martedì 30 giugno 2009

Zuppa di patate e cipolle

"Donna di penna sono e non di pentola", dice mia madre. In effetti, stare ai fornelli non è mai stata la sua attività preferita, e con tutto il lavoro che ha sempre avuto da fare pure se le fosse piaciuto non ne avrebbe avuto il tempo manco se la giornata contasse il doppio delle ore prescritte. Va però detto che farà pure quattro cose, ma le fa clamorosamente buone: mi basta il ricordo delle straordinarie frittate che faceva in campeggio durante le vacanze, sempre diverse e sempre squisite, o i fagiolini trippati (sì, quelli che sono missing in action dal mio album fotografico causa macchinetta traditora, e che rifarò prossimamente, growl!), per farmi venire una fame clamorosa. Uno dei suoi cavalli di battaglia è questa zuppa, che è semplicissima e va bene per ogni stagione. L'ho proposta di recente al compagno di casa e di vita, che amando le patate più di un tedesco l'ha apprezzata parecchio. Per cui, se avete amici o persone care tuberofile, ecco la ricetta.

Ingredienti:
tre cipolle bianche di grandezza media
quattro grosse patate
un cucchiaio d'olio
un cucchiaio di parmigiano

Preparazione:
tagliate le cipolle in quarti (non più piccole) e mettetele a stufare in una pentola capace con il cucchiaio d'olio e mezzo bicchiere d'acqua a fuoco bassissimo e tenendo sulla pentola il fido coperchio di vetro; quando hanno cominciato ad ammorbidirsi, aggiungete le patate tagliate a spicchi, una presa di sale, rimettete il coperchio e lasciate cuocere per una mezz'ora abbondante sempre a fuoco minimo. Quando le patate sono cotte (saggiate con la forchetta per averne conferma) spegnete il fuoco, versate il parmigiano (e abbondate pure se vi piace il formaggio: male non fa), date una bella mescolata e, se è inverno, portate subito in tavola.
Se invece siste nel bel mezzo della calura estiva, aspettate che la zuppa raggiunga la temperatura ambiente, mettete in frigo e servitela il giorno dopo: vi basterà aggiungere un filino d'olio, dare una mescolata, se gradite spruzzare con un po' di origano, e avrete un ottimo primo piatto estivo che si accompagna assai piacevolmente a verdure, sottaceti e insalate.
E mille grazie alle donne di penna, che cucineranno pure tre volte l'anno, ma quando si mettono ai fornelli lo fanno come cucina comanda.

lunedì 29 giugno 2009

Mi è concesso un lieve piagnucolare?

Ragazzi, chi può mi mandi una pacca virtuale sulla spalla. Ne ho bisogno.
La mia (in)fedele macchinetta digitale mi ha tradito. Ho perso tutte le foto di ricette che avevo scattato nell'arco delle ultime due settimane.
Giustamente, la memory card ha ben pensato di farmi questo ameno scherzo proprio nel momento in cui avevo deciso di essere saggia, e di copiarle sul mio pc, visto che non si sa mai cosa può succedere.
E' verissimo. Non si sa mai cosa può succedere.
E benché nella vita in genere e nella mia in particolare ci siano cose ben peggiori, questa è invero seccante.
Fra le ricette che non potrò postare almeno prossimamente causa ciò ci sono: panzerotti misti alle verdure e ai salumi, pollo con salvia e spezie, fagiolini trippati, melanzane a barchetta, tortino di patate, fagiolini e wurst tirolese (mi era venuto carino, con le salsicce artisticamente foggiate a mo' di farfalla, sigh), più svariate altre che al momento non mi sovvengono, ed è meglio che sia così.
Vado a farmi qualcosa di fresco.
E, come da titolo del post, mi concedo pure un lieve piagnucolare.
Direi che ci sta tutto.
Grrr.

Elogio felino

Amo i gatti da quando ho avuto il primo barlume di consapevolezza, e il mio più grande desiderio è stato sempre averne uno: per mia sfortuna mi è andata male. Quando ancora vivevo con i miei genitori qualunque bestia in casa, men che meno un micio, era fuori discussione (suppongo che i miei non volessero bestie che si facessero le unghie nei divani e facessero cascare i soprammobili una volta sì e l'altra pure), e quando sono andata nella mia attuale casetta il proprietario ha fatto capire che un eventuale coinquilino a quattro zampe gli avrebbe fatto alzare le sopracciglia ad altezze siderali. Per cui, niente creature pelose che fanno le fusa.
Rettifico: niente creature pelose che fanno le fusa fino a poco più di un anno fa. Perché adesso, con mia grande gioia, di gattini ne ho quattro. E tutte le volte che vado nella casa in campagna che la famiglia del mio compagno ha poco fuori il paesello delle ginestre, mi vengono incontro e mi salutano. E per tutto il tempo che resto lì, giochiamo, ci facciamo le coccole e ci divertiamo come matti.
I micini sono arrivati in due distinte ondate. L'anno scorso a maggio abbiamo visto una gatta bellissima, patita per la fame, aggirarsi pian piano in mezzo all'erba. Aveva gli occhi azzurri, era spelacchiata e non miagolava. Le abbiamo dato un po' di latte e ha gradito molto. Si è ripresentata qualche volta, e sempre le abbiamo dato un po' di cibo. Che bella micia, abbiamo pensato, le ci vuole un nome. E' stato scelto Kathy, quello che era il nome della gatta che c'era in campagna quando il mio compagno era piccolo.
A inizio giugno è tornata, e non era da sola. Con lei aveva tre micini: uno rosso tigrato, che è stato battezzato Scheggia perché correva e saltava senza mai fermarsi, e che potete vedere nella foto in alto; uno pezzato di grigio, marrone e rossiccio, che ha avuto per nome Totti visto che uno dei nipoti del mio compagno è un gran tifoso der Pupone (e il nome è rimasto, con grande sollazzo degli amici laziali, anche quanto abbiamo scoperto che era una gattina); il terzo, tutto nero, che è stato chiamato Coraggio perché da piccino era il più intrapredente, anche se ora è il più fifone della truppa e se uno si avvicina troppo alla ciotola del cibo prende la fuga come fosse inseguito da un rottweiler particolarmente malevolo.
I micini son cresciuti a ritmo esponenziale e adesso che è passato oltre un anno dal loro arrivo sono proprio dei bei gattoni.
Mamma gatta non è più patita come quando è arrivata un anno fa: è una bellissima micia con il pelo folto e lustro, e i suoi occhi azzurri spiccano nel musino nero. E' sempre parecchio seria, ma dimostra il suo affetto venendosi a strusciare contro le caviglie di noi duezampe, e facendo la guardia davanti alla porta: quando esci, ti saluta con un miao silenzioso. Se ti siedi, ti si sdraia davanti. Non è tipa da smancerie, ma fa sentire la sua presenza.
Scheggia è diventato un bel tigrotto con la coda a pennello. E' il più avventuroso, e spesso si intrufola in mezzo agli arbusti o si mette a esplorare i campi del vicinato, facendo cose talvolta poco furbe come montare sulla cisternetta che raccoglie l'acqua piovana con il rischio di caderci dentro. Qualche tempo fa si è presentato con uno squarcio del diametro di una tazzina da caffè sulla coscia sinistra, probabilmente perché è andato a dar fastidio alla volpe, che ha la tana vicino alla vecchia quercia (ragazzo, mai dare fastidio a una signora, men che meno se è tempo di cucciolate; ci si rimette sempre). Fortunatamente sta guarendo e, come ha notato con soddisfazione il nipotino più grande, non gli resterà nessuna traccia: sulla ferita richiusa sta persino ricominciando a crescere il pelo. Scheggia è davvero il poster cat del detto "la fortuna aiuta gli audaci".
Oltre al tigrotto, lo zoo felino annovera una graziosa pantera in miniatura: il micio Coraggio, il più snello ed elegante dei tre. Nessuno di noi è mai riuscito a fargli una carezza, perché basta avvicinarsi a meno di cinque passi per farlo schizzar via come una palla di pelo nero a velocità supersonica. Negli ultimi tempi però si è notato qualche miglioramento: purché in compagnia degli altri, rimane a rispettosa distanza, senza più fuggire a ogni movimento sospetto. Ogni tanto ti guarda con i suoi occhi color opale, controllando con grande serietà che nessuno stia progettando qualche tiro mancino ai suoi danni, e poi si rimette a fare le pulizie. E già solo guardarlo da vicino è un gran piacere.
Infine, ecco la mia prediletta: Totti la micia, la più tenera e affettuosa, la prima che ti viene incontro per strofinarti il muso sulle gambe e per ricevere le carezze. Io la chiamo la cangatta, perché davvero sembra più un cagnolino che un micio: si dice che i gatti si facciano i fatti propri se non quando han necessità di cibo o attenzioni, lei invece ama la compagnia e ti segue ovunque, spesso con effetti per lei deleteri perché ti si mette davanti ai piedi, e se non stai più che attento c'è sempre il rischio di darle un calcione. Ma è troppo bello averla accanto mentre passeggi per l'erba e fra gli alberi. Basta chiamarla, e lei ti segue passo passo, deviando di tanto in tanto per annusare una pianta o dare la caccia a una farfallina. E quando ti fermi, senti la sua testa che preme contro le caviglie. E' una bella sensazione.
La casa in campagna è sempre stata bella, ma da quando ci sono i mici lo è di più. Persino il babbo del mio compagno, che non è tipo da smancerie (e infatti lui e mamma gatta si intendono benissimo), si è molto affezionato. Nonostante ogni tanto borbotti che tutti quei gatti sono un po' seccanti - soprattutto perché, da bravi gatti, sono molto curiosi, e stanno sempre in mezzo mentre lui pota le siepi o taglia l'erba - non manca mai di fare una scappata tutti i giorni o quasi per portargli un po' di pappa. I nipoti invece di star piazzati davanti alla tivù passano le ore fuori a giocare con loro. E la mamma, la signora Gianna sempre impegnata a sistemare la casa o a far manicaretti, si rilassa più volentieri la sera con i mici accanto che le tengono compagnia.
E io e il mio compagno? Siamo felici. Ogni volta che arriviamo siamo impazienti di trovarli come sempre davanti casa, tutti e quattro in parata, ognuno con il suo modo di salutare: Scheggia che miagola a tutta forza, Totti che cerca le carezze, Coraggio a rispettosa distanza, mamma micia che resta sdraiata ma ci guarda come a dire "toh, rieccoli, chissà che fine avevano fatto".
Il loro saluto è una di quelle cose che ci fa sentire veramente a casa.
Stiamo facendo il conto alla rovescia: fra meno di un mese li rivedremo.
Ed essere a casa sarà bello.

sabato 27 giugno 2009

Le lucciole di don Giovanni

Questa è una veduta dello mio paese dipinta più o meno al tempo dell'Unità d'Italia, e che si può vedere al museo Capodimonte di Napoli. La via principale con la gente che chiacchiera, un contadino che porta i suoi sacchi, un altro che si riposa sul muretto, un cane sdraiato ai suoi piedi. Una scena comune in qualunque paese a quel tempo e non solo. Scene come questa, gli abitanti, la vita nelle campagne sono state l'ispirazione del più famoso poeta dialettale del mio paese: Giovanni Cerri, ovvero don Giuanne.
Gli esperti lo considerano uno dei maggiori esponenti della poesia dialettale della mia regione. Ma per me, non è importante il giudizio degli esperti. Ciò che so è che ha scelto di dare dignità di lingua letteraria a quello che è considerato un dialetto. E che nelle sue poesie lo ha fissato prima che si perdesse, cosa che sta accadendo molto in fretta. Per cui, rileggerle è un modo per riannodare fili che si sono spezzati. Oppure per ricostruire un luogo che quando sono nata già si era perso, e per il quale, forse proprio perché non l'ho conosciuto, la nostalgia è feroce.
Di don Giuanne i più anziani serbano ancora memoria diretta: prima che poeta, era infatti maestro elementare. Molti si ricordano ancora la sensazione delle sue nocche sulla nuca quando commettevano un errore durante la lezione, e mia zia Margherita dice sempre che a vederlo, sempre così severo, te faceve torce 'u male (espressione difficilmente traducibile e che significa più o meno "ti faceva prendere uno spavento terribile", ma l'originale rende assai meglio l'idea). La severità, come spesso succede, nascondeva una grande sensibilità. Nelle sue poesie si sente, anche se trattenuta: nel descrivere la fatica dei contadini (fatìa e guaie ni struie maie, fatica e guai non li distruggi mai, recita un verso), la loro vita fatta di lavoro, di sedòre c'a grascia e vino c'a cogna, sudore in abbondanza e vino quanto ne entra in un guscio di noce. E gli animali piccoli e grandi, compagni dell'uomo nel suo percorso fino alla fine, e la voce che esce du core di chiante, dal cuore delle piante.
Per me, leggerlo è ritrovare lo heimat di mio padre e dei miei nonni. Qualcosa che conosco grazie ai racconti delle mie zie, di qualche anziano, di mio padre stesso quando è in vena di amarcord. Ma nulla lo porta davanti ai miei occhi come le parole di don Giuanne.
Ed è a lui che lascio la parola. Ho scelto una poesia che ha per protagoniste le lucciole. Il loro nome nella mia lingua è molto più bello: luce-na-cappelle, ovvero "luci nelle cappelle". E' la mia prediletta: ho provato a farne una traduzione a uso di chi non è sannita, ma se potete provate a leggerla in lingua originale. Oppure, meglio ancora, ad ascoltarla: a leggerla è mio padre, uno dei pochi che ancora conosca il dialetto del mio paese come lingua viva.


Luce-na-cappèlle

Sonn'asciùte cu frìsche
i luce-na-cappèlle
masséra.
E' tiémpe de trische
e 'ncopp'allàrie
ntramiénte l'anteniére
ammen'a uadàgne,
i fémmene ze dìcene u resàrie.
I luce-na-cappèlle
sònne i figlie di stélle
e vanne 'n campàgne
pe tòlle a-ddora du hiene
che è a-ddora de Die
pecché sa de fatìa.
Può ze ne vanne tutte a culecà
dent'a ciénte cappelle
de tante pàiesiélle
e z'addòrmene
dent'i chiéche da gónne
da Madonne
e fanne lume
pennante a tutt'i Sante.

(Sono uscite col fresco/le lucciole/stasera./E' tempo di trebbia/e mentre l'anteniere/solleva i covoni/le donne dicono il rosario./Le lucciole/sono figlie delle stelle/e vanno in campagna/a prendere l'odore del fieno/che è odore di Dio/perché sa di fatica./Poi si vanno tutte a coricare/dentro cento cappelle/di tanti paeselli/e si addormentano/nelle pieghe della gonna/della Madonna/e fanno luce davanti a tutti i Santi.)

Don Giuanne se ne è andato nel 1970, quando ancora non ero nata.
Gli hanno intitolato la scuola elementare del mio paese.
Visto che nulla e nessuno muore per sempre, sono certa che lo sa. E che per lui sia l'omaggio più bello.

venerdì 26 giugno 2009

Ostie

"Pronto zia?"
"Uh, ciao! Dimmi!"
"Per favore, mi dovresti ridare la ricetta delle ostie. Me la sono persa un'altra volta."
"Sempre quella è. Uova, olio, un po' di zucchero..."
"Zì, le dosi..."
"E che ne so, io faccio a occhio."
"Sì, ma più o meno?"
"Mah, due uova, una tazzina d'olio, un paio di cucchiai di zucchero, poi la bruccia grattugiata di un limone... Non ci mettere il latte come fa 'a maestra tìa, sennò non vengono croccanti..."
"Zia... La farina..."
"Eh, io non la peso mai... Ce ne metti quanta ce ne vuole."
"Che vuol dire quanta ce ne vuole? Non so, quantificata in cucchiai quanto sarebbe?"
"Te l'ho detto. Quanta ce ne vuole".
Alzi la mano chi non si è mai scontrato con il "quanta ce ne vuole" chiedendo una ricetta alla zia, alla nonna, alla vecchierella del paese che fa quei dolci buonissimi i quali, non appena provate a farli a casa vostra, diventano pezzi di compensato con un sapore a metà fra l'asfalto e la guttaperca. Le ostie non fanno eccezione: tutte le donne della mia famiglia le sanno fare (rettifico: tutte le donne nate quando i sabati li si passava a marciare per non marcire cantando amenità come "Faccia al sol con la camicia nuova"), ma ci fosse un modo per capire l'esatta quantità degli ingredienti. Sicchè tutte le volte che le preparo è un terno al lotto.
Non che io sia alla ricerca dell'ostia perfetta. Però, sapete com'è, ci tengo. Questo dolce, che è un dolce poverissimo ed è in sostanza una cialda cotta con un apposito ferro, è quello per eccellenza della mia infanzia. E da me è stato per secoli anche il dolce per eccellenza delle feste, soprattutto quelle di matrimonio (forse il nome deriva appunto dall'occasione in cui venivano consumate: altrove si chiamano ferratelle o pizzelle, ma io tengo alla denominazione sannita, che mi sembra molto più bella). Adesso si fanno in qualunque occasione, impiegando i comodi ma banalissimi ferri elettrici: io ne ho uno classico di ghisa che scaldo direttamente sul fuoco, e che secondo me le fa più buone.
Resta inteso che se non avete il succitato ferro questa ricetta sarà per voi assolutamente inutile. Però la pubblico lo stesso. Un po' perché, per tutta una serie di motivi, mi manca casa. Un po' perché le ostie sono così buone che vale la pena di procurarsi il fondamentale utensile - e con un po' di fortuna e una vacanza lì dove l'Adriatico selvaggio è verde come i pascoli dei monti, riuscirete a trovarlo anche in un mercato rionale. E un po' perché del mio Sannio proprio non posso non parlare, cosa che sa molto bene chi mi frequenta, e che a intervalli regolari si deve sciroppare le mie elegie su questa terra che ha tutto, montagne e mare e colline, e tradizioni che non sfigurano di fronte ad altre ben più note nell'italico folklore, e che sarebbe famosa quanto l'Umbria o la Toscana se i turisti si decidessero a scoprirla, eccetera eccetera.
Ma bando alle chiacchiere.

Ingredienti:
quelli citati dalla zia nella telefonata
200 grammi abbondanti di farina (ho fatto la ricetta a occhio - ebbene sì! - e ho calcolato che dovrebbero bastare)

Preparazione:
sbattete le uova con lo zucchero e la buccia di limone, aggiungete l'olio e infine la farina a cucchiaiate, mescolando il tutto fino a ottenere una pastella che non sia né troppo liquida né troppo dura (mi rendo conto che sto parlando con la stessa chiarezza della vecchierella del paese citata all'inizio, ma spero che la foto aiuti).
Quindi ungete il ferro con un po' d'olio asciugando l'eccesso con un foglio di carta, e scaldatelo sul fornello: io sono assai orgogliosa del mio, che ha qualche annetto sul groppone (me lo regalò la zia Lella come utensile da battaglia quando ancora non avevo vent'anni, una vita fa) e come vedete ha piastre con disegni differenti.
Non appena il ferro è caldo (scaldatelo chiuso alternando un lato e l'altro sul fornello) è arrivato il momento di fare l'ostia di prova.
Prendete un cucchiaino da tè ben colmo d'impasto e aiutandovi con un coltello o un altro cucchiaino mettetelo al centro della piastra inferiore del ferro (e fate molta attenzione perché scotta come l'inferno).
Quindi chiudete il ferro, fate passare meno di un minuto, voltate il ferro dall'altra parte e aspettate altrettanto. Alla fine aprite, constatate la cottura (deve avere un colore dorato, non l'aspetto cadaverico delle insipide versioni che potete trovare pure al supermarket, settore cibi regionali) e togliete l'ostia dal ferro aiutandovi con la punta di un coltello. Ripetete l'operazione finché non è finita la pastella: più andate avanti, meno tempo vi occorrerà a cuocere le ostie, per cui badate a non realizzare degli artistici pezzi di carbone scanalato.
Una volta pronte, lasciatele raffreddare: assumeranno la durezza di un sasso, ma sottili come sono sarà un piacere sgranocchiarle. Una delle ricette della zona montagnosa del Sannio suggerisce di farcirle a coppia con un misto di miele, frutta secca tritata e cioccolato, ma per me che vengo dalle colline è fin troppo ricca, per cui opto sempre per un cucchiaino di marmellata fatta in casa, che è il modo in cui le mangiavo da piccola a merenda dopo la scuola.
E a proposito di scuola, spendo due parole su 'a maestra mia, citata da mia zia nella telefonata: commetterà pure l'errore di aggiungere latte all'impasto, ma è stata una delle pioniere che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso insegnava ai suoi alunni la matematica con i blocchi logici di Vygotsky. E questo in un paesino sannita che contava duemila abitanti scarsi.
Ve l'ho già detto che mi manca casa?

giovedì 25 giugno 2009

Gazpacho di Marina

Questo piatto è legato nella mia memoria a un momento particolare, e per me è un simbolo della capacità di accogliere.
Il momento particolare era la perdita di una persona cara. Per cui, non è che fossi molto allegra, e ho ragione di supporre che non fosse particolarmente facile starmi vicino. E proprio in quel momento, come a volte succede quando ci si sente in un cul de sac, è successo qualcosa. Quel qualcosa è stato un invito di Marina.
Di Marina si potrebbero dire tante cose, e sarebbero così tante che questo post sarebbe lungo quanto una regia teatrale di Necrosius. Quindi sintetizzo dicendo che è una donna bellissima e, caso raro, lo è sia fuori che dentro. Ha una generosità istintiva che poche persone possono vantare. E sapendo come stavo, mi ha chiesto di raggiungerla al mare. "Io non ci sarò quasi mai perché devo lavorare, ma non fa niente: tu stai lì con i miei, se hai voglia chiacchieri con loro, sennò vai a passeggio, leggi un libro, stattene per fatti tuoi, insomma, fai quello che ti senti di fare."
Di quel soggiorno ricordo diverse cose. Fra le tante, una delle più vivide è una domenica in cui ho visto Marina arrivare in veranda con una pagnotta di pane raffermo e un sacchetto di pomodori maturi. "Oggi gazpacho", ha dichiarato molto matter-of-factly. E io sono rimasta a osservare lei, sua madre, sua cugina e sua nipote settenne impegnate insieme a prepararlo, quattro generazioni assieme. Sarà banale, ma è stato uno di quei momenti di cui, mentre ancora lo stai vivendo, già sai che anche a distanza di anni ti darà una sensazione di grande dolcezza.
Passando (finalmente, direte voi) a faccende di cucina, probabilmente molti osserveranno che la ricetta non è quella canonica, visto che il risultato è più simile a una zuppa che a una bevanda. Ma per quanto mi riguarda, questo è il gazpacho originale: sa di estate, di accoglienza, di calore a tavola, e quanto a bontà, quelli che ho assaggiato prima e dopo non gli si avvicinano manco un po'.
Le dosi sono calcolate più o meno a naso, in base alla memoria e alla disponibilità nel frigo: il risultato è una pietanza perfetta per una giornata estiva.

Ingredienti:
due etti circa di pane raffermo
una dozzina di pomodori
mezzo peperone rosso
un peperoncino verde dolce
una cipolla di Tropea di grandezza media
uno spicchio d'aglio senza il germoglio interno
un cucchiaio d'aceto
un cucchiaio d'olio
una presa di sale

Preparazione:
per prima cosa, mettete il pane a mollo in una scodella con acqua e il cucchiaio d'aceto, e lasciatelo a bagno finché non diventa morbido.
Spellate e levate i semi ai pomodori, tagliateli e metteteli in una scodella capace. Pulite il peperone rosso e quello verde da semi e filamenti, tagliateli a dadini e mettete anche loro nella scodella. Aggiungete quindi l'aglio in pezzettini e la cipolla tritata.
Con il frullatore a immersione riducete quindi il tutto in crema. Se non lo avete impiegate il frullatore normale, ma borbotterete parecchio al momento di pulirlo: questo non tanto a causa delle verdure, ma del passo successivo, ovvero l'aggiunta del pane.
Dopo averlo ben strizzato, il pane va aggiunto al frullato e il tutto va lungamente lavorato con il frullatore a immersione finché non è diventato una bella crema liscia e compatta.
A questo punto mettete il gazpacho in frigo, lasciatecelo per un paio d'ore, e tiratelo fuori al momento di andare a tavola.
Se volete decoratelo con fettine di cetriolo (io ne avevo uno alquanto malconcio, ma ha retto la prova) oppure con qualche listerella di peperone rosso.
Per inciso: se lo mangiate con una persona cui tenete ovviamente è molto più buono. Oppure basta pensarla.
E, nel mio caso, dirle ancora grazie.

mercoledì 24 giugno 2009

Polpettone freddo di zia Lella

Dopo la débacle cucinaria di ieri non posso non pubblicare un capolavoro per controbilanciare: il capolavoro ovviamente non è mio, bensì della leggendaria zia Lella, la quale è una miniera inesauribile di ricette per tutte le stagioni, inclusa quella estiva che generalmente fa piangere qualunque cuoca all'idea di avvicinarsi al calore dei fornelli. Questo piatto ha l'indubbio vantaggio di non necessitare eccessiva sorveglianza durante la cottura, per cui almeno il problema della caldazza da cucina è risolto. Se poi aggiungiamo il dettaglio che, come si dice nella Capitale, "nun ze sa quant'è bbono", va da sé che è un cavallo di battaglia per qualunque serata in cui la temperatura si aggiri sui 30° (e anche quelle più fresche, se è per questo).

Ingredienti:
250 grammi di vitellone macinato
150 grammi circa di mollica di pane bagnata nel latte e strizzata
una manciata di prezzemolo ben tritato
uno spicchio di aglio tritato cui si sia tolto il germoglio interno
un cucchiaio di parmigiano
un uovo
una fetta di prosciutto cotto o mortadella
qualche pezzetto di scamorza
qualche dadino di verdura cotta dai colori vivaci (carote, fagiolini e piselli sono quelle che danno il risultato migliore e per la tinta e per la compattezza, ma nulla vieta di usarne altre)

Preparazione:
impastare per benino la carne, il pane, l'uovo, il prezzemolo e l'aglio, quindi spianate l'impasto su un tagliere facendogli assumere una forma rettangolare. Sul centro del rettangolo ponete quindi nel senso della lunghezza la fetta di prosciutto cotto, i pezzetti di scamorza e i dadini di verdura.
Arrotolate con destrezza in modo che la farcitura non scappi e fate assumere al tutto la forma di un salamotto.
Mettete quindi il polpettone in una pezzuola bianca abbastanza sottile (va benissimo un vecchio lenzuolo reimpiegato per usi di cucina) che legherete sopra e sotto, e ponetelo a bollire in una pentola che contenga acqua sufficiente a coprirlo. La bollitura deve durare una ventina di minuti, durante i quali potete farvi serenamente i fatti vostri tenendovi ben lontani dal fornello rovente (voi forse non ci patite, ma io ho un angolo cottura di un metro e mezzo per due metri circa e tutte le volte che cucino qualcosa in estate faccio la sauna).
Dopo i citati venti minuti spegnete il fuoco, togliete il polpettone dalla pentola e lasciatelo raffreddare (non fatevi prendere dalla fretta di toglierlo subito dalla tela e affettarlo, perché c'è il rischio concreto che si sbraghi e il risultato sarà che porterete in tavola un appetitoso ma poco estetico mucchio di macinato). Quando è a temperatura ambiente levate con garbo la pezzuola e tagliatelo a fette: la zia suggerisce di tagliare le fette di sbieco, perché vengono più carine e anche l'occhio vuole la sua parte.
Adagiate quindi le fette su un bel piatto su cui avrete messo insalatina mista, pomodori, carotine alla julienne, rapanelli a fette e qualunque verdura vi piaccia. Quindi compiacetevi del risultato.
Credetemi, vi metterà allegria al sol guardarlo.
E quando lo mangerete, ancora di più.

martedì 23 giugno 2009

Melanzane alla sorrentina

Per inciso: è ovvio che una cuoca comme il faut non presenta un piatto così come è ritratto nella foto. La cuoca comme il faut eviterebbe di farsi cedere il polso mentre sta inclinando la padella per far scivolare con destrezza la pietanza nel piatto di portata aiutandosi con il cucchiaio di legno. Ma visto che la cuoca lo stesso giorno al lavoro è riuscita a ustionarsi col caffè perché il già citato polso ha ceduto mentre stava portando la tazzina alla bocca (e ancora grazie ai colleghi che hanno ripulito gli schizzi di caffè finiti su scrivania e pavimento mentre la sottoscritta tamponava la scottatura con acqua fredda), si vede che era destino.
Nonostante il disastro estetico le melanzane alla sorrentina (non so poi se sia effettivamente di lì la ricetta: cara Tania, se mi leggi, mi dai lumi?) sono risultate graditissime al mio compagno di casa e di vita, pertanto ve le consiglio caldamente: soddisferete il palato vostro e di chi vi vuol bene, ed evitando cedimenti strutturali delle vostre articolazioni potrete approntare un bel secondo piatto degno anche di una cena con ospiti esigenti.

Ingredienti:
una bella melanzana sufficientemente polposa
due pomodori maturi
qualche foglia di basilico
qualche fetta sottile di formaggio che fonda (io ho usato l'Emmental bavarese, ma vanno bene tutti i tipi di formaggio segnalati nella ricetta della pizza del pastore)
un cucchiaio d'olio
uno spicchio d'aglio

Preparazione:
tagliate la melanzana per il lungo in modo da ottenere cinque o sei fette, ponete le fette in uno scolapasta, cospargetele di sale, metteteci su un peso (va benissimo un piatto) e lasciatele lì una mezz'ora per togliere l'amaro. Quindi sciacquatele e tamponatele con un panno o della carta da cucina.
In una capace padella antiaderente mettete il cucchiaio d'olio e lo spicchio d'aglio e accendete il fuoco a fiamma non troppo alta: non appena l'aglio è imbiondito toglietelo e mettete le fette di melanzana, girandole un paio di volte in modo che friggano su entrambi i lati. Ponete poi sulla padella un coperchio di vetro e lasciate cuocere a fiamma bassa per qualche minuto finché non sono diventate morbide.
Tagliate il pomodoro a fette sottilissime e mettetele sulle melanzane. Sullo strato di pomodoro aggiungere un par di foglie di basilico, e su quelle le fettine di formaggio. Coprite di nuovo con il coperchio di vetro e aspettate qualche minuto finché il formaggio non si è fuso.
A questo punto siete pronti per impiattare. Non fatevi cedere il polso e inclinando con destrezza la padella fate scivolare una alla volta le melanzane nel piatto di portata aiutandovi con il cucchiaio di legno. Oppure, se come la sottoscritta avete il polso ballerino (anche voi usate il computer quindici ore al giorno? Compagni!), aiutatevi con due forchette o forchetta e cucchiaio.
Disponete le fette di melanzana in modo che formino un ventaglio sul piatto, guarnite con insalatina o fagiolini e servite.
Oppure fatevi cedere il polso, indirizzatevi i peggiori insulti che vi possano venire, sistemate le melanzane alla benemeglio e accogliete il vostro amato bene con aria mesta e vergognosa, raccontandogli che avete combinato un disastro gastronomico e che vi spiace assai. Se l'amato bene è un bignè come il mio, vi darà un bacio sulla fronte e un altro sul polso e vi dirà che non gliene può importare di meno.
Se l'amato bene non è un bignè come il mio, tirategli le melanzane alla sorrentina in faccia con tutto il piatto.
E cambiate amato bene.

lunedì 22 giugno 2009

Curry giapponese

Mi era rimasta voglia di questa pietanza da quel sabato in cui con l'amato bene e due amici siamo andati in quello che secondo me è tuttora il miglior ristorante giapponese della Grande Città. Mentre io mi son buttata con somma gioia sul consueto e amatissimo sushi, uno dei commensali ha optato per il curry, e gli è stato portato un piatto grosso più o meno come la carta geografica dell'Asia con riso coperto di salsa fumante e, tanto per gradire, una cotoletta sopra. E nonostante io adori il sushi, mi sono scoperta a guatare il piatto con lo stesso amoroso interesse che zio Paperone riserva alla Numero Uno. Pertanto mi sono ripromessa di provare a casa la ricetta. Il problema era però, per l'appunto, la ricetta.
In Giappone il curry non viene in genere mai fatto partendo da zero: in qualunque supermercato nipponico viene infatto venduto il preparato atto a farlo, che si presenta come un blocchettone in tutto simile a una tavoletta di cioccolato e viene proposto in decine di varianti diverse. Va da sé che nella Terra delle Montagne lo si trova con somma facilità, mentre persino nella Grande Città tocca o rivolgersi a drogherie particolarmente fornite (che se ce l'hanno te lo fanno pagare a peso d'oro) oppure cercare nei negozi etnici, dove però i prodotti del Sol Levante non sono così frequenti giacché la migrazione giapponese in Italia è in sostanza pari a zero.
Ma io sono testarda come le capre del mio Sannio, e non mi sono arresa. Mi son detta, ci sarà pure su Internet la ricetta per farlo in casa, no?
No.
Quantomeno non in italiano. O sono io che ho cercato male, o quel che si trova nella lingua di Dante tutto è tranne che curry giapponese. Le ricette che ho trovato propongono le più incredibili varianti, ma tutte di matrice fintocinese o fintoindiana, benché vengano definite nipponiche, oppure suggeriscono l'impiego del già citato blocchettone.
Come detto, io sono testarda. E visto che ho la fortuna di conoscere seppur male un paio di lingue, ho proseguito la ricerca finché la sempre utilissima Wikipedia english version mi ha svelato l'arcano: il curry giapponese si distingue da tutti gli altri perché prevede come base il roux. Che, per coloro che non sono addentro ai misteri della bonne cuisine, è in sostanza quel misto di burro e farina che viene comunemente impiegato per fare una comunissima besciamella. E che mostra assai bene come la cucina giapponese sia molto più aperta a influenze occidentali di quanto si creda.
Di seguito trovate il procedimento che ho seguito per fare la salsa al curry alla nipponica: va detto che la pietanza originale prevede in genere che detta salsa condisca un piatto di manzo stufato con cipolle che accompagna del riso in bianco, ma con questo caldo lo stufato era fuori discussione. Mi cimenterò ai primi freddi con la preparazione, ma intanto già questa versione basic, che peraltro si presta molto bene per chi è vegetariano, dà la sua bella soddisfazione.

Ingredienti:
25 grammi di burro
50 grammi di farina
un cucchiaino di brodo vegetale in polvere (se possibile bio: è molto più buono e non contiene glutammato), sciolto in due bicchieri d'acqua; se avete del buon brodo vegetale già pronto è ovviamente molto meglio, ma anche così può andare
due cucchiai di curry
una grossa patata tagliata a dadini
una carota tagliata a dadini
250 grammi di riso parboiled a chicco tondo

Preparazione:
mettete burro e farina in una padella antiaderente e capace a sufficienza per contenere poi carote e patate, accendete il fuoco a fiamma media e mescolate il burro man mano che fonde alla farina con un cucchiaio di legno: farete così il roux, che sarà pronto quando avrà assunto un color nocciola chiaro.
A quel punto aggiungete pian piano il brodo vegetale mescolando continuamente in modo da ottenere una crema liscia: versando il liquido pian piano eviterete la formazione di grumi, bestia nera di tutte le cuoche.
Una volta che la crema ha assorbito tutto il brodo aggiungete i due cucchiai di curry (e non temete che il risultato sia troppo piccante: farina e burro stemperano di molto il sapore delle spezie) e mescolate per bene con il fido cucchiaio di legno finché non si è incorporato tutto.
A questo punto versate nella salsa i dadini di carota e patata, aggiungete un mezzo bicchiere d'acqua dando una mescolata perché si scolga bene nella salsa, mettete sulla padella un coperchio di vetro e lasciate cuocere a fuoco bassissimo per una ventina di minuti.
Nel frattempo preparate del riso bianco mettendo in una pentola antiaderente il riso in una quantità d'acqua che sia pari a una volta e mezza il suo peso. Mettete sulla pentola un coperchio di vetro, fate alzare il bollore a fiamma alta, quindi abbassate la fiamma e fate cuocere sempre coperto per una decina di minuti (resistete alla tentazione di guardare come va la cottura sollevando il coperchio, perché - così dicono i miei amici che sanno di cucina - si rischia di rovinare il risultato): se tutto è andato bene, il riso avrà assorbito tutta l'acqua e si sarà cotto mantenendo sgranati i chicchi.
Mettete il riso su un bel piatto di portata, versateci su la salsa di curry che intanto avrà completato la cottura, e portate in tavola insieme a una bella scodella di macedonia. La quale vi servirà per dopo: giacché il curry giapponese ha la facoltà di riempiere lo stomaco come poche cose al mondo, i commensali ripieni vi guarderanno con gratitudine e passeranno direttamente alla frutta. Vi consiglio pertanto questa ricetta nel caso abbiate a cena amici e persone care noti per essere delle buone forchette: ve la caverete con poco più di mezz'ora, le pentole da lavare saranno giusto un paio e, vi assicuro, farete la vostra figura.

sabato 20 giugno 2009

A madrigal history tour

Siete sufficientemente anziani da ricordarvi la messa in onda di Doctor Who nel 1980?
Io sì.
Ero in prima elementare o giù di lì, e me lo ricordo bene.
Fu la prima volta che vidi in tivvù qualcosa che non fosse un cartone animato, e per quanto ne capissi meno di zero rimasi affascinata. Ogni tanto durante uno dei vergognosamente pochi episodi trasmessi chiedevo lumi a mia sorella, che con l'impazienza dei suoi quattordici anni mi zittiva, su quanto stava accadendo. Ma non era importante: vedevo che era una cosa completamente diversa da qualunque cosa trasmettesse mamma Rai, e già bastava.
Quando ho raggiunto un'età che comprendesse due cifre sono venuta a sapere da un colto amico più grande di me che Doctor who era una delle serie di punta della BBC, e mi venne rivelato che la rete di Sua Maestà Britannica aveva prodotto e trasmesso cose come Io, Claudio, il Flying Circus di quegli ameni pazzerelloni dei Monthy Python e molto altro ancora. Appreso ciò, mi sono più volte chiesta nel corso degli anni perché sulla televisione pubblica inglese si potessero vedere programmi simili mentre noi, a parte qualche rara eccezione, ci dovessimo cibare temibili fetecchie come questa, o sceneggiati di una serietà quasi mortale.
Mi si dirà che sono ingenerosa. Lo riconosco.
Ma la Rai ha mai proposto, ad esempio, un programma in più puntate che trattasse lo sviluppo del madrigale nei diversi paesi europei, e perdipiù rendendo vivacissimo e sommamente entertaining un argomento che qui da noi sarebbe stato seppellito da metri e metri di muffa storico-musicologica?
La BBC sì. Nell'anno di grazia 1983, quando la Rai per inciso proponeva questo.
Il suo approccio, impensabile qui da noi, è evidente fin dal titolo: A madrigal history tour. E chi non ha riconosciuto la strizzata d'occhio a un certo album mi faccia il favore di andare a mettersi in ginocchio sui ceci.
L'approccio è stato possibile grazie a uno dei gruppi più straordinari mai partoriti dalla terra d'Albione, che quanto a parti di gruppi straordinari non scherza: i King's Singers.
Su Internet potete trovare innumerevoli dettagli su storia, discografia e e quant'altro dell'ensemble, che è attivo fin dal 1968 e vanta più premi di quanti se ne possano elencare. Qui basti dire che i King's Singers sono un gruppo vocale, e che sono capaci di saltare con grande disinvoltura dalla polifonia fiamminga ai Queen. Nel corso del tempo hanno cambiato più volte formazione, mantenendo sempre un livello di perizia straordinario: la mia prediletta è quella ritratta nella foto con quei terrificanti maglioncini a scacchi così british, e che per diverse puntate ha deliziato i telespettatori inglesi in una cavalcata musicale fra Italia, Francia, Spagna, Germania e, ovviamente, Gran Bretagna.
Grazie a Youtube e a un solerte quanto meritorio appassionato che vi ha dedicato un canale intero, anche chi abita nello Stivale si può ora permettere di seguire questo tour nel madrigale. Perdipiù, con tanto di sottotitoli in italiano.
Come dite?
Il madrigale è una barba?
Prevenuti.
Senza il madrigale non sarebbe esistita la cosiddetta musica colta, ma la forma-canzone attuale è, se non sua figlia, quantomeno sua nipote. E' una formula duttilissima, e riserva mille sorprese. Ed è tutt'altro che una barba.
Per averne una prova, vi basterà una singola puntata. In quella dedicata agli autori teutonici ad esempio vi ritroverete i King's Singers non in una sala da concerto, ma in una birreria: del resto, la canzone parla per l'appunto di bere, mangiare e stare allegri. E a cantare a voce spiegata ogni volta che si passa a un nuovo barile: se non canti non bevi, musone.
La Spagna presenta fra gli altri un vivace pezzullo che mostra come italiani e iberici siano fratelli gemelli: protagonista della canzone è un equipaggio che viene colpito in mare da una furibonda tempesta, ed è tutto un invocare la Vergine Maria e i più svariati santi del calendario. Ovviamente, passata la procella, gabbati i santi: si tira fuori una chitarra miracolosamente salvata dalle onde, e tutto finisce a tarallucci e vino fra gli incitamenti al chitarrista "hi de ruin" e "maldito" ad accordarla come si deve. Come si balla sennò?
Quanto all'Italia, non perdetevi questo gioiellino composto da Orlando di Lasso (che per inciso era fiammingo, ma i vari staterelli che componevano la nostra "espressione geografica" - vielen Dank, Herr Metternich - erano tappa obbligata per qualunque musicista in cerca di arricchimento professionale ed economico) durante il suo soggiorno mantovano: è una singolare serenata con cui un lanzichenecco tenta goffamente di conquistare una bellezza padana. Il testo inizia a doppio senso, e finisce a senso unico. Se il vecchio Orlando potesse proporre oggi una cosa del genere sarebbe bandito da tutte le radio della Repubblica; all'epoca, era letteralmente sulla bocca di tutti: lo cantavano sia a corte che per strada.
Vi ho convinto? Spero di sì. A madrigal history tour può dimostrarvi che un argomento considerato d'elite come la musica antica può essere non solo molto bello, ma anche molto divertente: e lo fa con esecuzioni perfette (in cui i King's Singers sono diverse volte accompagnati da quell'autentico mito che è il Consort of Musicke), spiegazioni mai noiose o paludate, e tanto sense of humour deliziosamente britannico.
Coloro che poi continuassero ad affermare che tanto la musica classica, di qualunque genere essa sia, è una noia e basta, mi facciano uno cortesia: guardino questo.

E adesso provino a dire che la musica classica è noiosa.
Buon weekend.

venerdì 19 giugno 2009

Noise from Amerika: torta di ciliege

Questa torta l'ho fatta in realtà lunga pezza fa, e casualmente mi è capitata davanti la foto tempo fa, mentre stavo ruscando nel pc alla ricerca di tutt'altre immagini per faccende di lavoro. Mi son ricordata che era buona, e per qualche strana associazione di idee (probabilmente dovuta al detto "americano come la torta di ciliege") mi ha fatto venire in mente un eccellente blog tenuto da un gruppo di economisti italici che hanno ben pensato di prendere la fuga verso gli States.
Che mi sia venuto in mente un blog di economisti in esilio volontario dallo Stivale e non, chessò, quel bel telefilm (la prima stagione, perlomeno: la seconda l'ho rimossa, se non altro perché c'era costui prima di cogliere glorie perlopiù immeritate in un altro bel telefilm) in cui la torta di ciliege veniva divorata da un solerte agente dell'FBI ogni tre per due, è abbastanza indicativo dei tempi in cui viviamo. La cosa mi rallegra pochino, ma questo fra parentesi. E prima di lasciarmi andare a un rant con tutti i crismi in cui vengano coinvolti i santoni dell'economia della precedente amministrazione a stelle e strisce - sulla presente non mi pronuncerei, in quanto è passato un tempo ancora troppo scarso per farmi un qualsivoglia giudizio - e i santini dell'economia del fu Bel Paese - su cui ho invece opinioni ben precise perché è da quando son nata che fanno danni, e oramai comincio ad avere un'età - vi rifilo la ricetta, che mi pare si presti ottimamente come dessert stagionale. La quale ricetta per inciso non è quella americana, che a mio gusto ha una tale quantità di grassi tale da renderla pressocché immangiabile (con buona pace di quell'agente dell'FBI finito poi miseramente a far da comparsa in un altro telefilm, stavolta pessimo, che aveva quali personaggi principali quattro travestiti troppo bassi), ma è desunta dalla memoria familiare.

Ingredienti:
mezzo chilo di ciliege denocciolate
300 grammi di farina
125 grammi di zucchero
125 grammi di burro
un uovo e un tuorlo
cannella in polvere
buccia di limone (solo la parte gialla)
quattro o cinque amaretti secchi

Preparazione:
impastate velocemente farina, uova, burro, zucchero e una spruzzata di cannella e fate una bella palla di pasta che metterete in un'insalatiera a riposare una mezzoretta nel frigo (accorgimento utilissimo in estate, altrimenti la palla inizia a essudare burro e vi fa impazzire al momento di usare il mattarello). Nel mentre che passa la mezzoretta, mettete le ciliege già denocciolate in una bella ciotola, aggiungete un cucchiaio di cannella, un paio di cucchiai di zucchero e la buccia limone, date una bella mescolata e lasciate riposare.
Prendete quindi un foglio di carta da forno e ritagliatevi un bel tondo calcolando la dimensione giusta per coprire fondo e pareti della tortiera che intendete usare (sceglietene una di 25 centimetri di diametro o giù di lì).
Tirate fuori la palla di pasta dal frigo, poggiatela sul cerchio di carta da forno, impugnate il mattarello con mano sicura, con l'altra mano cospargetelo di farina e stendete la pasta lungo la superficie del foglio finché raggiunge lo spessore di circa 2 millimetri (vi accorgerete nell'operazione che la carta da forno è una mano santa ed evita un sacco di guai a tutte le cuoche che, come me, si danno del tu con il mattarello giusto cinque o sei volte l'anno se va bene). Ciò che avanza della pasta tenetelo da parte per decorare, e se non avanza non è un problema: checché ne pensi certa gente, l'estetica è un optional, soprattutto di questi tempi.
Con somma cautela poggiate la pasta distesa nella tortiera e sbriciolate gli amaretti sul fondo, in modo che durante la cottura assorbano l'umidità della frutta.
Aiutandovi con un cucchiaio travasate quindi le ciliege dalla ciotola alla tortiera: avranno prodotto un bel sughetto che in parte potete spruzzare sulla superficie delle stesse e in parte potete versare in un bicchiere e bervi in santa pace con l'aggiunta di un po' d'acqua ghiacciata, ché alla cuoca spetta questo e altro.
Se vi è avanzata la pasta ritagliatevi delle belle foglioline che metterete tutt'intorno al bordo della torta, e da ultimo due ciliege con foglie e picciolo che andranno poste nel centro.
Mettete quindi la tortiera in forno già caldo e attendete la cottura, che sarà completata, a seconda del forno, in una quarantina scarsa di minuti. Nel frattempo rilassatevi mettendovi comode e bevendo qualcosa di fresco: con questo caldo, ci sta tutto. A cottura ultimata spegnete il forno e lasciate raffreddare, sempre facendovi con tutta calma i fatti vostri.
Quando il dolce si è freddato toglietelo dalla tortiera aiutandovi con un piatto piano (fatica che vi risparmierete se avrete impiegato una di quelle belle teglie con cerniera). Tagliate quindi una bella fetta, mettetela su un piattino, aggiungete una cucchiaiata di gelato alla vaniglia - mai farsi mancare del gelato nel freezer in estate - e una spruzzata di cannella se vi garba, e andate infine a gustarvela davanti a un bel film o a un episodio di qualche serie che vi piaccia in particolar modo (io personalmente vi suggerisco questa: la conosceremo in quattro e credetemi, avrebbe meritato maggior successo).
Se poi per qualche misterioso fenomeno vi si dovesse materializzare davanti il citato fu agente dell'FBI pregatelo di levarsi dalla visuale, offritegli la torta e chiedetegli che ne pensa. E ditegli che quel telefilm con i travestiti che caracollavano pietosamente sui tacchi a spillo era davvero, ma davvero pessimo.

giovedì 18 giugno 2009

Riso e fagioli

"Allora, cosa vi servo?"
"Quale è la vostra specialità?"
"Riso e fagioli!"
"Per me va bene."
"Molto bene anche per me."
"Due riso e fagioli?"
"Facciamo quattro."
"Facciamo otto."
"Otto? Stanno a dieta questi..."
Alzi la mano chi non ha riconosciuto questo scambio di battute. E chi non l'ha riconosciuto, si cosparga il capo di cenere, e vada subito a farsi prestare dall'amico o dal parente il DVD di Non c'è due senza quattro. Oppure attenda che quella rete celebre soprattutto per un direttore di tiggì lo riproponga nell'ennesimo ciclo quattrostagioni dedicato a Bud Spencer e Terence Hill (questo nel caso vi siate procurati il decoder: io e l'amato bene abbiamo evitato di spenderci dindi, tanto il televisore ci serve giusto come raccoglipolvere). E se non ha la pazienza di aspettare, si gusti la scena grazie a Youtube: voilà!


Putacaso non si fosse capito, io adoro i film di Bud Spencer e Terence Hill. Per mia fortuna la passione è condivisa dal mio compagno di casa e di vita, sicché quando si può ci concediamo una visione a tema pescando dalla filmografia dei due scazzottatori più amati del globo (è la nostra serata romantica tipo, il che causa un malcelato orrore in chi ci conosce: ma questo tra parentesi). Questo film in particolare è uno dei prediletti, con gran gioia dell'amato bene che, quando mi vede con un muso lungo un palmo, attacca con il celebre "Bastiano Joao Coimbra de la Coronilla...": in risposta è garantito un trionfante "... y Acevedo!", nonché un miglioramento immediato dell'umore.
In virtù di tutto ciò, avendo trovato degli ottimi borlotti ancora in baccello durante una delle consuete incursioni preufficio al mercato, la scelta della pietanza da fare per cena è venuta da sé. La ricetta non è quella originale brasiliana perché non ne ho ancora trovata una che mi soddisfi pienamente (ci vorrebbero del resto i fagioli neri, ma non mi andava di impiegare fagioli secchi quando la stagione ne offre di freschi): ho pertanto impiegata quella prediletta dal mio nonno materno, la quale è a mio giudizio parecchio buona.

Ingredienti (per due persone di robusto appetito):
400 grammi di fagioli borlotti freschi (se non li avete usate quelli secchi dopo averli lasciati a bagno minimo 12 ore; evitate quelli in scatola perché sanno di polistirolo e ne hanno pure la consistenza)
200 grammi di riso (io ho usato il parboiled, ma va benissimo pure quello da risotti)
una piccola cipolla
un pomodoro ben maturo
un pezzo di sedano
un pizzico di peperoncino
un cucchiaio d'olio

Preparazione:
in una pentola mettete a cuocere i fagioli a fuoco basso con acqua sufficiente a coprirli e un pizzico di sale, e lasciateli borbottare fino a quando, punzonandoli con la forchetta, verificherete che sono cotti (il che non vuol dire spappolati).
Mentre i fagioli stanno diventando diventati tenerelli, in un'altra pentola fate un soffritto con il cucchiaio d'olio e la cipolla e il sedano tritati; quando la cipolla si è lievemente imbiondita aggiungete il pomodoro che avrete spellato, privato dei semi e tagliato in pezzettini, quindi il pizzico di peperoncino, e lasciate cuocere per un paio di minuti.
Nel mentre che il soffritto chiacchiera con il fornello, provvedete a scolare i fagioli e buttateli quindi nella pentola con il sughetto. Mescolate bene e lasciate cuocere a fuoco bassissimo in modo che i fagioli si possano insaporire con calma.
Nel frattempo preparate il riso, mettendolo in una pentola antiaderente con una quantità d'acqua doppia rispetto al suo peso e un pizzico di sale e facendolo cuocere coperto (se avete un coperchio di vetro è meglio) e a fuoco basso finché l'acqua non si è completamente assorbita. Non è necessario girarlo, basta scuotere la pentola ogni tanto durante la cottura: se le cose sono andate comme il faut, vi ritroverete dei chicchi molto al dente e perfettamente sgranati - e se non fosse così non vi intristite: la pietanza verrà buona lo stesso, vedrete.
Travasate quindi il riso nella pentola con i fagioli, date una mescolata e lasciate insaporire per un paio di minuti finché il riso non si è cotto completamente, restando però sempre un po' al dente. A quel punto spegnete il fuoco, versate in una scodella e portate in tavola. Oppure aspettate che si freddi, e portate in tavola: è buono a qualunque temperatura.
Ça va sans dire, se mentre mangiate vi dedicate alla visione di Non c'è due senza quattro gusterete il riso e fagioli con doppia soddisfazione.
Se poi il ritornello della canzoncina d'apertura vi resterà appiccicato alla mente per una settimana filata (Franco Micalizzi è Franco Micalizzi mica per niente), sappiate che declino fin d'ora ogni responsabilità.

mercoledì 17 giugno 2009

Contro la caldazza: involtini di foglie di vite

Lo dico subito a scanso di equivoci: questi non sono i dolmadakia e non hanno nulla a che farci, se si esclude l'impiego delle foglie di vite. E del resto, dopo essermi cimentata nella ricetta (più o meno) originale, l'idea di rimettermi a spignattare per ore non mi sorrideva affatto. Disponendo di qualche foglia di vite bella e pronta, mi sono quindi inventata lì per lì una pietanza che mi pare molto adatta per questi giorni di afa, in cui le piante son meste come una velina in disuso che faccia da special guest alla sagra del capocollo, i passanti in strada tirano il collo a mo' di giraffe nel tentativo di captare un filo d'aria, e la sottoscritta si trova a meditare su quanto avesse ragione Axel Munthe, il quale sosteneva che le città erano luoghi inventati dal demonio per tormentare gli esseri umani.
(Non mi chiedete chi è Axel Munthe: vi faccio gli occhiacci. Non potete non saperlo.)
Oltre a essere adatta a contrastare la caldazza, questa ricetta ha pure il vantaggio di essere pronta in pochissimi minuti, purché le foglie di vite siano già cotte e marinate in olio e limone. Altrimenti fate un investimento: acquistatele già pronte al negozietto etnico sotto casa - se abitate in città, che sarà pure invenzione del demonio ma ha il vantaggio di ampia scelta di ingredienti disponibili - oppure pagate il fratello, la sorella, l'amico compiacente e le foglie di vite fresche fatele approntare a loro seguendo le apposite istruzioni.

Ingredienti per due persone:
una decine di foglie di vite
120 grammi di tonno al naturale
mezzo vasetto di yogurt bianco
una manciata di foglie di menta e basilico
insalatina, rapanelli e/o verdure a piacere per decorare

Preparazione:
in una scodella sbriciolate il tonno con la forchetta e aggiungete le foglie di menta e basilico tritate; aggiungete quindi lo yogurt a cucchiaiate e mescolate per benino fino a ottenere una crema che sia compatta e sufficientemente liscia.
A questo punto vi potete cimentare nella preparazione degli involtini.
Prendete le foglie una per una, distendetele per bene con santa pazienza, e al centro di ciascuna mettete una bella cucchiata di ripieno.
Piegate quindi le due alucce della foglia verso la palluccia di ripieno in modo da coprirla, e con gentilezza arrotolatela verso l'apice della foglia stessa. Vi ritroverete con un involtino perfetto. E anche queste sono soddisfazioni.
Disponete gli involtini pronti su un piatto con foglioline d'insalata, decorate con rapanelli tagliate a fettine, pezzetti di carota o ciò che più vi garba (o che sta a intristire nel frigo), e portate in tavola.
E' una pietanza leggera, che va bene sia come antipasto sia come secondo piatto e che vi permetterà di dedicare il dopocena senza alcuna pesantezza di stomaco alle vostre attività preferite. Leggere un bel libro, per esempio. E se come me volete lasciarvi alle spalle il caldo cittadino, direi che La storia di San Michele di Axel Munthe ci sta proprio bene.

martedì 16 giugno 2009

Zucchine ripiene di zia Maria

"Pronto zia? Sono io."
"Bella questa nipote mia!"
"Sì, bella come il fondo della padella... Come va?"
"Quante sì fessiatàra. Tutto bene. E tu?"
"Bene anche io, ma voglio sapere di te e zia Margherita. Che mi dite?"
"Uh, qui siamo usciti da tre giorni di festa. Venerdì la processione di Sant'Onofrio..."
"E l'hanno portato in paese come sempre, con il corteo dei camioncini addobbati di fiori?"
"Certo. Una volta era più bello, quando lo portavano dal convento con i carri..."
"Però anche i camioncini hanno il loro che, dai. E poi?"
"E poi c'è stata la processione di Sant'Antonio, lo hanno portato 'ngopp 'a Montagnole, dove hanno benedetto le pagnottelle... Te ne ho messe due da parte, così quando vieni le assaggi."
"Grande zia! E poi?"
"E poi domenica hanno fatto la processione del Corpus Domini."
"E avete appeso ai balconi le coperte damascate?"
"Certo, come sempre!"
"..."
"Che c'è?"
"Niente, una botta di nostalgia."
"Ma lascia stare e pensa a te e a quel tesoro di ragazzo. Che gli fai mangiare stasera?"
"Francamente, non ne ho idea."
"Che tieni in frigo?"
In frigo avevo delle zucchine. E zia Maria, che con mia zia Margherita tuttora abita al paese (due vecchine gagliarde, che hanno rispettivamente ottantuno e ottantasette anni: di loro si potrebbe dire tanto, ma se parlo di loro va a finire che non parlo delle cucuzze), mi ha suggerito di farle "alla ligure". Non so se la ricetta sia effettivamente di lì, anche perché gli ingredienti vengono largamente impiegati anche nella cucina del mio paese: fatto sta che le ho preparate, e sono davvero molto buone. Per cui, ecco qui come farle seguendo i suggerimenti della zia - che per inciso è una sorella di zia Lella, e come lei in una scala da uno a dieci della cucineria è un undici.
(Piccola nota esplicativa per chi non è sannita: fessiatàra vuol dire "spiritosona", 'ngopp 'a Montagnole sta per "sulla montagnetta", ovvero la parte più alta del paesello, la quale parte alta si arrampica su una bella collinetta e ha dei vicoli con pendenze da causare un infarto anche a chi abbia superato con successo l'esperienza della Liegi-Bastogne-Liegi).

Ingredienti:
sei belle zucchine, possibilmente romanesche e abbastanza polpose
tre patate di media grandezza
una manciata di parmigiano grattugiato
qualche foglia di basilico
un po' di peperoncino secco tritato
un cucchiaio d'olio
formaggio che fonda in forno (io ho usato i rimasugli del frigo, ovvero della scamorza passita che si è ottimamente prestata, e del camembert che si è prestato meno bene ma è buono lo stesso)

Preparazione:
spuntate le zucchine, pelate le patate e mettetele a bollire in due distinte pentole. Le zucchine vanno tolte dal fuoco dopo cinque minuti scarsi dall'inizio della bollitura, le patate invece vanno lasciate cuocere finché sono ben morbide.
Dopo averle lasciate per qualche minuto in acqua fredda (accorgimento utile se volete evitare un'ustione stile Fantozzi), tagliate le zucchine per il lungo e poi ancora a metà, e toglietene quindi la polpa con l'apposito scavino o impiccandovi con il coltello normale, così come descritto nella ricetta delle zucchine ripiene di zia Lella.
Dopo aver passato le patate bollite sotto l'acqua fredda (anche qui per evitare i tremila gradi Fahrenheit sì amici del ragioniere) fatele a tocchetti, mettetele insieme alla polpa di zucchine anch'essa a tocchetti in una padella con un cucchiaio d'olio e il peperoncino, e fate soffriggere un po' per far insaporire il tutto.
Poidiché, acchiappate il fido frullatore a immersione (l'avete comperato, sì? Ah, ancora no? E allora andate di cucchiaio di legno e have fun!) e riducete il tutto in una crema, cui aggiungerete le foglie di basilico tritate e la manciatona di parmigiano grattugiato mescolando per benino.
A questo punto, il ripieno è pronto e potete farcire le zucchine.
Prendete una bella teglia e rivestitela di carta da forno (io ho usato direttamente la placca, ma va detto che la mia macchina a gas, come ha acutamente osservato la mia amica Silvia, è delle dimensioni giuste per Barbie Raperonzolo), appoggiatevi su i gusci di zucchina, riempiteli con il ripieno e metteteci su una bella fetta di formaggio.
Mettete la teglia in forno già caldo a 200° e aspettate finché il formaggio non si è fuso per bene, quindi attendete che si raffreddino e portatele in tavola a temperatura ambiente. Questo ovviamente in questi giorni che c'è una caldazza vergognosa: se putacaso il ciclone balcanico decidesse nuovamente di dire il fatto suo all'anticiclone africano, servitele ben bollenti. Scoprirete comunque che, calde o fredde, son buone, ma buone buone. Il mio compagno di casa e di vita conferma. Per cui, grazie alla zia Maria, che mi ha dato gli strumenti per ammannire a me e a quel tesoro di ragazzo una cenetta coi fiocchi.

lunedì 15 giugno 2009

Sedani rigati alla Taniola semi-cinese

"Ciao cara, come stai? Stanotte abbiamo letto il tuo ultimo post, effettivamente gli ultimi tuoi scritti scono molto tristi... e questo mi dispiace molto, cercherò anche se solo pochi minuti di rallegrarti..."
Ho trovato nella posta una bella mail di Tania, una di quelle mail che possono dare un raggio di sole alla giornata. Oltre al raggio di sole per me, offre pure una succulenta proposta a coloro che non sanno cosa ammannire stasera a se stessi, e ad altri commensali se presenti. Il titolo della ricetta è dovuto all'affettuoso nomignolo che le ha dato un suo amico salernitano, e all'uso di ingredienti che sono piuttosto comuni nella gastronomia del fu Celeste Impero. Ne riporto la preparazione così come è stata scritta, e che nessuno si lamenti se le indicazioni non sono precise al millimetro: Tania è cuoca rifinita, e certi dettagli che per i lottatori con i fornelli sono fondamentali giustamente li tralascia.

Ingredienti a occhio:
1/2 cipolla di media misura meglio se di Tropea (rossa) tagliata molto finemente
uno spicchietto d'aglio tritato
1 zucchina media tagliata a julienne
1 carota di media grandezza tagliata a julienne
100 grammi circa di piselli surgelati
150 grammi circa di macinato di vitellone, macinato due volte
pistilli di fiori di zucca (che Tania, in base al sacrosanto principio "non si butta via niente", ha ben pensato di aggiungere al composto)
1/2 dado vegetale
2-3 cucchiai di salsa di soya
1 bustina di zafferano
olio extra vergine
acqua q.b.
sedani rigati, quel che serve (basarsi sul proprio appetito e su quello dei commensali)

Preparazione:
"prima cosa, si prende il wok o una padella saltapasta, e si cuociono gli ingredienti per circa 20-25 minuti a fiamma medio-bassa. A seguire ho cotto i sedani rigati, li scolati e ho conservato un goccio d'acqua di cottura. Ho versato tutto nel wok saltando per circa 5 minuti a fiamma allegra, e ho portato in tavola. Era buonissimo e anche il signor marito ha molto apprezzato. Credo che anche con il riso sia buono, ma come è noto lui non ama il riso, quindi non ho testato. Quando verrete al paese vi farò assaggiare questo mio esperimento, è veramente sfizioso e, a parte i tempi di cottura, è molto semplice da preparare. Sono molto soddisfatta, era da un bel po' di tempo che non inventavo una ricetta!"
Non vedo l'ora di poter assaggiare, e mi basta il pensiero per iniziare bene la settimana.
Grazie Tania. Auguro anche a te un buon inizio della settimana. E spero di poter ricambiare a mia volta, prima o poi, con un raggio di sole.

domenica 14 giugno 2009

"E' solo un cartone animato"

"Guardiamo un film."
"Quale?"
"Uno dello Studio Ghibli che ancora non hai visto. Si chiama Omohide poro poro."
"E che vuol dire?"
"Letteralmente significa Ricordi goccia a goccia."
"E che film è?"
"E' di Isao Takahata, non di Miyazaki. Diciamo che è un film intimista."
"Mi sa che non è il mio genere."
"Secondo me ti piace."
Il mio compagno di casa e di vita aveva ragione. E che mi abbia proposto proprio questo film in questo momento (cosa di cui non gli sarò mai abbastanza grata, visto che ha dedicato alla visione - la terza, per lui - due ore che avrebbe potuto impiegare per fare altro) mi dice tante cose.
Ma questo tra parentesi.
Omohide poro poro è un fim di incredibile delicatezza, ed è una di quelle opere che mostrano quanto sia stupido l'ancor vivo pregiudizio, qui da noi, che i cartoni animati siano un prodotto per bambini. Anche un bambino può apprezzarlo, per la bellezza dell'animazione, per l'ambientazione magnifica, perché (fra le altre cose) mostra quanto è complicato essere un bambino, cosa in cui si può ben riconoscere. Ma parla, e tanto, anche a chi bambino non lo è più.
La storia che racconta è in apparenza una piccola storia, ma già la scelta del soggetto è singolare: la protagonista è un'impiegata sulla trentina che decide di passare qualche giorno in campagna per partecipare alla raccolta dei fiori di cartamo, una pianta che in passato e ancora oggi viene impiegata in Giappone per fare raffinati e costosissimi belletti.
Quanti film avete visto che hanno per protagonista un'impiegata sulla trentina che va in vacanza in campagna? O più semplicemente, un'impiegata sulla trentina. Io non ne ricordo molti. E quelli che ricordo, avevano per personaggio principale una working girl che alla fine viene premiata dal successo sul luogo di lavoro (il che include, in genere, un matrimonio con il principale).
Non è questo il caso.
Taeko, questo il nome della protagonista, è una ragazza come tante. Non è particolarmente bella, né particolarmente intelligente. Non ha capacità che spicchino, se non quella di riflettere, il che non è una dote che renda la vita facile. Ha dei genitori e due sorelle con cui ha rapporti che alternano affetto e qualche conflitto, e un lavoro che non le piace da impazzire, ma nemmeno odia. Non è ancora sposata, il che nel Giappone del 1982 è cosa insolita per una quasi trentenne, ma neanche troppo: l'unica seccatura è che la madre cerca di trovarle in continuazione un buon partito, e che il principale le chiede, alla sua richiesta di ferie, se vuole prendersi qualche giorno "perché ha rotto con qualcuno". Non è una prescelta, e non c'è qualcosa che fin dai primi minuti segnala agli spettatori che farà qualcosa che cambierà il mondo.
Quanti protagonisti ricordate di cui non si intuisca fin dai primi minuti che son gli unti dal Signore?
Taeko raggiunge la sua meta con il treno. Ad attenderla in stazione c'è un giovane parente di suo cognato, Toshio. Anche lui non è particolarmente bello o intelligente. Come Taeko, anche lui sa riflettere, e lo esprime con apparente goffaggine maschile: ha scelto di fare il contadino perché "ama veder crescere le creature" (Taeko pensa che alluda ad animali, ma Toshio le spiega per per lui sono esseri viventi le piante, il riso, i ciliegi). Mentre l'accompagna in macchina al campo di cartamo le chiede se può ascoltare un po' di canzoni, come lui dice, "da bifolchi come me": dall'autoradio escono - ed è stupefacente nel contesto della campagna nipponica, ma Takahata è un maestro nel sorprendere gli spettatori con dettagli solo in apparenza minimali - le note di musiche ungheresi e rumene. La musica accompagna il lavoro di Taeko al campo: a scandire la raccolta del cartamo è il canto delle voci bulgare, mentre Taeko ricorda come, secondo la tradizione, il belletto ricavato dai fiori era così vermiglio perché le contadine povere, che mai se lo sarebbero potute permettere, si distruggevano le dita con le spine della pianta. L'emozione che traspare dalla scena è grande.
Ed è solo uno dei casi.
Il film si dipana seguendo il vissuto attuale della protagonista e i suoi ricordi. Taeko ha sempre sofferto di non avere un luogo "altro" al quale riferirsi: la sua esistenza e quella di tutta la sua famiglia si è sempre svolta a Tokyo, non c'è mai stato un posto dove rifugiarsi. La sua breve vacanza, il suo partecipare al lavoro dei campi, è un tentativo di costruirsi a posteriori quel luogo. Con conseguenze inaspettate.
Ad accompagnarla nella sua esperienza in campagna c'è infatti la Taeko del 1966, all'età di dieci anni. Non c'è nulla che distingua da chiunque altro bambino la Taeko che frequenta la quinta elementare: la sua famiglia è quella giapponese media dell'epoca con un padre freddo e assente, una madre che si occupa di faccende domestiche e gratifica la figlia di un'attenzione distratta se non per rimproverarla quando non vuole mangiare qualcosa o riporta una pagella con voti scarsi in matematica, due sorelle più grandi impegnate a seguire le mode del momento, il che comporta il considerare la sorellina come una mocciosa rompiscatole. La piccola Taeko fa fatica a comprendere perché le cose vadano fatte in un certo modo anziché in un altro o perché certi comportamenti o mancanze vengano considerati un'offesa al viver civile (alcune scene in particolare sono emblematiche: la madre e la sorella che la considerano anormale perché non sa fare le frazioni, il padre che le dà un ceffone perché, nella concitazione, è uscita di casa senza mettersi le scarpe, la compagna di classe ligia al dovere che stigmatizza chi scarta alcune pietanze della mensa scolastica perché ha sentito che "in Vietnam non hanno da mangiare"). Si adatta, ma non capisce. E non riesce a far qualcosa per cambiare la situazione.
Come la Taeko quasi trentenne. Che ha un lavoro che le serve per campare, ma non la esalta, e resiste ai tentativi della madre di farla sposare, ma senza dichiarare con fermezza che un matrimonio combinato non le interessa.
Fra i ricordi e i mille piccoli momenti che scandiscono il soggiorno in campagna, il film arriva a una svolta: la madre di Toshio chiede a Taeko se le piacerebbe sposare il figlio. "Non faresti solo la contadina, tutte le ragazze qui hanno anche un lavoro in città". Il marito, stupefatto, la rimprovera: "Taeko è nata e vissuta a Tokyo, come pensi che voglia rinunciarci". La zia di Toshio si intromette, ribattendo che Taeko ha dichiarato come in campagna si senta a casa. Taeko non risponde: mentre i tre discutono, fugge via.
Correndo nella pioggia, riflette sul fatto che si sente falsa, perché si è voluta costruire in campagna un passato idilliaco che non ha, e ha voluto prendere contatto con la vita rurale quando era bello e comodo, nel periodo della fioritura, non nel gelido inverno.
Sotto l'acqua battente arriva Toshio in macchina, e la fa salire. Non comprende cosa sia accaduto. Lei non glielo spiega, ma racconta un episodio della sua infanzia che le è tornato in mente: un suo compagno di quinta elementare, un ragazzino povero schifato da tutti gli scolari, un bullo perennemente sporco con cui condivideva il banco pur sentendosi a disagio, si è rifiutato di stringerle la mano quando è andato via dalla scuola, a lei sola fra tutti i compagni. Il ricordo la tormenta.
In una scena perfettamente costruita fra dialogo e lunghi silenzi, Toshio fuma. E poi dice la sua.
"Perché per voi ragazze è così difficile capire?"
Quel ragazzino non le ha voluto stringerle la mano perché lei gli piaceva. Le sue mani erano sporche, e lui sapeva che questo la disgustava. Ha stretto la mano a tutti gli altri per far loro
dispetto, ma a lei no.
E' una vicenda piccola, ma come sempre nei film di Takahata, ha la sua valenza. Il passato è passato, e ciò che è successo può avere motivazioni che ci sono sfuggite. Qualunque cosa sia accaduta, arriva il momento di lasciar andare. E guardare avanti.
Ha smesso di piovere, e Toshio e Taeko tornano dai genitori di lui. Nel tragitto, Toshio riaccende l'autoradio per ascoltare altra "musica da bifolchi": è uno stornello italiano. La commistione fra la musica, il paesaggio e l'emozione silenziosa della protagonista è qualcosa di unico. E porterà al finale, che come spesso accade nei film dello Studio Ghibli si dipana sui titoli di coda: Taeko prende il treno per tornare a Tokyo, e il treno vuoto è popolato dai suoi compagni di classe della quinta e dalla Taeko decenne. D'impulso scende alla prima fermata, e prende il convoglio che la riporterà in campagna. Mentre sale sulla macchina di Toshio, che le è venuto incontro, i compagni di scuola la salutano con la mano, e scompaiono.
Chi volesse leggere altri dettagli su Omohide poro poro può consultare l'ottima scheda pubblicata su Wikipedia: vi è riportato fra l'altro che questo film, pur essendo uno dei capolavori di Takahata, potrebbe essere considerato dagli spettatori occidentali come antifemminista e conservatore, perché Taeko rinuncia al suo lavoro e alla sua vita indipendente a Tokyo per sposare Toshio.
Non sono d'accordo.
L'accento del film non è sul fatto che Taeko rinuncia al suo lavoro per sposarsi; del resto, è la stessa madre di Toshio a dirle che ogni ragazza in campagna ha anche un lavoro in città. L'accento è sul fatto che per la prima volta in vita sua Taeko sceglie.
Il tema principale di Omohide poro poro è universale. E' la frattura che vive, credo, ogni essere umano: quella fra l'essere e il dover essere (chi ha qualche dimestichezza con Heidegger userebbe i termini Sein und Dasein), e la necessità di barcamenarsi fra i due. Un barcamenarsi che, spesso, porta a non vivere, perché adattarsi è possibile fino a un certo punto, e reprimere ciò che si è - semmai si riesca a capire ciò che si è, ma è improbabile quando ogni sforzo è teso a restare a galla: si sente solo il malessere - soffoca lentamente.
Optare per il dover essere è tirare i remi in barca, e lasciarsi portare dalla corrente. E' quello che, per citare una canzone di Lucio Dalla, "fa morire a vent'anni, anche se campi fino a cento".
Scegliere di essere è molto più difficile da definire. Per ciascuno è differente, proprio perché ognuno sceglie di uscire dalla corrente a modo suo. Ma per tutti è un'esperienza tutt'altro che semplice: vuol dire lasciare il solco comodo e già tracciato e fare la fatica di tracciarne uno a propria misura (con il rischio di trovare spesso zolle durissime), o per usare un'immagine gastronomica, visto che questo è un blog di cucina, rinunciare alla pappa pronta. E se ci rinunci, devi essere tu a preparartela.
Ma facendo questo, si attua ciò di cui parla fra sé e sé Taeko mentre è in viaggio da Tokyo verso la campagna, e che mi fa pensare che il tema del fim sia quello del cambiamento, e della scelta che ogni cambiamento precede: arriva il momento in cui il bruco diventa pupa, per poi trasformarsi in farfalla.
Omohide poro poro mostra, con una piccola storia, magnifici disegni e un'animazione magistrale, che ciò è possibile, e può essere molto bello.
Finita la visione ho ringraziato il mio compagno per avermi fatto conoscere un film così pieno e così bello.
Lui mi ha guardato, e ha sorriso.
"Non devi ringraziarmi. E' solo un cartone animato. Non è questo che dicono dei film di animazione?"
Eggià. E' solo un cartone animato.
Ma se ve ne procurate una copia in qualche modo, visto che ovviamente ancora non è uscito in Italia, vi fate un favore.
Da domani si ricomincia a parlare di cucina. Promesso.
Buona domenica.
Paperblog