerdì 26 febbraio 2010

Libiamo, libiamo: ponce casalingo di Zia Maria

Festa grande, ragazzi.
L'amato bene ha ufficialmente finito gli esami.
Qui tocca brindare. Però fatelo voi, giacché sia io che lui siamo clamorosamente astemi.
Magari fatelo con il ponce (ovvero il punch, italianissimamente tradotto in poncio all'epoca in cui l'aratro tracciava il solco e la spada lo difendeva), cavallo di battaglia di mia zia Maria. Qui lo vedete ritratto in bottiglia che reca l'etichetta del da noi celeberrimo Liquore Poncio Lupacchioli, prodotto dalla più blasonata pasticceria del capoluogo, ma con ulteriore etichetta che ne attesta la maternità ziesca. E prima che me lo chiediate, è ovvio che quello di mia zia è mille volte più buono.

Ingredienti:
mezzo litro di alcol puro per usi di cucina
mezzo litro di acqua, e che sia buona
mezzo chilo di zucchero
la buccia di un limone, di un'arancia e di un mandarino

Preparazione:
tagliate sottilissime le bucce e mettetele in infusione nell'alcool per un minimo di dodici ore. Quindi pesate la metà dello zucchero e fatelo bollire nell'acqua fino a quando non fa un po' di sciroppo.
Mettete quindi in un'altra pentola l'altra metà dello zucchero con un goccino minuscolo d'acqua e fatelo caramellare fino a quando non diventa di un bel bruno intenso e dorato: a quel punto aggiungete mestolo dopo mescolo l'acqua zuccherata e mescolate bene fino a quando il tutto non è ben amalgamato.
Quindi lasciate raffreddare, e raffreddare bene. Solo quando è completamente freddo potrete infatti aggiungere l'alcol: non fate come zia Maria e zia Lella che una volta, lavorando di prescia come di consueto, rischiarono di mandare a fuoco la cucina.
Fatto ciò si è giunti alla fase finale: acchiappate un imbuto e un colino a maglie strette, filtrate il ponce e imbottigliatelo. Vedrete che vi terrete reciproca e ottima compagnia per tutto il resto dell'inverno, e anche oltre, sempre che duri.
Buon brindisi. E adesso, se me lo permettete, con la sobrietà che mi è propria vi propongo una musica adatta perché possiate festeggiare insieme a noi come si confà.

giovedì 25 febbraio 2010

Kheer (riso con il latte all'indiana)

Oggi c'è da festeggiare. Il motivo non lo rivelo causa meri motivi di scaramanzia per i quali mi toccherà attendere qualche ora, ma c'ho voglia di mettermi a ballare come un contadino irlandese che alla fiera di Kilkenny abbia bevuto un bel po' di birre di troppo. Per festeggiare dovrei pertanto proporre un bel dolce irlandese, ma visto che di cucina irish so meno che nulla e che l'amato bene, ovvero la persona causa la quale ho voglia di volteggiare in giro, adora la cucina indiana, vado a proporre il più classico dei dessert del subcontinente: il delizioso kheer a base di riso e latte aromatizzato con cardamomo e pistacchi.
La ricetta, che prevede in originale un bel po' di spezie in più e l'aggiunta di uvetta e mandorle, l'ho modificata nel tempo in base ai gusti personali miei e dei miei commensali: va da sé che se volete farla in versione arricchita nulla osta, tanto è squisita lo stesso. Una sola avvertenza nel caso decidiate di prepararla: rassegnatevi a un tre quarti d'ora a guardia dei fornelli pena il disastro gastronomico, ma sappiate che ne vale la pena.

Ingredienti:
mezzo litro di latte
un seme di cardamomo (la ricetta classica ne suggerisce almeno tre, ma io suggerisco a mia volta di non eccedere perché questa spezia è traditora)
30 grammi di riso basmati, o altro a chicco lungo
30 grammi di zucchero
mezz'etto di pistacchi (non quelli salati, ovviamente)
per chi vuole una versione più ricca, una manciatona di uvetta e un pezzetto di cannella

Preparazione:
in una pentola d'acciaio fate scaldare il latte e il seme di cardamomo preventivamente schiacciato (oppure i tre della ricetta originale con in più il pezzetto di cannella) a fuoco medio, quindi versateci il riso, abbassate il fuoco al minimo e, con santa pazienza, girate il tutto con il cucchiaio di legno in modo che il riso non si attacchi. Continuate a farlo a intervalli regolari finché il latte non è diventato la metà di quanto era in origine, per la qual cosa saranno necessari come minimo una quarantina di minuti. Non sbuffate all'idea: ribadisco che ne vale la pena.
Quando il composto è arrivato alla densità suddetta, spegnete il fornello, rimuovete il cardamomo e l'eventuale cannella e aggiungete sempre mescolando con il cucchiaio di legno lo zucchero e metà dei pistacchi che avrete già tritato grossolanamente con l'aiuto di un coltellino affilato. Se volete la ricetta più corposa incorporate pure la manciatona di uvetta fatta prima ammorbidire per una mezz'ora in acqua tiepida. Poi trasferite il tutto in una scodella di coccio, fate raffreddare per bene e ponetela in frigo, magari curando di coprirla con un piatto o un foglio di pellicola per alimenti se non volete che il vostro elettrodomestico olezzi dopo un tot come una baiadera.
Lasciate il tutto a riposare per qualche ora, quindi una quarantina di minuti prima di servire togliete la ciotola dal frigo in modo che il kheer raggiunga la temperatura ambiente, spolverate la superficie con l'altra metà dei pistacchi tritati e portate in tavola.
Se ne avete l'estro e le capacità, servite il dolce all'amato bene calandovi nei panni, a seconda dei casi, di Amitabh Bachchan o Jaya Bhaduri. Se come la sottoscritta non ne disponete, fa l'istèss: è talmente buono che pure se lo presentate con i soliti pantaloni, felpa e ciabatte gli sembrerete belli come il sole.
Cosa che, per gli inciso, gli dovreste sembrare a prescindere dal kheer. Sennò che amato bene è?

mercoledì 24 febbraio 2010

Il post della vergogna: Jessie Ricetta meets Andrea Camilleri

Oggi niente ricetta bensì, purtroppo per voi, un parto letterario di basso rango. Perdipiù vecchio come Noè. Ma giacché mi viene richiesto a intervalli regolari a gran voce (per farsi beffe della sottoscritta, suppongo) da parte di parenti, amici e amici di amici che ne hanno sentito parlare, anziché inoltrarlo sbuffando tutte le sante volte lo condivido qui.
Trattasi, lo rivelo con mia somma vergogna, di un racconto slash che ha per protagonista il leggendario commissario Montalbano.
I miei attoniti lettori chiederanno: ma ched'è lo slash?
Lunga storia. Ne scrissi parecchi anni fa altrove su un sito non mio (articoletto che, en passant, ebbe l'onore di essere copiato paro paro da un collaboratore della storica Decoder senza, ovviamente, citare la fonte: cosa per la quale, va detto, mi fecero mille scuse), quando ancora non vi erano paginoni al riguardo su Wikipedia, e anzi non vi era nemmeno Wikipedia.
Trattasi, per farla breve, di un genere di fanfiction prodotto soprattutto da donne delle più svariate età, che ha per protagoniste coppie (anche allargate) rigorosamente dello stesso sesso prese dalle opere più svariate: film, serie televisive, cartoni, fumetti e chi più ne ha più ne metta. La definizione slash viene dall'impiego del suddetto segno per separare gli elementi della coppia: sicché si avrà di volta in volta, ad esempio, un bel Kirk/Spock (le prime a inaugurare il genere furono infatti, ça va sans dire, le fan dell'esecranda Star Trek oltre trent'anni fa), Mulder/Krycek, Sam Tyler/the Guv, eccetera eccetera,
Quando ne scrissi era un fenomeno di nicchia, che grazie alla Rete aveva valicato i confini angusti delle temibili fanzine ciclostilate ed era già oggetto d'analisi, almeno in America, da parte degli studiosi delle cosiddette sottoculture: adesso Internet ne trabocca, con valanghe e valanghe di racconti che, mi dicono, sono spesso di qualità improbabile. Ma questo fra parentesi.
Mi chiederete: e come mai ti venne la brillante idea di partorire un prodotto ispirato a siffatto abominando sottogenere, e perdipiù con protagonista il commissario più amato dalle italiane?
In primis, ero giovane e tonta. Spero che ciò mi giustifichi.
In secundis, il sottogenere poteva essere pure abominando, ma vi erano autrici sulla scena americana che scrivevano con stile e trame da suscitare istintivamente l'inchino anche al più choosy dei lettori. Da noi, invece, zero. Come resistere alla tentazione di colmare la lacuna.
Per finire, perché il commissario più amato dalle italiane è amatissimo anche da me. Come è da me amatissimo il suo autore. Si potrà discutere sulla validità o meno di trame e quant'altro, ma dal punto di vista linguistico Andrea Camilleri è, semplicemente, una goduria. Ha ricreato un siciliano illustre, ovvero di sintesi fra tutti i dialetti, quasi mille anni dopo Giacomo da Lentini e soci, e lo impiega in modo sì saporoso che a me, più che leggere le sue pagine, vien voglia di azzannarle per gustarle meglio. E poi, se si vien colti dal desiderio di scrivere una slash fiction, perché accontentarsi come protagonista di un Mulder qualsiasi, quando si può contare su Salvo Montalbano?
Non so se tutto ciò è sufficiente per discolparmi di aver buttato giù, nel lontano settembre 2003, codesto racconto che, se non altro, mi ha dato sommo divertimento linguistico (a chi non lo darebbe scrivere in siciliano illustre camillerese?) e ha strappato più di una risata a chi mi è caro.
Pertanto lo posto, a uso di Patrizia, Annarita, Michele e di tutti coloro che me l'hanno richiesto. E anche a uso di coloro che non lo hanno richiesto. Con una piccola avvertenza: se l'idea del beneamato commissario Montalbano a tu per tu con un masculo anziché con Livia o con la fìmmina di turno vi fa venire un coccolone, evitate di cliccare sul link. Buona lettura.
Se una notte d'estate un commissario

martedì 23 febbraio 2010

Il pane secco non si butta: peperoni ripieni

Non plaudirò mai abbastanza alla meritoria campagna di recupero del pane secco che Vale di Mangia e Bevi sta promuovendo sul suo blog: sull'indegna abitudine di gettarlo ho scritto tempo fa anche io, brontolando sul fatto che, se in passato le pagnotte rafferme venivano usate per fare le più diverse pietanze e non solo in Italia, non si capisce perché adesso debbano subire l'onta di essere gettate nel rusco. Se avete ricette che l'impiegano quale ingrediente, vi consiglio caldamente di partecipare all'iniziativa: da parte mia propongo oggi un'ulteriore pietanzella a tema, che come tutte quelle in cui il pan vecchio ha un ruolo è buona da leccarsi i baffi.

Ingredienti:
due peperoni dolci
una manciatona di mollica rafferma
un po' di capperi sotto sale
uno spicchio piccolo di aglio
una spruzzata di pepe
qualche fogliolina di menta fresca
due patate medie
tre o quattro cucchiai di olio

Preparazione:
passate i capperi sotto l'acqua corrente per dissalarli bene, tritate la menta e lo spicchietto d'aglio pelato e privato del germoglio e con tutto ciò condite la mollica di pane aggiungendo un paio di cucchiai d'olio. Date poi una passata di pepe, a seguire una rapida mescolata e lasciate in una scodellina a insaporire.
Con pazienza certosina procedete a tagliar via la calotta ai peperoni senza romperla e privateli dei semi e dei filamenti bianchi interni lavorando con un coltellino affilato (attenti alle dituzze sante, soprattutto se appartenete a categorie professionali come ingegneri, informatici e registi, proni quanto poche altre agli incidenti domestici).
Fatto ciò, con l'aiuto di un cucchiaio farcite i peperoni con la mollica condita, aggiustatevi su la cupoletta privata del picciolo e trasferiteli in una teglietta sul cui fondo avreste già messo il resto dell'olio prescritto.
A far corona mettete poi le patate debitamente pelate e affettate, conditele con un po' di sale, pepe e origano, aggiungete un po' d'acqua nella teglietta e mettete in forno già caldo a 180° per una mezz'ora scarsa.
Passata la suddetta mezz'ora, sarete attirati in cucina da un invitante profumino: aprendo il forno avrete bell'agio di vedere che patate e peperoni hanno messo una bella crosticina, e che vi segnalano inequivocabilmente il momento di portare in tavola.
Sedetevi quindi a tavola con l'amato bene e armatevi di forchetta.
Vi basterà il primo boccone per scoprire perché, a casa mia come in altre, di pane secco non se ne spreca una briciola, ed è cosa buona e santa che sia così.

lunedì 22 febbraio 2010

Total recycling action: zuppa di lenticchie e cotechino

Anche a voi, come alla sottoscritta, è rimasto incollato da Capodanno un maledetto cotechino di cui non sapete come liberarvi?
Allora fate come me e approfittate del gelo di questi giorni per fare amenamente piazza pulita. Dopo una giornata di pioggia perenne, anche il più riottoso dei commensali non farà opposizione di fronte a una zuppa ben calda, soprattutto se gagliarda e saporita. Chi cucina avrà inoltre il piacere di cavarsela con un bel piatto unico senza faticare troppo, il che soprattutto di lunedì sera, momento in cui almeno io mi guardo in cagnesco con i fornelli, non è cosa malvagia.

Ingredienti:
il succitato maledetto cotechino
due etti e mezzo di lenticchie
una cipolla
due spicchi d'aglio
due cucchiai d'olio
qualche pezzetto di sedano
quattro o cinque cucchiai di salsa di pomodoro

Preparazione:
in primis mettete a bagno le lenticchie la mattina, così ridurrete di gran lunga in tempi di cottura. Quando tornate a casa (come sempre correndo manco vi inseguisse Odino a capo della celebre caccia selvaggia), sciacquate ben benino le suddette e tenetele da parte pronte all'uso.
In una capace pentola antiaderente mettete a soffriggere nell'olio la cipolla tritata e l'aglio privato del germoglio e fatto a pezzettini, il tutto a fuoco bassissimo; nel mentre, provvedete in altra pentola a mettete il cotechino nella sua busta e a cuocerlo seguendo le istruzioni, maledicendo il momento in cui vi siete fatti ammaliare dall'offerta paghi uno e prendi due del supermercato.
Quando aglio e cipolla sono imbionditi aggiungete pomodoro e sedano, fate andare per un minutino e quindi versate le lenticchie in pentola e a seguire tanta acqua quanto basta a coprirle addizionata con un po' di sale (non troppo, ché il cotechino provvederà al riguardo).
Alzate poi il fuoco da basso a medio, coprite con il consueto coperchio di vetro e andate per una mezz'oretta a farvi i fatti vostri: lo sa il cielo se il lunedì sera ce n'è bisogno.
Passata la suddetta mezz'ora tornate in cucina e per prima cosa affrontate il cotechino: con somma cautela visto che scotta quanto un lapillo appena sparato dall'Etna tagliate la busta, fate uscire il poco ameno liquido grassoccio che vi è (vi consiglio di versarlo in un bicchiere o coppetta, così evitate di zozzare il lavello e avrete il vantaggio, quando si sarà rappreso, di poterlo far finire nel rusco con scarsa fatica) e mettete il salume fumante su un piatto. Quindi con l'aiuto di coltello e forchetta levategli la pelle - che non butterete, perché i mici del vostro quartiere gradiranno assai - e tagliatelo a fettine.
Nel frattempo sicuramente la zuppa l'è cotta: controllate se vi garba la densità (da modificare tramite aggiunta di mezzo bicchiere d'acqua calda o viceversa alzando il fuoco al massimo per un minuto o poco più), acchiappate una bella scodellona capace e versateci dentro le lenticchie. Quindi decorate artisticamente con le fette di cotechino e portate in tavola.
Come può desumersi dalla foto, io avevo preparato anche del purè e ho ben pensato di metterne su ciascuna fetta un fiocchettino in modo da dare una nota di colore: voi potrete fare altrettanto, e meglio ancora, tostando nel forno qualche quadratino di pane raffermo da usare allo stesso scopo.

venerdì 19 febbraio 2010

Risotto con i carciofi

Da quando l'amato bene, gentile com'è e sempre pronto a dare una mano, si fa in quattro per aiutarmi in operazioni da me odiate quali pulire i carciofi, a casa nostra gli appetitosi fiorelloni compaiono in tavola assai più spesso. Giacché l'altro giorno al mercato li ho trovati del tipo violetto al prezzo strabiliante di 20 centesimi l'uno (la zia Emma ha commentato sentendo ciò "ma che posteriore che avete nell'Urbe": a dire il vero, il posteriore è dovuto al fatto che le signore pelliccione del quartiere badano più all'aspetto che alla qualità e prediligono i romaneschi, proposti a un euro e ottanta l'uno), ho ben pensato di farci un bel risottino: e se pure voi come la sottoscritta avete un amato bene disposto a darvi manforte, lo appronterete senza fatica e con grande soddisfazione di entrambi.

Ingredienti:
tre o quattro bei carciofi violetti
un limone o un paio di cucchiai di farina (per non far annerire i succitati)
due etti scarsi di riso da risotti
uno spicchio d'aglio
due cucchiai d'olio
un quarto di bicchiere di vino bianco
un cucchiaino di brodo granulare vegetale bio
un pugno di parmigiano
foglioline di mentuccia se ne avete

Preparazione:
in primis pulite i carciofi, con l'aiuto dell'amato bene o smadonnando da soli, seguendo le istruzioni qui riportate e badando di non buttare i gambi: tagliateli quindi a spicchi e metteteli a bagno con i gambi a rondelle in una ciotola con acqua dove avrete messo spicchi di limone o, se non ne disponete, due cucchiai di farina (quest'ultimo metodo, va detto, non è efficace quanto l'impiego del citrone e va adottato solo in casi di forza maggiore).
A seguire fate scaldare l'olio con lo spicchio di limone pelato e schiacciato e non appena l'aglio accenna a friggere toglietelo, versate in pentola i carciofi, aggiungete mezzo bicchiere scarso d'acqua e una punta di sale, coprite con il fido coperchio di vetro e fate stufare a fuoco medio fino a quando l'acqua non si è del tutto assorbita.
Avvenuto ciò, è arrivato il turno del riso: buttatelo giù di un colpo, fatelo tostare a fuoco vivace e quando accenna a diventare trasparente aggiungete il vinello e fate sfumare. Infine abbassate il fuoco e con pazienza aggiungete man mano mestolate di acqua (calcolatene una quantità che sia due volte e mezzo quella del riso) già addizionata con il brodo granulare. Per inciso è possibile in questa fase optare per quella che dai cuochi rifiniti viene considerata un'autentica zozzeria, ovvero aggiungere subito tutta l'acqua, mescolare bene, coprire e lasciar andare la cottura coprendo con il coperchio di vetro: e sarà pure una zozzeria, ma se non avete tempo da perdere, io che non sono cuoca rifinita vi consiglio di farlo.
Quando il riso è al dente spegnete il fuoco, aggiungete il parmigiano, fatelo incorporare al risottino e travasatelo in una bella scodella più larga che alta (in tal modo eviterete il noto effetto "pomodorino di Fantozzi" al momento di mangiare): come tocco di finesse potete far cadere a pioggia sulla superficie un po' di foglioline di menta tritate, ma vedrete che anche senza è buono lo stesso.
Affidate quindi detta scodella all'amato bene perché la porti trionfalmente in tavola.
E' molto probabile, per inciso, che egli compia il tragitto canticchiando in allegrezza Carciofon di Elio e le Storie Tese.
Unitevi anche voi. Mangerete con molta più soddisfazione.
Se poi i vicini vi prendono per scemi, pazienza. Non sarà la prima, né l'ultima volta.

giovedì 18 febbraio 2010

Tortino di catalogne di Pilù

Mi spiace solo che codesta fetecchia di foto non renda giustizia alla pietanza, perché questo tortino è di bontà clamorosa. L'autrice, come da titolo, è Pilù, ovvero mia sorella: proprio quella che quando guida fa venire un coccolone anche al più coriaceo rallysta, e che ai fornelli dà spesso prova di notevole capacità e fantasia.
La ricetta è tipica della mia famiglia, e non a caso anche la zia Lella la propone spesso ma nella versione tradizionale, che è più semplice e meno ricca di ingredienti e si presta maggiormente come contorno. Giacché quella di Pilù mia si propone a buon diritto come piatto unico, è in grado di risolvere bellamente la cena offrendo a uno o più commensali una prelibatezza che, grazie alla verdura impiegata, ha un sapore alquanto singolare: la catalogna è infatti un tipo di cicoria che in genere si consuma giusto lessata, ed è un peccato perché il suo gusto amarognolo e la solida consistenza sono elementi in grado di dare a un piatto da forno that special kick.
Se a ciò si aggiunge che il tempo per approntare il tortino è davvero minimo, la cuoca media si chiederà cosa si può volere di più dalla vita e si metterà immantinente all'opera.

Ingredienti:
500 grammi di catalogne già pulite
400 grammi di salsa di pomodoro (se casereccia è meglio)
un bel pugno di parmigiano grattugiato
un etto abbondante di scamorza passita
due o tre cucchiai d'olio

Preparazione:
in un bel callare (paiolo di stagno) fate cuocere le catalogne in acqua bollente salata, badando di scolarle quando sono ancora parecchio al dente. Quindi conditele con la salsa di pomodoro, il parmigiano e l'olio. Prendete poi una bella teglia antiaderente, versateci le catalogne condite, coprite la superficie con fette di scamorza e mandate in forno già caldo a 180°. Non appena la scamorza si è sciolta, cacciate fuori la teglia e portatela in tavola accompagnandola con un bel tocco di caciocavallo e 'na fellucce de pane che stazzi sui due etti: se il vostro commensale non assume l'espressione del diavolo della Tasmania, mi mangio il cappello come Rockerduck.
Per la cronaca il tortino della foto, che ci è stato gentilmente fornito da Pilù con allegata una porzione del suo sublime timballo di riso alla sicula (di cui spero di postare la ricetta quanto prima, perché è un patrimonio gastronomico la cui preparazione andrebbe promossa urbi et orbi per regio decreto) è stato spazzolato dalle fauci mie e dell'amato bene in cinque minuti netti, inclusa la pulizia della teglia con la succitata fellucce de pane: se pertanto Pilù ci legge, sappia che nel caso ce ne voglia dare prossimamente ulteriore fornitura ci farebbe tanto, ma tanto contenti.

mercoledì 17 febbraio 2010

Meow!

Oggi è la Giornata Internazionale del Gatto. Mi par giusto che venga sancita un 17, visto che le povere creature pelose sono state per secoli colpevolmente accusate di commercio con le streghe, di essere incarnazioni del dimonio e, se di colore nero, addirittura di portar jella: quale miglior modo per sfatare una superstizione.
Auguri pertanto a tutti coloro che, come la sottoscritta, amano i gatti: grandi e piccini, a pelo corto e lungo, di razza e randagini, in carne e pelame o in versione cartoon. Son tutti belli, tutti in grado di illuminare una giornata con un semplice ron-ron. Il cane avrà pure la fama di essere il miglior amico dell'uomo, ma chi è miciofilo sa che non c'è partita.
E con l'occasione, giacché questo è un blog di ricette, auguri pure a quel gran genio del Bigazzi, che di recente ha suggerito in una di quelle belle trasmissioni di Mamma Rai che già sola giustifica lo sciopero del canone, come cucinare i nostri amati felini: visto che Viale Mazzini l'ha per via di ciò giubilato, avrà assai tempo libero per cucinare sé medesimo nel suo brodo. Cheers.

martedì 16 febbraio 2010

Carnevale in padella: ciambelline e ravioli con crema

Queste frittelle le ho realizzate lo scorso giovedì grazie al fondamentale contributo della zia Lella, che mi ha messo a disposizione la sua cucina perché nella mia magione per i noti motivi la frittura è tabù. Esse sono semplicissime da fare (per la zia Lella, of course: per la nipote, un pochino di meno) e gustate sia calde che fredde danno grande soddisfazione. Se pertanto, giacché è Martedì Grasso, stasera volete fare una sorpresa a chi vi vuole bene, mettetevi con fiducia ai fornelli: il tempo per realizzarle è tutto sommato poco, e il risultato è garantito.

Ingredienti:
300 grammi di farina
150 grammi di zucchero
250 grammi di patate lessate e passate
20 grammi di lievito di birra (da preferire quello secco anziché nella versione a cubetto)
5 cucchiai di latte
la buccia grattugiata di un limone
2 uova
40 grammi di burro morbido
un paio di cucchiai di marsala
crema pasticcera già pronta
olio di semi per friggere
zucchero semolato per decorare

Preparazione:
diluite il lievito con un po' di latte tiepido, aggiungete un pugno di farina, impastate il tutto all'interno di una ciotola e fate lievitare la pasta coprendo la citata ciotola con un panno in un posto caldoccio (ad esempio vicino al termosifone acceso) per una mezz'oretta. A seguire su adeguato piano di lavoro impastate la pasta lievitata con il resto degli ingredienti (esclusa, ça va sans dire, la crema pasticcera) e fate lievitare ancora finché l'impasto non ha raddoppiato il suo volume.
Procedete quindi a fare le ciambelline manipolando metà della pasta con delicatezza in modo che non si smonti, e fate lievitare anche loro per una mezz'ora. Con l'altra metà procedete a fare i ravioli come segue: prendete man mano delle pallotte di pasta, stendetele a mano sempre con grande delicatezza come se steste facendo una pizzetta, farcitele mettendo al centro un cucchiaio di crema pasticcera e infine richiudetele a panzarotto saldando bene i bordi aperti, cosa che vi riuscirà agevolmente giacché la pasta è alquanto appiccicaticcia.
Trascorsa la mezz'ora sudddetta, prendete una bella pentola alta (non una padella), metteteci adeguata quantità di olio di semi e fate scaldare su fuoco medio. Quindi con eleganza da prestigiatore - se siete la zia Lella: se siete la sottoscritta, si procede lottando con la pasta che sguiscia da tutte le parti - adagiate le ciambelle nella pentola e attendete che si gonfino e diventino dorate.
Quando si sono ben cotte, procedete a tirarle fuori dalla pentola con l'aiuto di una schiumarola, poggiatele su un piatto o vassoio che avrete ben foderato di carta assorbente e successivamente rotolatele nello zucchero semolato. Et voilà!
Allo stesso modo procedete a friggere pure i ravioli, provvedendo a rotolare poi anch'essi nello zucchero semolato.
Va da sé che se servite il tutto alla temperatura di un vulcano in eruzione farete cosa buona e giusta, perché i fritti, rien a faire, vanno gustati bollenti. Se però per un motivo o per l'altro (ad esempio, il commensale che arriva in mostruoso ritardo giacché causa intemperie il traffico si blocca e tocca mettere strati e strati di muffa nell'ingorgo di turno) ciambelle e ravioli arriveranno in tavola a temperatura ambiente, il danno sarà assai scarso: la ricetta della zia Lella ha fra i suoi innumerevoli lati positivi quella di conservar la pasta morbida e fragrante, sicché il partner che rientra imbufalito perché ha passato l'ultima ora sul bus a farsi piattonare stile sardina perderà l'imbufalimento in men che non si dica e affronterà la serata in lietissima e carnevalesca disposizione d'animo.
Ciò comporta il rischio che, mentre ad esempio lavate i piatti, l'amato bene ridanciano (soprattutto se è di quegli esecrandi individui laureati in lettere o peggio ancora al Dams) si avvicini di soppiatto e vi faccia "pepeeeeeeeeeu!" con la lingua di Menelik causandovi una mezza sincope e chiedendovi poi se vi è piaciuto lo scherzo.
Voi sorridete. E la mattina dopo provvedete a spremergli nei calzini un tubetto di dentifricio, e chiedetegli a vostra volta se gli è piaciuto lo scherzo.
Se poi putacaso lui osservasse che essendo il Mercoledì delle Ceneri lo scherzo non vale più, voi ribattete che considerate quale festa conclusiva il Carnevalone Liberato di Poggio Mirteto, dategli del clericale bacchettone privo di qualunque sense of humour e uscite dalla stanza con aria di grande dignità.

lunedì 15 febbraio 2010

The engineer's delight: salsicce, patate e funghi

Ho avuto il piacere stamane di fare una chiacchiera con Marco DB, il quale ha dato il cambio a Giulia venendo in Italia per una settimana: egli mi ha riferito di aver tentato la ricetta delle patate in umido da me suggerita, scoprendo nell'esecuzione che le pietanze, chi l'avrebbe mai detto, si possono cuocere persino con il vapore. Per prendere coscienza di ciò ha prima dovuto mettere una quantità doppia di acqua rispetto a quella prescritta in modo che le patate fossero coperte, sicché le ha fatte lesse, ma questo en passant: sarà stato un piccolo passo per l'umanità, ma un grande passo per l'ingegnere medio. Pertanto si merita un frenetico battimani.
Confortata da ciò, vado ora a suggerirgli una pietanzella che è ancor più appetitosa e necessita di altrettanto scarso litigio con i fornelli: le salsicce, patate e funghi, che per loro natura si propongono come engineer's delight, il bocconcino dell'ingegnere. La preparazione è semplicissima, veloce quanto mai, e se compiuta ascoltando Rapper's delight della leggendaria Sugarhill Gang (lo so, il rap non è musica da ingegneri, men che meno quello old school, ma per una volta si potrà pur fare un'eccezione) non ci si accorgerà nemmeno dei pochi minuti che sono necessari.

Ingredienti:
due etti di salsiccia di suino, del tipo bello spesso e cicciotto
tre patate
un paio d'etti di funghi (io ho usato i pleurotus, ma gli champignon vanno benissimo, e i porcini surgelati meglio ancora)
uno spicchietto d'aglio
un cucchiaio d'olio
una spruzzata di pepe

Preparazione:
anzitutto si pelano le patate e si tagliano in fette di medio spessore (va bene un mezzo centimetro). Quindi si taglia la salsiccia in pezzi di due centimetri circa. Poi si pongono patate e salsicce dentro una padella se possibile antiaderente, si aggiunge mezzo bicchiere d'acqua (sottolineo, mezzo bicchiere d'acqua) e una spruzzata di pepe, si posa sulla stessa un bel coperchio che la chiuda come si confà e la si mette su fuoco medio-basso. Non occorrono olio o grassi di qualsivoglia genere: a provvederli, ci pensa la salsiccia.
Nel frattempo si sciacquano i funghi per eliminare eventuale terriccio, li si tampona con strofinaccio da cucina e li si taglia in tocchi (questa operazione, ovviamente, non è necessaria nel caso siano surgelati). In ulteriore padella si mette quindi l'olio con lo spicchio d'aglio pelato e schiacchiato, la si mette pure lei su fuoco medio-basso, e quando l'aglio inizia a sfrigolare con il consueto rumore di pop-pop-pop si aggiungono i funghi e tre cucchiai d'acqua - quest'ultimo passaggio non è necessario qualora si stiamo impiegando quelli surgelati. Quindi si copre e si lascia andare la cottura.
Fatto ciò, ci si può fare serenamente i fatti propri per una ventina buona di minuti, o anche una mezz'ora.
Passati i suddetti, si va a dare un'occhiatella.
Si scoprirà così che le patate si sono ben ammorbidite, la salsiccia si è rosolata, e i funghi mandano un invitante profumino.
Per fare le cose come si confà, a questo punto si travasano i miceti nella padella con salsiccia e tuberi (badando ad aggiungere solo un mezzo dito dell'acqua di cottura degli stessi) e si lascia andare la cottura per un altro paio di minuti, stavolta a tegame scoperto e mescolando con delicatezza quando necessario.
Ciò sarà sufficiente a insaporire ancor di più i funghi e a far mettere alle patate quella appetitosa crosticina dorata che dà grande soddisfazione quando la si addenta.
A quel punto si potrà portare la padella in tavola, scandendo con fierezza "now what you'll taste is not a test/i'm cookin' to the beat/and me, the groove, and my friends/are gonna try to move your teeth" sotto lo sguardo perplesso della propria compagna di studi e di avventure.
Lo sguardo perplesso si dissiperà certamente al primo boccone.
Con ciò, anche un ingegnere con il pedigree scoprirà che può esser cuoco di vaglia, e ciò gli sarà di soddisfazione quanto passare Analisi e Progettazione del Software con trenta e lode.

domenica 14 febbraio 2010

Torta brownie di san Valentino

L'amato bene e io siamo, a nostro personale giudizio, romantici come due camalli dopo una giornata passata a scaricare container di pesce.
Gli amici pensano invece che siamo caratterizzati da livelli di puccipuccismo a dire poco ripugnanti.
La cosa non manca di stupirci, visto che la nostra idea di vacanza a due è andarsi a coprire di polvere e fango in qualche scavo archeologico, e la nostra serata a due classica è costituita immancabilmente da pizza, cocacola e un film di Bud Spencer e Terence Hill.
Questione di opinioni, per carità.
Poi ci sono dei momenti in cui anche noi riconosciamo che, in rari casi, siamo afflitti da mielosità galoppante.
In genere non capitano in occasioni canoniche.
Stamattina sì, visto che ci siamo reciprocamente regalati uno scoiattolo di peluche (lui a me) e un portachiavi - di peluche, ça va sans dire - a forma di cagnolotto sorridente (io a lui).
Con l'occasione abbiamo pure preparato, lavorando fianco a fianco, la torta che vado a proporvi.
La quale è adattissima per l'occasione giacché, trattandosi di un dolce tradizionale degli States con chiare ascendenze teutoniche, si distingue per un livello di dolcezza quasi stucchevole.
Per salvare la faccia, l'abbiamo realizzata apportando varianti alla ricetta originale, che prevede quantità di zucchero (nonché di burro) pari o superiori a quella del cioccolato: pertanto è dolce sì, ma con giudizio, come si conviene a una coppia costituita da un ingegnere e da una che, pur avendo studiato lettere, è stata oramai contagiata dal morbo.

Ingredienti:
200 grammi di cioccolato fondente di quello buono
100 grammi di burro
2 uova
50 grammi di farina
40 grammi di zucchero (ovvero più o meno un cucchiaio)
150 grammi di noci di Macadamia tritate (vanno benissimo anche le comuni noci; se poi disponete di quelle pecan, usate nella ricetta originale e pressocché introvabili da noi, meglio ancora)

Preparazione:
per cominciare fate fondere a bagnomaria - ovvero, ponendo un recipiente con gli ingredienti su una pentola più piccola con due dita d'acqua scarse che metterete su fuoco medio - il cioccolato con il burro, avendo cura di usare una ciotola di coccio in quanto quelle di metallo possono alterare i sapori. Quando si sono sciolti per bene, tirate via la ciotola (nota per gli ingegneri: attenzione al vapore nel momento in cui sollevate la stessa dalla pentola, pena ustioni e precipitare della ciotola sul pavimento con conseguente addio alla torta) e lasciate raffreddare.
Nel frattempo con l'aiuto di un frullino battete le uova con lo zucchero finché il composto non diventa giallo chiaro e sostenuto, e con l'aiuto del fedele cucchiaio di legno incorporatelo al cioccolato con il burro, badando che abbia già raggiunto la temperatura ambiente sennò fate la celebre frittata di Montezuma.
A seguire aggiungete le noci tritate e la farina, mescolando il tutto per bene finché non è amalgamato.
Versate quindi il composto in una teglia antiaderente del diametro di 20 centimetri, meglio se a cerniera, che avrete leggermente imburrato e infarinato (se è di quelle antiaderenti serie non ce n'è bisogno) e mettete in forno già caldo a 180°.
Dopo un quarticello d'ora, il che sarà sufficiente perché la torta formi una crosticina, saggiatela con lo stecchino: se esce umido e la consistenza non è però liquida (nel qual caso attendete ancora qualche minuto), è il momento di toglierla dal forno.
Attendete che si freddi, il che farà sì che la consistenza apparentemente tremolante acquisti in saldezza.
Quindi sformatela, e a cuor leggero perché grazie alla vergognosa quantità di grassi che contiene il risultato è garantito.
Decoratela come meglio vi garba (io ho impiegato della gelatina di fragole piuttosto liquida, aiutandomi con una siringa da pasticcere) e quindi mangiatela serenamente con chi vi vuol bene, magari accompagnandola con una palettata di gelato di crema che ci sta benissimo.
Se poi siete single e trovate la festa di san Valentino irritante quanto un cespo di ortiche - e in ciò avete tutta la mia solidarietà: consolatevi, il mercato pensa che le coppie siano costituite da imbecilli al napalm che vanno in brodo di guggiole leggendo i bigliettini con i rigurgiti di Federico Moccia nei baci Perugina -, vi consiglio quanto segue: triplicate le dosi, usate una teglia rettangolare da strage e quando il dolce si è raffreddato tagliatelo a quadrotti.
Quindi invitate i vostri amici con la raccomandazione di portare stuzzichini e bevande e fate un megaparty di non san Valentino, alla faccia di quelli come noi che litigano con le bollette, la spesa fatta il sabato correndo correndo, il/la partner che russa o che vi rompe le palle perché lasciate la roba in giro, il pranzo domenicale con tutta la famiglia, i suoceri, le suocere e altre amenità.

venerdì 12 febbraio 2010

Let it snow, let it snow, let it snow

"Amore, vieni un po' a vedere!"
"Cuor mio, siamo in ritardo sparato! E poi perché tieni aperta la finestra che fa un freddo che non si sopport... Uuuuuuh!"
Ce ne vuole per tappare la bocca a una lamentatrice a mitraglia come me. Ad esempio, ci vuole una nevicata. Cosa che non stupirà i miei sanniti, abituati a metri e metri di neve. A Roma, però, è una cosa un filino inusuale.
I primi fiocchi si sono visti alle otto meno un quarto e abbiamo pensato, oh che bello, che atmosfera, speriamo che duri un po' così abbiamo il thrill di andare al lavoro con la neve che scende lenta lenta.
Quando sono arrivata in ufficio i fiocchi anziché lenti lenti scendevano veloci veloci in una gagliarda tormenta. Come si suol dire, troppa grazia sant'Antonio.
Tempo qualche ora, probabilmente, si sarà tutto sciolto. Però, non per dire, lo spettacolo ha il suo che. Speriamo solo che qualche pronipotino der Gardenia (al secolo Franco Califano) non ci faccia una canzone. Abbiamo già dato.
Vado a cercare un San Bernardo con fiaschetta possibilmente studiata per astemi.
In ogni caso, se chi mi legge mi fa avere una cioccolata a temperatura vulcanica, sappia che gli sarò grata.

giovedì 11 febbraio 2010

Tortino di finocchi

Penso che sia opinione condivisa il fatto che i temibili finugi (copyright della zia Marià aka Mariangèlla) appartengono ai cibi che mettono tristezza. Fan tanto bene, son tanto ricchi d'acqua, ma a confronto persino il tofu è saporito.
Mi si dirà che alla fin fine basta un po' d'olio di quello buono, un germoglietto d'aglio e una spruzzatina di pepe per rendere accettabili pure loro. Ma io, quando cucino, gradisco che se possibile una pietanza sia buona, non semplicemente accettabile.
Ora, il tortino di finocchi è un piatto che si può definire buono e anche di più. E si presta benissimo sia come contorno, sia come piatto unico per una cena che non voglia eccedere in pesantezza. Quindi, se state guardando con aria truce i finocchi che son lì in frigo da lunga pezza, e ci sono perché non avete avuto il coraggio di tirarli fuori da lì per lessarli come è consueto, questa ricetta vi offrirà il modo di dargli una degna fine, perdipiù stando poco tempo ai fornelli.

Ingredienti:
4 finocchi di grandezza media (prediligete quelli tondi, che non sono amarognoli)
un cucchiaio di burro
un cucchiaio di farina
un bicchiere di latte
mezz'etto di scamorza
due cucchiai di parmigiano

Preparazione:
lavate per bene gli esecrandi finugi, tagliateli a fette e metteteli a lessare in acqua salata con moderazione finché son cotti ben al dente. Nel frattempo preparate con burro e farina e latte la besciamella (siete tutti sicuramente dei maghi a farla: se putacaso non lo siete, potete seguire il procedimento descritto altrove) e non appena è pronta tiratela via dal fuoco, aggiungete un cucchiaio di parmigiano e fatela appena raffreddare.
Acchiappate quindi una teglia antiaderente o un bel tegame di vetro o coccio che tolleri il forno e adagiatevi i finocchi ben scolati. Quindi copriteli con la scamorza tagliata a fette o dadini, versateci su la besciamella, spolverate con il restante parmigiano e mettete in forno già caldo a 200°.
Basteranno pochi minuti perché la scamorza si sciolga e la besciamella addizionata di cacio faccia una bella crosticina.
A quel punto armatevi di guanto da forno, acchiappate la teglia, portate direttamente in tavola e mangiate il tortino ben caldo.
Va da sé che la ricetta può diventare ben più ricca a seconda della disponibilità, esigenza e fantasia: ma su eventuali versioni più lussuose discetterò se non vi spiace in futuro, perché è Giovedì Grasso e, perbacco, ho tutta l'intenzione di approntare al mio amato bene un piatto di dolci fritti come si confà.

mercoledì 10 febbraio 2010

Saltimbocca di zia Lella

Prima che gli amici romani de Roma inizino a baccajà, specifico quanto segue: lo so, questa non è la ricetta dei saltimbocca tipica dell'Urbe. Se volete magnà quella, annate alla trattoria della sora Tuta, della sora Cesira, de chi ve pare, o meglio ancora a casa de mammà. Se però riuscite a superare i pregiudizi, scoprirete che la versione della zia Lella è buona quanto l'originale e forse più: grazie alla nutrita emigrazione che da lunga pezza caratterizza il natio paesello le cuoche locali hanno assimilato le tradizioni delle più diverse parti d'Italia, e codesta pietanza mostra infatti notevoli affinità, seppur rivedute e corrette, anche con il bolognese nodino alla petroniana, aggiungendo gusto al gusto.
Oltre a essere buono assai, questo piatto di carne si appronta celermente a differenza di quelli tradizionali succitati, che prevedono un discreto sbattimento fra arrotolamenti, stecchinamenti, panature e chi più ne ha più ne metta: si presta pertanto assai bene sia per un pranzo festivo in cui da preparare c'è fin troppo, sia per far felice il partner che rientra stracco morto da una giornata di lavoro in cui, legge di Murphy, siete tornate/i maledettamente tardi.

Ingredienti per quattro persone:
una cipolla media
due o tre cucchiai d'olio
farina 00 quanto basta
4 fettine di vitello (raddoppiate se i commensali sono di appetito gajardo)
4 fette di formaggio atto a fondere nel forno (consigliatissima la scamorza, ma va bene pure l'emmental, la fontina, o delle scaglie di parmigiano non stravecchio tagliate fini fini)
4 fette di prosciutto (crudo o cotto in base al gusto personale e alla disponibilità)

Preparazione:
battete con garbo le fettine senza stracciarle (va benissimo la lama del coltello usata di piatto) quindi salatele e pepatele leggermente e passatele nella farina.
In una capace padella fate imbiondire la cipolla tritata finissima - usate la grattugia per il miglior risultato: si deve in pratica sciogliere nell'olio - e quindi cuocetevi una alla volta le fettine di ciccia da una parte e dall'altra.
Prendete quindi una bella teglia antiaderente, adagiatevi le fettine, ponete su ciascuna prima la fetta di prosciutto e poi il formaggio, versateci su il condimento della padella (che grazie alla farina delle fettine stesse avrà una bella consistenza cremosa) e mettete in forno già caldo il tempo bastevole perché si fonda il formaggio.
Se volete dare ulteriore colore, lasciate la teglia per un minutino sotto il grill (se il vostro forno è a gas spegnetelo prima, per carità del cielo).
Servite quindi in tavola accompagnando con piselli in umido, patate fritte, un bel piatto d'insalata, quello che più vi garba.
Poi, così per curiosità, date un'occhiatina all'orologio. Scoprirete che avete approntato il tutto in mezz'ora scarsa, includendo ogni passaggio.
Se poi date un'occhiatina alle facce dei commensali, scoprirete anche perché i saltimbocca di zia Lella sono fra i piatti prediletti della mia famiglia.

martedì 9 febbraio 2010

Cavetellucce e tanne de rape (cavatelli e cime di rapa)

I cavetellucce, che come si può intuire dalla foto sono un tipo di pasta fresca, sono uno dei cavalli di battaglia della cucina del mio paese.
Fra le maghe nel prepararli si distinguono le leggendarie sorelle Ciccone (a scanso di equivoci, specifico che non hanno nessuna parentela con l'orrida cheerleader di Detroit): le quali sorelle, Ida e Anna, sono arcinote per realizzare cavatelli con precisione da orafo, tanto buoni quanto belli. Lo scorso Natale il mio babbo si è scherzosamente lagnato perché non li facevano da lunga pezza, e loro hanno ben pensato di presentarsi con cinque distinte guantiere - per chi non è sannita, vassoi della dimensione più o meno di un campo da football - per un totale di oltre due chili di pasta. In quell'occasione li ho fotografati: guardate che spettacolo.
Le Ciccone sisters fanno i cavetellucce con farina di grano duro, i quali si sposano perfettamente con sugo di pomodoro (volendo addizionato con tocchi di manzo e salsiccia). Le mie zie, la zia Lella in particolare, prediligono quella di grano tenero, che è ideale nel caso si voglia approntare il piatto che propongo oggi: i cavatelli con le cime di rapa, da condire adeguatamente con aglio, olio e peperoncino.
Va da sé che la zia Lella, che di pasta fresca ne ha fatta in via sua quanta ne basta a sfamare la popolazione del subcontinente indiano per più generazioni, fa dei cavatelli che sono le sette bellezze in trenta secondi. Quando ci si cimenta la nipote, il risultato è la fetecchia che si vede poco più in basso: e se ce ne è qualcuno di aspetto decente in mezzo alla pletora di gnocchetti malriusciti è dovuto al fatto che la zia, impietosita dal fatto che stavo per cedere sotto il peso dell'impresa, mi ha dato gentilmente una mano e pure due - perché la zia Lella, con coordinazione da far vergognare un ginnasta olimpico, i cavatelli li fa usando simultaneamente la destra e la sinistra.
Come che sia, se persino io sono riuscita a mettere insieme una pietanza decente figurarsi che meraviglie potrà compiere ai fornelli chi mi legge. Invito pertanto chiunque a cimentarsi: se volete offrire una di quelle belle cene all'insegna della tipicità per ospiti esigenti, ci farete un figurone.

Ingredienti per due persone:
una jemmelle di farina 00 (per i non sanniti, la quantità della stessa che si può prendere con le mani messe a coppa, ovvero circa 200 grammi)
una manciata di farina di grano duro
due etti circa di cime di rapa già pulite (e sceglietele ben fresche, così evitate il profumino di cimitero al momento di cuocerle)
tre o quattro cucchiai d'olio
uno spicchio d'aglio
qualche pezzo di sferzellone (peperone dolce fatto seccare al sole)

Preparazione:
in primis tocca ovviamente affrontare la questione cavatelli. Per fare ciò, si pone a fontana la jemmelle di farina 00 al centro della spianatoia, si aggiunge un pizzico di sale e si impasta con acqua (ce ne vuole ben poca) fino a ottenere una pasta abbastanza dura ed elastica. Quindi, dopo aver sparso sulla succitata spianatoia la manciata di farina di grano duro, si provvede con 'u laganare - ovvero il matterello - a fare 'a péttele, una sfoglia dello spessore di circa un millimetro e mezzo la quale è alla portata anche di coloro che, come la sottoscritta, con il mattarello si danno a malapena del tu.
Detta sfoglia fa tagliata a striscioline alte circa un centimetro, le quali vanno a loro volta ritagliate in rombi o quadretti di un centimetro di lato.
Fatto ciò, con abile movimento di indice e medio i quadretti vanno cavati come se si stessero facendo degli gnocchi: per far ciò ponete le due dita sull'estremità superiore ed esercitando una lieve e veloce pressione fate un movimento verso il basso, in modo che il quadretto si arricci su se stesso (mi direte che quanto sopra non è chiarissimo, ma non ho potuto documentare il procedimento con la digitale: sfido chiunque a farlo con le mani impiastrate di farina).
Una volta realizzati i cavatelli, essi vanno lasciate ad asciugare per un'oretta almeno su un supporto dove avrete messo un bel canovaccio pulito con su un velo di farina di grano duro. Nel mentre che loro si riposano, voi potrete dedicarvi a pulire per benino le cime di rapa scegliendo i ciccetti e le foglie più tenerelle onde ricavarne i due etti prescritti.
Una mezz'oretta prima del pranzo o della cena mettete sul fuoco un bel callare (paiolo di stagno: si può ovviamente usare una comunissima pentola, ma 'u callare è tutta un'altra cosa, lasciatemelo dire) con abbondante acqua e sale quanto basta: non appena bolle, giù i cavatelli. Quando cominciano a salire in superficie, il che sarà quasi immediato, giù pure i tanne de rape e fate cuocere il tutto finché la verdura non si sarà appena appena ammorbidita, quindi scolate.
Nel mentre che il paiolo è sul fuoco provvedete altresì a far scaldare l'olio con lo spicchio d'aglio pelato e leggermente schiacciato e con lo sferzellone: non appena inizia lievemente a friggere togliete l'aglio (che potete consegnare al secchio del rusco) e il peperone (che invece terrete religiosamente da parte), quindi mettete in pentola cavatelli e verdura e fate insaporire per bene qualche minuto a fuoco medio mescolando spesso ma con delicatezza, in modo da non sciupare la pasta.
A quel punto siete pronti per mandare in tavola: travasate il tutto in una scodella di portata, decorate con i pezzetti di sferzellone ben croccante e servite i cavetellucce. Godetevi la soddisfazione di guardare il commensale che spazzola il piatto alla velocità di un aspirapolvere canticchiando con giubilo. Se si tratta di più ospiti, avrete il piacere di cenare con un coro polifonico di mugolii soddisfatti.
Quindi rassegnatevi.
Perché, a intervalli regolari, riceverete lagne querule di amici e parenti che chiedono quella pasta così buona.
E quindi i cavatelli dovrete rifarli, e rifarli, e rifarli. E rifarli ancora.
Avrete così bell'agio di scoprire come mai ci sono donne benemerite, come mia zia e le ineffabili sorelle Ciccone, che i cavatelli sono in grado di approntarli a occhi chiusi. Ma a quel punto farete già parte della loro schiera, e vi toccherà, serenamente, mettervi l'anima in pace.

lunedì 8 febbraio 2010

For they are jolly good fellows...

Oggi niente ricetta, anche causa stravizi belluini nel finesettimana.
Però, non mi posso esimere da un bel dolce: mi è necessario per fare gli auguri. Ancora una volta al mio papozzo, che ha spento le candeline ieri, e alla diletta Muni che invece le spegne oggi.
Come si conviene fra persone comme il faut, non rivelerò quante ne han spente l'uno e l'altra: si sappia però che entrambi sono creature gagliarde e care, e che sono felice di averli accanto a me, ciascuno a modo suo e con il suo ruolo.
Many wishes, kids!

venerdì 5 febbraio 2010

Cucina di corsa: pasta al gratin

Scusatemi ma oggi vado di fretta quindi propongo una ricetta molto veloce. E' ideale per la domenica, e farà felicissimi i commensali dai gusti più diversi. Inoltre ha il vantaggio che, come vedrete, ci vogliono pochissimi ingredienti. E se la portate in tavola opportunamente sformata ci farete un figurone. E' uno dei cavalli di battaglia della mia famiglia da sempre, pertanto parlo a ragion veduta. Ma bando alle ciance e procediamo.

Ingredienti:
mezzo chilo di pennette lisce (piccole, mi raccomando, e ribadisco lisce)
20 grammi (ovvero un cucchiaio) di burro più qualche fiocchetto
due cucchiai di farina
mezzo litro di latte
un etto abbondante di scamorza passita
mezz'etto di parmigiano grattugiato
pangrattato
un'ombra di noce moscata

Preparazione:
in primis con latte, farina e burro fate la besciamella. Ovvero fare scaldare a fuoco basso burro e farina, e non appena si sono imbionditi aggiungete piano piano il latte (meglio se a temperatura ambiente o appena tiepido) sempre rimestando con il fedele cucchiaio di legno. Non appena il composto vela il succitato cucchiaio tirate via dal fuoco, aggiungete una spolverata di noce moscata e lasciate raffreddare.
A questo punto potete cuocere la pasta: e cuocetela molto, molto al dente. Non deve essere cruda, ma dev'essere meno cotta di come che siete soliti servirla in tavola. Dopo averla scolata, conditela per benino con la besciamella avendo cura di lasciar da parte un paio di cucchiai della stessa.
A questo punto datevi del tu con la teglia, che deve essere se possibile tonda, e se è del tipo con cerniera apribile è meglio ancora. Ungetela con il burro e foderatela con il pangrattato scuotendo via quello in eccesso. Quindi, metteteci uno strato di pasta condita. In secundis, un ricco strato di scamorza tagliata a pezzetti e parmigiano. E per concludere uno strato finale di pasta, che sormonterete con generosa dose di parmigiano, la besciamella avanzata, qualche pezzetto residuo di mozzarella e un paio di fiocchetti di burro. Voilà!
A quel punto piazzate la teglia in forno già caldo a 180° per una ventina minimo di minuti, quindi lasciate raffreddare appena, con l'aiuto di un piatto sformatela (se avete invece usato una teglia apribile togliete il cerchio) e portate in tavola.
Se sapete che è gradito ai commensali, nello strato intermedio potete aggiungere qualche pezzetto di prosciutto cotto e dei piselli ripassati con un po' di burro, ma a noi piace tutta bianca come la neve. E' semplice, e squisita.
Spero che piacerà anche a voi e a chi vi è caro: semmai fatemi sapere.
E adesso perdonatemi ma vi auguro buon weekend e scappo via, ché domenica è il compleanno del mio babbino e, perbacco, aggio fà cose 'e pazzi.

giovedì 4 febbraio 2010

Patate in umido con origano (per Marco DB)

Questo piatto è semplicissimo da preparare. Ripeto, semplicissimo. E' alla portata di chiunque. Ci vuole giusto una pentola o padella e un coperchio. A farlo ci si mette un lampo, e non tocca manco sorvegliare la cottura. Ed è buono, tanto più buono, ad esempio, dei terrificanti noodles istantanei: i quali, ha riferito Giulia che è testé tornata da Bergen per una visita lampo in Italia, sono al momento l'unico cibo di cui il suo collega di studi e di avventure nella ridente località norvegese si nutra, giacché da bravo ingegnere maschio i fornelli li conosce ovviamente giusto per sentito dire.
Ora, io adoro la cucina orientale, inclusa quella espressa: ma chiunque converrà che nutrirsi di noodles istantanei per oltre una settimana è cosa in grado di minare persino la categoria degli ingegneri, nota per sopravvivere anche a prolungati periodi di alimentazione a base di schifezze orrende.
Per cui, caro Marco, se mi leggi ti prego almeno una sera di abbandonare le temibili brode per cimentarti con questa ricetta che, sottolineo di nuovo, è davvero semplice, e i cui ingredienti si possono trovare anche nella succitata ridente località.

Ingredienti:
tre patate medie (mi raccomando di non sceglierle di colorito verdino o con la buccia raggrinzita)
tre cucchiai d'olio (che un italiano non può non avere in dotazione, anche se ingegnere)
uno spicchio d'aglio (reperibile sicuramente presso il negozietto etnico scovato da Giulia: in alternativa, optare per quello in polvere che si trova anche al supermarket)
abbondante origano (da reperire come sopra)

Preparazione:
anzitutto vanno ovviamente pelate le patate, con un comunissimo coltello da cucina o meglio ancora con l'apposito pelapatate. So che buttar via la buccia è cosa che disturba profondamente l'ingegnere, il quale è abituato a concepire il minor spreco possibile: in Norvegia ci si può però consolare con il fatto che la raccolta differenziata viene compiuta comme il faut, e che pertanto le bucce di patata troveranno degnissimo impiego.
A seguire, le patate vanno tagliate a fette alquanto sottili (due o tre millimetri) e tenute a portata di mano.
Adesso viene il passaggio un pochino più complicato: si mettono i tre cucchiai d'olio nel tegame insieme allo spicchio d'aglio, il quale dovrà essere sbucciato e lievemente schiacciato con il fondo di un bicchiere o altro oggetto apposito, e si pone il succitato tegame sul fornello a fuoco bassissimo. Se al posto dei fornelli sono in uso le malefiche piastre elettriche come è capitato a me negli studentati austriaci e teutonici, badare di tenerle al minimo.
Non appena l'aglio inizia lievemente a sfrigolare (il rumore è pop, pop, pop) si mettono le patate nella pentola o padella che sia, si aggiunge mezzo bicchiere d'acqua - calcolare circa 100 ml - e si mette il coperchio, mantenendo sempre fuoco o temperatura al minimo.
Quindi si lascia andare la cottura e nel frattempo si studia, si legge, oppure ci si riposa, quest'ultima cosa assai auspicabile dopo una giornata a farsi una capa tanto seguendo lezioni tenute in una lingua che non è la propria e di argomento che ha in genere la leggerezza e piacevolezza di una bastonata sulla nuca.
Tempo una mezz'ora scarsa, le patate saranno pronte.
A quel punto si tirano via dal fornello, si versano in un piatto o scodella o contenitore adatto all'uopo, si condiscono con un tot di sale, si cospargono in base al gusto di origano e, vivaddio, si mangiano.
Accompagnate da un tocco di pane e da una fetta di formaggio, le patate in umido costituiranno una cena tutt'altro che malvagia ed eviteranno, come accade con gli instant noodles, di causare al mangiatore incubi spaventosi in cui il matematico cinese Sun Tsu insegue il malcapitato minacciandolo di torture inenarrabili se non gli ripete a menadito L'arte del calcolo in nove capitoli.
Sono inoltre un ottimo pasto caldo, in grado di rinfrancare, ad esempio, anche una povera creatura che sia reduce da ore e ore di trasporti e da un'escursione termica che in tempo ridotto è passata da sottozero a +12° e viceversa.
Pertanto, caro Marco, se avrai modo di prepararle per lunedì sera, secondo me non fai un soldino di danno. Ikke sant?

mercoledì 3 febbraio 2010

Taratuòffele (biscotti farciti espressi)

"Uh, e questi che sono?"
"Lasse sta', che ci sono venuti male..."
"Zì, vi saranno pure venuti male, ma c'hanno un profumo da svenimento..."
"Ma vatténne! Li abbiamo fatti in due minuti..."
"Gnam... gnam... ecco, motivo in più per dirmi come li avete fatti. Sono buoni veramente."
"Eh, figurati, con quel po' di marmellata di fichi che era avanzata, non sapevamo che farci, il barattolo era pure ingombrante..."
"Gnam... ma la pasta... gnam... quali sono gli ingredienti e in che proporzione?"
"Guagliò, so' contenta che ti piacciono, ma questo mica vuol dire che li devi finire, eh?"
"Ehm... Pardon."
Come molte maestre del mestolo e del mattarello, zia Maria e zia Lella son note per improvvisare le pietanze a seconda di quanto hanno sottomano. Ovviamente i risultati sono sempre notevoli, e questi biscotti non fanno eccezione. Inseguendole come solito per tutta casa sono riuscita a carpire la ricetta, le cui dosi riporto come più o meno esatte in quanto loro, of course, cucinano a occhio. Le zie riferiscono che oltre alla marmellata di fichi qualunque altra conserva di tipo compatto può dare ottimi risultati. Io aggiungo che, essendo codesti biscotti facili e veloci da preparare, rientrano a buon diritto nella categoria dei dolci espressi da fare quando bisogna approntare alla velocità del suono una merenda come si confà. Mi riprometto quindi di proporli quanto prima all'amato bene per farmi perdonare di un commento non proprio gentile sulla categoria degli ingegneri rilasciato sull'ultimo post di Passodoppio, il blog dell'ineffabile bimamma Valentina.
Quanto al nome - che è importante, giacché (il Libro docet) le cose non hanno esistenza e identità finché non le si provvede di ciò - zia Maria suggerisce taratuòffele, che nella lingua del mio paese designa le cose fatte pasticciando alla velocità del suono, nonché le persone che, per l'appunto, sono use far le cose pasticciando.

Ingredienti:
circa 300 grammi di farina
2 uova
120 grammi di zucchero
80 grammi di burro
un cucchiaino di lievito, o meglio ancora di ammoniaca per dolci
la buccia grattugiata di un limone
rimasugli di marmellata atta allo scopo (di fichi, mele, amarene, arance, ciliege, prugne e quant'altro, purché non sia del tipo liquido)

Preparazione:
impastate velocemente gli ingredienti (marmellata a parte, ovviamente) sull'apposita spianatoia e una volta realizzata una bella palla di pasta armatevi di mattarello e stendete una sfoglia spessa un paio di millimetri. Da detta sfoglia ritagliate delle strisce dell'altezza di una quindicina di centimetri, quindi spalmate ciascuna striscia con la marmellata badando a lasciare su ciascun bordo un po' di pasta che ne sia libera: se ne avete di più tipi di conserva meglio ancora, così otterrete dei biscotti con gusti diversi. Ripiegate poi la striscia su se stessa in modo che diventi una specie di filoncino ed esercitate sulla superficie una lieve pressione con i palmi in modo che venga un po' schiacciata, come se faceste uno strudel.
Mettete quindi i filoncini su una teglia foderata di carta da forno, poneteli in forno già caldo a 200° e tirateli fuori quando hanno assunto un bel colore dorato e la cucina si sarà riempita di un invitante profumino biscottizio. Le zie si raccomandano a questo punto di aspettare che i filoncini si raffreddino una decina di minuti, altrimenti "al momento del taglio si rovina tutto come è successo a noi" (le zie, putacaso non si fosse capito, sono delle perfezioniste): quando sono a temperatura decente metteteli su un tagliere di legno - sconsiglio caldamente supporti in altri materiali a meno che non li vogliate ridurre in strisce - e ritagliate dai filoncini dei tozzetti dello spessore di un centimetro e mezzo circa, infine metteteli a biscottare nel forno spento ma ancora caldo.
I biscotti farciti, assicurano le zie, si conservano agevolmente per più giorni purché si abbia l'accortezza di conservarli nella solita scatola di latta, nonché quella di sottrarli alle ganasce d'acciaio della nipote di turno. La quale nipote ha avuto la faccia tosta di svuotare la succitata scatola lasciandone due esemplari per un sussulto di coscienza e beccandosi per tale motivo una valanga di ululati da mammà che si pregustava la merendina pomeridiana.
Temibili, gli ululati di mammà.
Ma perbacco, ne valeva la pena.

martedì 2 febbraio 2010

Facciamoci del male: riso fritto (fried rice)

Questa pietanza è quella che, in buona lingua, si suole definire una vera zozzeria: livelli improponibili di calorie, colesterolo, chi più ne ha più ne metta. Va da sé che, proprio per questo motivo, è buonissima. Ha pure il vantaggio di essere uno di quei piatti svuotadispensa: la ricetta può infatti variare a seconda degli ingredienti disponibili. Se ci si fa una passeggiatina gastronomica in Oriente, si scopre infatti che il concetto di fried rice è onnicomprensivo di tutta una serie di pietanze che hanno giusto due cose in comune: il riso, ça va sans dire, e la cottura ad alte temperature in capace padella. Se si unisce a ciò il fatto che a prepararlo ci si mette poco tempo e poca fatica, il riso fritto si propone a buon diritto come cena d'elezione in una di quelle serate in cui la voglia di cucinare è scarsina ma si vuole evitare la mestizia del solito panino con formaggio, o in cui ci sia un'orda di ospiti che son tutti muniti di appetito gagliardo e hanno pure ben pensato di portarsi un codazzo di commensali imprevisti che, tapinelli, stavano a intristirsi a casa.

Ingredienti (da moltiplicare in proporzione agli ospiti):
due etti di riso parboiled
un etto e mezzo o giù di lì di wurstel, salsiccia o similari
altrettanto di affettato (prosciutto cotto, tacchino arrosto o qualunque cosa vi avanzi nel frigo)
una zucchina di media grandezza
un cipolla bianca
un paio di carote
un paio di cucchiai d'olio
salsa di soya in base al gusto

Preparazione:
per prima cosa cuocete il riso nel solito modo, ovvero in pentola antiaderente con il coperchio di vetro e doppia quantità d'acqua rispetto al peso del riso. Ponetela a fuoco medio, evitate di scoperchiare e attendete finché i chicchi avranno bevuto tutta l'acqua e si presenteranno ben sgranati, quindi tenete da parte.
Nel frattempo che il riso cuoce dedicatevi a preparare gli altri ingredienti: con una comune grattugia tritate cipolla, zucchina e carote (queste ultime due ponetele in una ciotolina a parte) e fate a pezzettini i salumi. Quindi in capace padella antiaderente, o meglio ancora nel wok, fate imbiondire la cipolla nei due cucchiai d'olio, sempre avendo cura di coprire con il fido coperchio di vetro così si stufa nel suo vapore e non si brucia.
Quando la cipolla è diventata trasparente aggiungete le verdure tritate e a fiamma vivace fatele insaporire per benino senza coprire e aggiungendo un goccio d'acqua. Quando si sono ammorbidite, versate salsa di soya a piacere e fate insaporire ancora. Quindi versate in padella il riso (magari aiutandovi con il cucchiaio di legno così evitate di decorare i fornelli) e sempre a fuoco vivace date una bella mescolata in modo che si condisca. In ultimo aggiungete gli affettati, spruzzate ancora di salsa di soya e lasciate andare per qualche minuto finché il riso non si è colorato e il tutto si è amalgamato come si confà.
A quel punto la pietanza è pronta per andare in tavola: spegnete il fuoco, travasate il tutto in una scodella e servitela. Se avete impiegato il wok portate in tavola direttamente quello, che mi dicono faccia molto chic e non manchi di strappare un bel po' di oooh e aaah agli ospiti meno smaliziati - e offre pure il vantaggio di una stoviglia in meno da lavare, ma questo fra parentesi.
Giacché il riso fritto si può definire inequivocabilmente come piatto unico, ciò vi darò la scusa per non cucinare nient'altro. Se poi gli ospiti o l'amato bene mettono su la temibile wounded puppy face (traducibile più o meno come "espressione da cucciolo ferito", che è quella che qualunque cuoca si trova parata davanti in caso di commensali con un appetito da rivaleggiare con Gargantua e che non si può ignorare pena lamentele stile prefica per mesi a venire), resistete alla tentazione di prendere l'uno e gli altri a colpi di mestolo e tirate fuori la scatola di latta con i pepatelli che avevate saggiamente serbato per i momenti bui.
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